Pinocchio in fuga

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Il viaggio gioioso e intelligentissimo di Giorgio Agamben nel mondo del burattino di Collodi

di Francesco Carbone

 

– C’era una volta….

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.

– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.

(C. COLLODI, Le avventure di Pinocchio, 1881)

 

Sarà capitato a tutti di ascoltare lezioni o conferenze, o di leggere saggi magari ponderosi che avevano l’esiziale capacità di rendere noiosi a morte autori entusiasmanti, vitali, che riempiono di voglia di vivere e di essere allegri. Spesso, se non sempre, erano concioni in cui si sciorinavano giudizi che pretendevano di definire, inquadrare, contestualizzare a forza di categorie scrittori che magari di questo tipo di apparati non avevano mai saputo nulla. Giorgio Agamben, ancora una volta meraviglioso, ci ricorda che «categoria significa etimologicamente “accusa”» (Pinocchio, Einaudi 2021).

L’opera d’arte richiede l’esatto contrario dell’essere quietata – e sepolta – sotto una montagnola di definizioni. Piuttosto quando si tratta di arte sarebbe il caso – come ci dice anche Oscar Wilde nella Prefazione al Ritratto di Dorian Gray (1890) – di non cercare troppo di essere tutti d’accordo.

Agamben ci mostra come i No di Pinocchio – e del suo «anarchico» autore – salvano lo spazio in cui il burattino sarà vivo. Non meno di questa è la posta in gioco delle sue disobbedienze. Pinocchiesca per Giorgio Manganelli è tutta la letteratura – che non è mai «cultura» – e che a sua volta andrà sempre tenuta al riparo da qualunque «minaccia pedagogica».

Di Manganelli nel 1977 era uscito il meraviglioso Pinocchio. Un libro parallelo (Einaudi, ora Adelphi 2013). Agamben azzarda un’operazione allegra e intelligente: seguire e chiosare assieme i capitoli del capolavoro di Collodi e del libro parallelo di Manganelli, per Agamben una delle «massime scritture del Novecento», non solo italiano (Categorie italiane, Quodlibet 2021). È un viaggio gioioso e intelligentissimo anche grazie al controcanto costante delle immagini di tre degli illustratori storici delle Avventure di Pinocchio: Enrico Mazzanti (la prima edizione del 1883), Carlo Chiostri «figurinaio fiorentino» per Bemporad & Figlio nel 1901, e Attilio Mussino, per lo stesso editore nel 1911.

Il bello è che Agamben lo fa in un modo così godibile che non richiede per forza lettori che conoscano il libro di Manganelli. Per godere, può persino bastare quanto di Pinocchio tutti sanno perché la sua è una di quelle storie che vagola nell’aria, come quella di don Chisciotte, o di Ulisse, o del triste principe di Danimarca. Collodi e Manganelli si andrà – si spera – a cercarli subito dopo. E si potrà ricominciare da capo, proprio perché Pinocchio è uno di quei libri che non finiscono mai.

Torniamo ai No di Pinocchio e del suo «anarchico» autore. Pinocchio sfugge sempre: al suo goffo e del tutto inconsapevole pseudo-padre (Geppetto voleva solo farsi un burattino e, dice a Mastro Ciliegia, con lui «girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino»), e quindi scappa dai carabinieri, dal grillo parlante, dalla scuola, dalla fata turchina, e certo dalle sue stesse molto provvisorie intenzioni.

Quel primo No con cui «l’anarchico Collodi» ci fa entrare nella storia di Pinocchio è come l’accordo in Re minore con cui comincia il Don Giovanni di Mozart: tutta la storia, sempre in bilico tra farsa e tragedia, richiama e rimanda a questo inizio.

Da qui, seguendo Agamben – e Manganelli – accompagnamo sempre più complici Pinocchio, che rifiuta «di andare a scuola a imparare qualcosa». E anche se «tutti trattano Pinocchio come se fosse già il ragazzo che finirà per essere […] per la stessa ragione, il burattino si ribella con tutte le sue forze a questa sorta del malaugurio, a questa fraudolenta metafisica». Questo vale per tutte le figure che crediamo di sapere a memoria: «nella non-fiaba di Pinocchio, i personaggi fiabeschi sono tutti in qualche modo diminuiti e smagati: se Mangiafuoco è un Orco fallito, anche la bambina sarà una fata fallita – magari perché, morendo o fingendosi morta, ha perduto i suoi poteri»; e Geppetto a sua volta non è forse un non-padre che nella pancia del pescecane verrà adottato da quel quasi figlio incapace di obbedienza? Geppetto si scopre padre appena Pinocchio scappa, da quel momento ritrovandosi nel «mestiere impossibile» (Freud) del genitore.

Il libro di Collodi si rivela inafferrabile come il suo protagonista: «la storia di Pinocchio non è una fiaba, non è un romanzo, non è una favola: è una singolare ibridazione di questi tre generi, una sorta di chimera, col muso di favola, il corpo di romanzo e una lunga coda fiabesca». Nelle favole regna la magia; cinque anni prima di Pinocchio, nel 1875, Collodi aveva tradotto meravigliosamente quelle di Perrault e Madame d’Aulnoy (I racconti delle fate, Adelphi 1976): da Cappuccetto Rosso alla Bella addormentata nel bosco, da Cenerentola al Gatto con gli stivali. Collodi conosceva bene le regole, ma qui «niente incantesimi, niente noci fatate e animaletti che compiono insperati miracoli per salvare principi e principesse dagli orchi e dalle fate cattive. Se Pinocchio si trasforma in somaro, [è] per una logica e fatale conseguenza della sua scioperataggine».

Le avventure di Pinocchio non è neppure, come si è tante volte ripetuto, «un capolavoro scritto per caso» (la formula fu inventata da Pietro Pancrazi in un articolo per il Corriere della Sera del 5 febbraio 1948; ora in Scrittori d’oggi, Serie V, Laterza, 1950). Agamben ci fa leggere un po’ delle idee di come si scriva un romanzo che Collodi, già nel 1857, aveva parodisticamente presentato in Un romanzo in vapore (Giunti 2010): le storie non vanno mai tirate per le lunghe perché il nemico mortale della narrazione è la noia; per questo si può ricorrere anche a effettacci come ambientare le scene in notti buie e tempestose; ogni capitolo va concluso con una sorpresa, da spiegare rapidamente nel capitolo seguente, per proporne presto uno nuovo, liberissimo l’autore di saltare «di palo in frasca». È un ottimo ricettario non solo per capire come Collodi ha cucinato le Avventure di un burattino, ma il mestiere di Dumas, di Dickens, del Kafka di America, e certo del nostro Orlando furioso.

Italo Calvino aveva già riconosciuto che con Pinocchio siamo in una storia picaresca, in un «libro di vagabondaggio e di fame, di locande malfrequentate, sbirri e forche» (Saggi 1945-1985, Mondadori 2007); Agamben aggiunge che dei picari il burattino ha quel «vivir desviviéndose […], caparbiamente mancando e sfuggendo la propria vita». E infatti, «quando fa il buono, Pinocchio non vive, non ha storia, non gli accade nulla». Si potrà dire: quando Pinocchio è quello che gli altri vorrebbero che fosse, non è più Pinocchio.

Carmelo Bene reinventò a teatro la stessa «indisciplina cieca d’un pezzo di legno crocifisso da pro-verbi tricolori della carne» e la parabola del burattino come l’«inumazione prematura di una salma infantile che scalcia nella propria bara», e l’ostinarsi nel «rifiuto alla crescita (che) è conditio sine qua non all’educazione del proprio femminile» (C. BENE, Opere. Con l’autografia d’un ritratto, Bompiani 1995).

 

Agamben – con Manganelli – si pone all’opposto di qualunque lettura moralistica di Collodi. Ecco una brevissima antologia: per Giovanni Spadolini era un libro mazziniano in cui «i valori di patria si conciliano con quelli di umanità» (Il mondo frantumato, Longanesi 1992); per il cardinale Biffi in Pinocchio «la verità cattolica erompe travestita da fiaba» (Contro Mastro Ciliegia, Jaka Book 2020); per Elémire Zolla «il Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intollerabile» (Uscite dal mondo, Adelphi 1992). Si potrebbe continuare.

No, appunto: Pinocchio anche da tutto questo scappa, e non si lascia appendere all’albero di alcun significato ulteriore: «Pinocchio non è un iniziato, nemmeno quando si trasforma in bambino: non sa alla fine dire altro che: “com’ero buffo, quand’ero un burattino!”. Buffo, soltanto buffo – come in una farsa o in una burla in cui non c’è proprio nulla da capire». Non c’è una riga in cui Collodi si curi di giustificare cosa accade. Nel teatro di Mangiafuoco, per esempio, dell’«incondizionata, comica agnizione» di tutti i burattini che riconoscono nel neonato Pinocchio il loro fratello, «Collodi non fornisce spiegazioni di sorta»: a cosa servirebbe, del resto?

Agamben ci propone invece un concetto – e un metodo – che prende da Walter Benjamin: il testo di Pinocchio è quello dove potrà darsi una «illuminazione profana» proprio a condizione di riconoscervi «il quotidiano come impenetrabile e l’impenetrabile come quotidiano» (W. Benjamin, Ombre corte, Einaudi 1993). Scrive Agamben: «la sola morale è che nulla è com’è: né legno il legno, né amico l’amico, né asino l’asino, né fata la fata, né grillo il grillo, ma tutto si cambia e continuamente tramuta» Queste le condizioni che possono permettere il godimento non solo del racconto ma dei suoi stessi buchi, delle contraddizioni e degli arbitri di una storia che procede sfacciatamente, appunto, «di palo in frasca».

Proprio perché Pinocchio non è riducibile a un simbolo per una pedagogia qualunque, «il burattino è, in questo senso, una cifra dell’infanzia, a patto di intendere che il bambino non solo non è un adulto in potenza, ma la sua non è nemmeno una condizione o un’età: è una vita di fuga. Da che cosa? Da tutte le antinomie che definiscono la nostra cultura, tra l’asino e l’uomo, certo, tra la follia e la ragione, ma prima ancora fra il ragazzino per bene che non è che un adulto immaturo) e il selvatico pezzo di legno». E infatti non diventa un bambino: «l’invenzione forse più geniale di Collodi […] si scopre solo a questo punto»: il finale del libro ci mostra un bambino che è stato Pinocchio, e che ritrova quell’altro che non è più, marionetta ormai inerte, nella «stanza accanto».

Leggiamo nel retro della copertina che questo libro «comunica segretamente» con il precedente La follia di Hölderlin (Einaudi 2021). Come la natura di Pinocchio, la follia di Hölderlin resta indefinibile. Agamben aveva già scritto che ogni autentica ricerca, ogni quête, «non consiste nel ritrovare il proprio oggetto, ma nell’assicurare le condizioni della sua inaccessibilità» (Stanze, 1977). Si potrebbe tradurre: oggi amore è tale se è capace di lasciare che l’oggetto amato resti sé stesso: mai afferrato, mai concluso, mai saputo.

 

 

Giorgio Agamben

Pinocchio Le avventure di

un burattino doppiamente

commentate e tre volte illustrate

Einaudi, Torino 2021

pp.200 illustrate, euro 20,00