Il sogno di una realtà diversa

| | |

Come in quasi tutte le edizioni, la Biennale registra come un sismografo quanto si muove nel mondo delle arti

di Enzo Santese

 

In questo tempo governato dall’incertezza in molti ambiti, dal culturale all’economico, dal politico al… mentale, è marcata la spinta a uscire dalla realtà per trovare abbozzi di risoluzioni e antidoti efficaci in un “altrove”; il credo surrealista può essere un buon viatico per mettere in sordina i colpi della sorte e ripristinare il carico di energie utili allo scatto verso la rinascita. A ciò potrebbe aver pensato Cecilia Alemani, curatrice della LIX Biennale di Venezia, intitolata Il latte dei sogni, idea mutuata dalla scrittrice e artista Leonora Carrington (1917-2011) che con il libro di favole omonimo accompagna i lettori in un’oasi di luce e prelibatezze, da dove è possibile registrare i sussulti metamorfici dell’esistente e dar corpo alle illusioni più visionarie. Come in ogni edizione, la rassegna veneziana poggia su una logica espositiva ternaria, distribuendo le presenze nelle due sedi tradizionali dei Giardini e dell’Arsenale e in molti punti dei vari sestieri numerose proposte artistiche interessanti che, in tal modo, rendono la mostra non un corpo a latere della città, ma un poliedrico cuore, pulsante di decine di novità nell’ambito della pittura, della scultura, dell’installazione, del video e della fotografia. Dopo la flessione degli scorsi anni (quelli precedenti alla sospensione pandemica) l’incontro di fotografia e cinema trova nel video un’applicazione piuttosto diffusa e con risultati spesso apprezzabili.

La parte centrale dei Giardini, quella sotto la guida diretta dell’Alemani, è in piena sintonia col carattere dell’opera da cui la Biennale deriva il titolo: una ventata surrealista su spazi dove la celebrazione del femminile, oltre all’affermazione di genere, è rilievo di grande qualità. I numeri sono estremamente indicativi in proposito: dei 213 artisti presenti, provenienti da 58 nazioni, ben 180 partecipano per la prima volta. È un vasto coro di voci soprattutto femminili che danno il tono a questa edizione caratterizzata da un titolo a prima vista stravagante,

La cruda attualità piomba comunque di prepotenza sulla rassegna lagunare, con la chiusura del padiglione russo, deciso dai curatori e dagli artisti già prima di eventuali provvedimenti restrittivi europei. L’Ucraina invece ha un’accoglienza di privilegio con opere che riportano il visitatore nell’atmosfera di quanto la guerra sta provocando in quel paese con le distruzioni di paesaggi, cose e persone ad opera dell’armata russa. Non poteva essere diversamente anche perché, nella sua inevitabile parzialità, la manifestazione è pur sempre la vetrina di quanto si muove nello scenario contemporaneo e dei suoi riflessi sul pensiero e sulle opere di artisti provenienti da ogni parte del mondo.

L’edizione di quest’anno ha il pregio di un’originalità che si esprime non a danno dello specifico contributo che l’arte, nelle sue determinazioni più varie, offre in questo momento. C’è in diversi luoghi espositivi il segno di una volontà di colpire la fantasia del visitatore con una quota di provocazione, che a volte esce dalla dinamica dell’artisticità ed entra in quella del tabellone scenografico e talora pubblicitario. A cominciare dalla grande sala centrale, quella progettata e diretta in prima persona dalla Alemani, dove campeggia il calco di un grande elefante posto su un piedistallo incombente. L’autrice Katharina Fritsch (Essen, Germania, 1956) in questa edizione premiata con il Leone d’oro alla carriera assieme alla cilena Cecilia Vicuña, ha abituato il pubblico alle sue sculture di dimensioni abnormi che ricalcano fedelmente l’anatomia dei soggetti, proiettandoli poi in una direzione onirica e fantastica con colori dalle tonalità accese; questo pachiderma ha un colore spiazzante, un verde più adatto a un vegetale che a un animale.

Cecilia Vicuña (Santiago del Cile, 1948), abituata a misurarsi con l’arte figurativa, la performance e la poesia, si concentra su un lavoro di tessitura capace di un forte rimando metaforico sul tema della connessione, della funzione simbolica del linguaggio, in un contesto geografico e antropologico, frequentato direttamente per diverso tempo, in cui i tessuti rivestono una forte rilevanza simbolica.

Non può mancare qualche proposta bizzarra che risponde all’esigenza degli autori di farsi notare a tutti i costi in mezzo al cumulo di richiami che l’evento contiene. Tra questi c’è sicuramente l’opera della danese Sidsel Meineche Hansen (Ry, Danimarca, 1981) che nel suo video Maintenance, realizzato assieme a Therese Henningsen, ci fa entrare in una casa di piacere tedesca dove una bambola in silicone viene preparata in maniera da rispondere alle attese erotiche dei clienti. In ossequio al titolo di derivazione surrealista c’è sicuramente il predominio di creazioni pensate per sottolineare il problema di affioramenti psicologici difficili, dovuti ad ansie ossessive e profondi disagi, molte volte risolti con viaggi onirici in realtà “altre”, dove l’impalpabilità del sogno e la potenza immaginifica rendono più sollecitante la piattezza del quotidiano.

In aggiunta agli artisti della rassegna di Cecilia Alemani ci sono quelli inseriti nei Padiglioni nazionali, che hanno un’autonomia, in certi casi totale.

Alcuni per vari motivi meritano una citazione; tra questi c’è sicuramente l’Australia  rappresentata da Marco Fusinato, di origine italiana, (Melbourne, 1965) uno degli artisti più noti del suo paese, che è presente anche fisicamente nel padiglione australiano, dove esibisce quotidianamente se stesso in Desastres, una performance con chitarra elettrica, dalla quale fa scaturire segnali in un continuo crescendo di suoni e baluginio di immagini e, quindi, il pubblico ha una sua centralità nell’opera giocata sulla frizione di opposti, rumore/silenzio, ordine/caos, purezza/contagio.

Anche l’Austria, con Jakob Knebl e Ashley Hans Scheirl, si affida alla performance dove confluiscono le tensioni creative di design e moda in un’idea di sessualità tutta particolare, che permea di sé gli “spazi del desiderio”: qui il visitatore è invitato esplicitamente a lasciare fuori dalla zona dell’evento ogni pensiero sia rappreso nella convenzione.

Il Leone d’oro è andato a Simone Leigh, afroamericana nata a Chicago nel 1967. Di solito le decisioni della giuria scatenano la bagarre delle posizioni contrapposte, anche perché spesso non è chiaro il criterio di assegnazione del riconoscimento. Questa volta invece sembra che il consenso sia generale; ciò amplifica il merito dell’artista che, per arrivare al risultato, non ha usato malizie capziose oppure una grammatica compositiva fumosa per dire quello che pensa. La sua denuncia, se possibile, è fatta sottovoce, senza minimamente affidare il suo pensiero alla retorica delle grida. L’opera dispone una teoria di idoli di bronzo, acciaio e grès che attira lo sguardo dell’osservatore sulla diaspora africana nel corso della storia. C’è un legame sottile, ma non casuale che lega questa presenza ai contenuti del Padiglione della Gran Bretagna, a cui è andato il Leone d’oro per la migliore struttura nazionale ai Giardini. E il continente africano ha il suo riverbero su Sonia Boyce, artista britannica di origine afro-caraibica, classe 1962, che ha proposto un’installazione multimediale con video, musiche, carte da parati e oggetti scultorei. Collaboratori e visitatori sono cooptati in una situazione in cui parlano, cantano e si muovono ognuno secondo la propria idea del momento.

La proposta della Grecia prende le mosse dalla tragedia di Sofocle (496-406 a. C.) Edipo a Colono per delineare nel film di Loukia Alavanou una condizione simmetrica tra l’interdizione del popolo ateniese sulla sepoltura di Edipo a Colono e la condizione di una comunità rom, stabilita in una baraccopoli della capitale greca, a cui le autorità impediscono la sepoltura nei luoghi vicini alla sua residenza attuale. Il che negli intenti dell’autrice equivale a dire che il tempo, 2500 anni, macina cose, persone ma la mentalità si trasmette sempre con la stessa fisionomia concettuale.

Il padiglione di Israele scardina poi la logica del già acquisito, a cominciare dalla collocazione dello spazio espositivo, orientandolo da occidente a oriente mettendo in discussione l’attuale centralità dell’Europa e spostandola verso il Medio Oriente in un’opera, Queendom, dove una combinazione di fotografia, elementi architettonici, suoni, video e performance consentono all’artista Ilit Azoulay (Tel Aviv, 1972) che vive e lavora a Berlino, di affermare la decisa presa di coscienza delle potenzialità del femminile nel suo paese d’origine.

I paesi nordici, Finlandia, Norvegia e Svezia, convergono nella decisione di affidare la loro rappresentanza a tre artisti “sami”, appartenenti cioè alla popolazione distribuita nei territori dei tre paesi; così Pauliina Feodoroff, Maret Anne Sara e Anders Sunna danno vita a un evento espositivo molto efficace nell’illustrazione dei tratti peculiari della loro nazione nativa, inquadrando anche la questione dei cambiamenti climatici e le prospettive di decolonizzazione.

L’opera messa in mostra dall’Ucraina ha una decisa rilevanza, emblematica della situazione in cui è precipitato quel paese: The Fountain of Exhaustion è una scultura cinetica formata da 78 imbuti di bronzo disposti a piramide. L’acqua versata in ognuno di questi elementi divide il flusso in due zampilli che vanno ad alimentare gli imbuti sottostanti. Le poche gocce che raggiungono il fondo sono un monito sul prossimo esaurimento delle risorse naturali e sull’azzeramento prodotto dalla guerra.

L’Italia nel padiglione situato nell’Arsenale alle Tese e al Giardino delle Vergini,è rappresentata da un unico artista, Gian Maria Tosatti (Napoli, 1975), autore della spettacolare installazione multimediale Storia della notte e Destino delle Comete che accompagna il visitatore in un viaggio iniziatico dalla considerazione degli errori passati alla ipotetica realizzabilità futura dei sogni, attraverso il racconto del difficile equilibrio tra uomo e natura. Impegna in questo intervento una suggestiva combinazione di media diversi, dai riferimenti letterari alle arti visive, dal teatro alla musica e alla performance.

La città di Venezia è punteggiata da eventi in moltissimi suoi palazzi storici e sedi prestigiose, dove sono ospitate rassegne sia di Stati nazionali sia di istituzioni culturali.

Alle Gallerie dell’Accademia, per esempio, si apre l’ampia retrospettiva di una delle presenze più significative dello scenario artistico internazionale, Anish Kapoor, indiano di nascita (Mumbai, 1954), britannico di adozione, che tra le sue opere e le dotazioni medioevali e rinascimentali delle gallerie crea un dialogo fitto di richiami alla magia dei contrasti che si ricompongono poi in suggestive sintesi. Nelle opere più recenti c’è una citazione delle sue prime sculture, dove si definisce l’idea del “non oggetto”, ma con una marcata spinta al nuovo in una poetica impegnata a utilizzare la nanotecnologia del carbonio.

Alla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova (e in contemporanea al Magazzino del Sale) si ricostituisce a livello espositivo un’amicizia lunga e proficua, quella di Emilio Vedova appunto (Venezia, 1919-2006) e di Arnulf Rainer (Baden, Vienna, 1929), in un evento capace di illuminare con chiarezza alcuni aspetti dell’astrattismo e dell’informale, due tensioni creative capaci di attrarre numerosi pittori nella seduzione del gesto, del segno e della materia.

Alla Biblioteca Marciana infine è di scena Federica Marangoni, artista veneziana, classe 1940, che è stata una delle prime a sperimentare la combinazione di più elementi della tecnologia in proposte multimediali di grande originalità, come in questa circostanza in cui fa dialogare i dati fisici con quelli virtuali, mediante la fusione scenica di video, luci al neon con l’architettura cinquecentesca dell’edificio che la ospita.

 

Katharina Fritsch

L’elefante

1987

poliestere, legno e vernice

Foto di Alexandra Mitakidis