Mamma, dammi un nome

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Nell’atelier di Qing Yue, dove s’incontrano Oriente e Occidente

di Viviana Novak

 

È l’Anno della Tigre, terzo segno dell’oroscopo cinese quando Cinzia, intorno ai vent’anni, chiede alla madre di regalarle un nome nuovo, nel rispetto di un’antica tradizione. E la madre sceglie per lei il nome di Qing Yue, Luna Chiara.

“È normale in Cina cambiare nome quando raggiungi la consapevolezza di voler fare qualcosa di diverso ed io, intorno ai vent’anni, ho scelto.”

Sceglie l’arte Qing Yue, anche se con gli anni conseguirà la laurea in Scienze politiche, e intraprenderà vari percorsi umani e professionali. Nata a Macau, spirito nomade e versatile, di madre cinese e padre dalmata, rappresenta con un leggero anticipo sui tempi quello che sarà il mondo di domani, ma che è già il mondo odierno nelle sue diverse contaminazioni.

Oggi mi accoglie nel suo atelier, in un quartiere triestino che già di per sé è espressione artistica, permeato delle atmosfere liberty dall’architettura di Zaninovich.

È bella Qing Yue e radiosa, come solo certe orientali sanno essere, conservando nel tempo gentilezza e temperamento. Un po’ fenice e un po’ drago.

Il luogo in cui sono raccolti con ordine e precisione i suoi lavori è uno scrigno della creatività, che si presenta con un’eleganza composta e raffinata. Unica citazione liberty, inequivocabile omaggio al genius loci, una panca in legno lavorato che accoglie l’ospite. Qui, una volta terminati, vengono raccolti i suoi lavori. Una collezione di abiti dipinti e stampati, che lei ha recuperato e riutilizzato, vestendoli di disegni e ideogrammi che evocano reminiscenze di un oriente lontano. Il primo impulso di vanità femminile ti indurrebbe a indossarli tutti, in una continua metamorfosi da donna/maga a donna/farfalla a donna/sirena.

Nella stanza attigua si apre, come in una quinta teatrale, la sequenza di giganteschi animali che rappresentano l’oroscopo cinese. È un impatto forte, carico di colore e di tensione. Torni alla fascinazione di un antico mondo perduto, quello delle favole di quando eravamo bambini.

Parlando della sua pittura, Qing Yue mi dice che la sua è una scelta autonoma che non si colloca in nessuna corrente; vuole soltanto rivendicare la propria doppia identità in bilico fra due diverse culture, attraverso la citazione di draghi, fenici, pesci, cavalli e di altre figure allegoriche e ornamentali.

Un dialogo costante tra oriente e occidente, che la porta continuamente a sperimentare nuovi linguaggi e nuove tecniche: stampa sulla seta, ma anche su fibre sintetiche e similpelle, dopo aver scolpito nella matrice di linoleum i propri segni. Superfici tese su grandi telai in legno e lastre di plexiglass ricevono il suo gesto.

Sedute all’ombra, nello spazio antistante il suo atelier, non è possibile sottrarsi alla curiosità che la sua presenza ti stimola. E capisco fin dal primo momento che è già un romanzo la storia della sua famiglia. Un bisnonno nativo di Nanxun, mandarino dell’Imperatore, suo consigliere e ministro. Un arco decorato ricorda ancora oggi in questa città l’importanza della famiglia. Un nonno, che partecipando all’Expo di Parigi del 1908, aveva promosso l’esportazione della seta dalla Cina all’Europa. Una madre, Xing Sibo, che voltando le spalle a una secolare tradizione di casta nobiliare e pur essendo promessa a un ricco cinese, appena diciannovenne s’innamora dello straniero conosciuto durante una crociera: Mario Giancovich, un aitante ufficiale, originario di Zara, che sposerà nel ‘38 ribellandosi al volere della famiglia. Un sovvertimento delle regole che mai meriterà il perdono materno.

Sibo lascia Shanghai, la sua agiata dimora, dove ha potuto ricevere un’educazione da tutori privati e dove (cosa rara per una giovane donna cinese) ha praticato il tennis e l’equitazione, con il piacere di infrangere le regole da vera anticonformista.

Tra i quattro figli che nasceranno, Qing Yue è la terzogenita. Appena nel ’67, Xing Sibo sarà in Italia con le due figlie più piccole mentre il marito le raggiungerà nel’72, dopo incredibili peripezie, compreso un lungo periodo di prigionia a Hong Kong e in India durante la guerra.

In effetti, parlando con Qing Yue, che ha vissuto oltre che in Cina e in Europa anche in India, ci si rende conto che nella produzione artistica si prefigge degli obiettivi di multiculturalismo e di dialogo fra le diverse componenti della sua formazione.

“Quando portai a Shanghai, tra il 2014 e il 2015, le mie opere per alcune mostre, mi trovai a discorrere con la vice-direttrice del Museo della Pittura e Scultura e questa, con mia sorpresa, mi disse che i soggetti dei miei lavori si inserivano perfettamente nella tradizione cinese, mentre i colori e le tecniche erano decisamente occidentali. Ero convinta di trovare in Cina artisti con produzioni simili alle mie. Invece… nessuno! Fui colpita da questa osservazione e capii che forse stavo realizzando il mio obiettivo iniziale: unire i due mondi e creare un ponte fra le due culture.

Il mio primo interesse è stata la fotografia. A dodici anni mi chiudevo con papà nella camera oscura per sviluppare e stampare. Poi a quindici anni cominciai a sperimentare i murales. Uno lo realizzai addirittura lungo il muro della nostra abitazione triestina, vicino al faro.”

Parliamo delle sue mostre, perché, tra personali e collettive, Qing Yue ha esposto in Austria, Bosnia, Cechia, Cina, Croazia, Germania, Grecia, Hong Kong, Italia, Slovenia, Svezia e USA. Serba un particolare ricordo della sua partecipazione alla Biennale Internazionale di Venezia, padiglione del FVG, dove nel 2011 gli artisti della regione esposero le loro opere nel Magazzino 26, che si apriva per la prima volta al pubblico, dopo l’intervento conservativo.

“Questo è l’Anno del Cane per l’oroscopo cinese ed è un anno buono; ho lavorato tanto… undici soggetti ed un’installazione con tutti gli animali del calendario. L’Anno del Gallo non è stato così… Le cose vanno meglio ora.”

Sorrido alla donna orientale che parla con il timbro di un’antica saggezza.

Alle pareti alcune fotografie la ritraggono con il Nobel per l’Economia John Nash e la moglie Alicia, in visita a Trieste al Parco di Miramare, altre a Parigi con Claudia Cardinale, alla quale aveva donato una sua opera. Nel commento si legge: “Qing Yue, impegnata da anni in iniziative sotto gli auspici dell’Unesco, per la promozione della cultura della pace, a sostegno dei bambini dei Paesi in via di sviluppo…“

Poche sono le domande che riesco a farle perché lei si è abbandonata ormai alla fluidità di un raccontare generoso che non omette nulla. Vorrei sapere come sente questa città, dove ha scelto di vivere, quali sono i progetti futuri, come si vive da artista nomade… “Ho fuso le mie identità da bambina, un lavoro interiore importante… Per fortuna ho avuto molti aiuti. Sono cosciente di avere nel mio vissuto due culture eccezionali, che però mi hanno stravolto. A Trieste, al mio arrivo, avvertivo il peso della diversità e la città era spiazzante, così piccola e diversa dalle altre città della mia vita. Col tempo ho imparato a viverci e ora sto bene. Sto lavorando a vari progetti, in particolare ad uno che mi sta a cuore: coinvolgere artisti triestini in una mostra su Maria Teresa, da organizzare in Austria a Ströbl, vicino a Salisburgo. Sono presidente, infatti, di un’associazione che promuove lo scambio artistico internazionale.”

Le chiedo poi dei suoi figli e dei valori che è riuscita a trasmettergli.

“Ad avere l’apertura mentale. A vivere nel mondo. Pensa che mia figlia ha conosciuto il proprio marito a Shangai. Sento che così si è chiuso il cerchio”.

Nelle stampe e nelle pitture di Qing Yue i pesci sono costantemente presenti. Fermi o dinamici, coinvolti in un vortice di movimenti.

“Guarda… c’è un pesce rosso. Lo vedi? È mia madre! Lei che ha sfidato il mondo per amore si è trovata i pesci contro, ma non è stata sconfitta. I miei genitori li onoro ogni tanto con un rito cinese: vai dal tuo dio e gli chiedi un favore con la mediazione di un monaco”.

Non voglio sapere che cosa ha chiesto al suo dio Qing Yue, lei che è un po’ buddista e un po’cattolica e deve coniugare anche due diverse tradizioni religiose. Ma forse la sua vera religione sta in una frase che mi ha detto all’inizio del nostro incontro: “Per me l’arte è prima di tutto etica”.