Tre nomi, un mito: Robert Capa

| | |

di Paolo Cartagine

 

Era un giovedì il 22 ottobre 1913 quando a Budapest, nella famiglia Friedmann di origine ebraica, arrivò Endre Ernö.

Il suo peregrinare esistenziale lo portò prima a Berlino per frequentare un corso di giornalismo e diventare aiutante dell’importante Agenzia Fotografica Dephot, poi a Vienna.

Nel 1933 esule a Parigi con il nome di André Friedmann incontrò Gerda Taro, una profuga tedesca, e se ne innamorò.

Il lavoro di fotografo era scarso, bisognava trovare una soluzione, e Gerda inventò l’esotica identità di un fotoreporter americano con un nome breve, facile da pronunciare e memorizzare. Fu la svolta professionale decisiva: tutti lo cercavano anche perché si erano accorti che Robert Capa fotografava in modo straordinario, come mai nessuno prima.

Nacque così l’indimenticabile e imperdibile leggenda del padre del fotogiornalismo, considerato il primo reporter di guerra, un mito arrivato fino ai nostri giorni.

Gerda fu il suo più grande insostituibile amore tragicamente spezzato nel 1937 nella Guerra Civile Spagnola. Capa cercherà altri effimeri legami sentimentali sostitutivi di un’irripetibilità: Ingrid Bergmann sul set di Notorious diretto da Hitchcock nel 1946, nel ’49 Doris Dowling, l’antagonista di Silvana Mangano in Riso Amaro di De Sanctis.

In una vita da eterno girovago sul palcoscenico del mondo, in un incessante viaggio spazio-tempo in luoghi non sempre propriamente innocui, ebbe come amici, tra gli altri, i pittori Picasso e Matisse, gli scrittori Hemingway, Steinbeck, Shaw e Capote, i registi cinematografici Ivens, Hawks e Huston, gli attori Humphrey Bogart, Gary Cooper, Anna Magnani e Ava Gardner.

Iniziò la sua carriera fotografica nel ’32 con un servizio su Trockij a Copenhagen per la Dephot, diventando poi corrispondente di guerra delle riviste Match, The Illustrated London News, VU, Picture Post, Regards e Life.

Oggi in tal modo disponiamo di un patrimonio inesauribile, di un archivio sterminato fra reportage, cronaca e documentazione riguardante in particolare la Guerra civile spagnola, il Conflitto sino-giapponese, la Seconda guerra mondiale, la Prima guerra arabo-israeliana, la ritirata francese dall’Indocina, le inchieste fotografiche su Giappone, Russia, Israele, i ritratti di amici.

Assieme a Henri Cartier-Bresson, David Seymour, William Vandivert, George Rodger e Maria Eisner nella primavera del ’47 fondò a Parigi l’Agenzia Fotografica Magnum, un modo innovativo per tener viva la memoria di fatti ed eventi.

Quasi a ricordarci che esiste una Legge Superiore, la sua fortuna finì lungo la strada per Thái Bình verso il Delta del Fiume Rosso nell’Indocina Francese: l’ultimo rullino, l’ultimo fotogramma, una mina anti-uomo, l’inevitabile. Era il 25 maggio 1954.

Il 26 maggio 2017 alla Alinari Image Museum nel Castello di San Giusto in Trieste si inaugura la Mostra “Robert Capa in Italia 1943-1944”, con immagini provenienti dalla “Robert Capa Master Selection III” a suo tempo curata dal fratello minore Cornell (anche lui fotografo) e dal biografo Richard Whelan, già esposte con successo in diverse sedi in Italia.

La mostra dà modo di rivisitare uno degli scenari che compongono gli anni centrali del Secolo Breve e, nel contempo, costituisce una chiave di lettura per avvicinarsi e conoscere una personalità dinamica e mai doma, consentendo altresì di cogliere le modalità operative predilette da Capa.

Dallo sbarco degli Alleati in Sicilia a Montecassino passando per Napoli e Anzio, con potente forza comunicativa Capa ci mostra una guerra fatta anche di gente comune, piccoli paesi ridotti in macerie, città martoriate, soldati di entrambe le parti belligeranti vittime, assieme ai civili, della medesima violenza bellica. Con la stessa solidarietà guarda a tutti, fermando sul bianco e nero della pellicola paure, attese, attimi, situazioni inconsuete.

Molto si è detto e scritto, si scrive ed è presumibile si scriverà su questo inventore inclassificabile, perché Capa non è soltanto l’autore della celeberrima, controversa e inflazionata foto del miliziano colpito a morte a Cerro Muriano nel 1936, un’icona che talvolta ostacola l’avvicinamento al suo intero lavoro, e che rischia di condizionare e sfrangiare il riesame di una stagione fotografica irripetibile.

Allora perché dopo oltre 60 anni dalla sua scomparsa Robert Capa esercita sempre un fascino indelebile, tanto da rendere ancora attuale la sua produzione?

Con il suo incessante lavoro Capa aveva deciso di risalire l’accidentato e impervio corso della Storia e, nel diffidare della scontata retorica ufficiale, aveva inanellato una collezione di esperienze personali partendo con lo slancio rivoluzionario della giovinezza, con lo spirito indipendente dell’uomo-contro dal carattere inquieto e avventuroso. Lasciato il suo Paese, approdato al disincantato sarcasmo della maturità, con il suo essere fotoreporter ha rivelato il cuore dell’umanità ricomponendo – con il linguaggio delle raffigurazioni lontane da formalismi – un vivido quadro i cui dettagli a tutt’oggi svelano ‘in primis’ la fragilità delle ideologie.

È insito nel suo statuto che la fotografia sia un “documento soggettivo” il quale mostra ciò che è stato, filtrato però dalla personalità del fotografo e materializzato dalle conseguenti scelte adottate.

Rappresentare per comunicare non è mai neutrale, è sempre una scelta di campo che in Capa emerge con evidenza: dalla parte dell’uomo, con l’imprescindibile esigenza di “esserci e di andare vicino”, di partecipare con umanità, empatia, coraggio, immediatezza d’azione contestualizzando le foto senza drammatizzazioni o eccessi e perseguire la sintesi informativa. Il tutto trasformato in essenziale.

Un’esistenza intensa e complessa tesa a dimostrare la crudele insensatezza delle guerre, la concreta cancellazione di persone e cose, ma anche la nascita di nuove speranze, gesti minimi, amori difficili, amicizie e sodalizi insostituibili, per metterci davanti agli occhi realtà, fatti ed eventi altrimenti indescrivibili.

In un mosaico dove si alternano, congiungono e intersecano vari percorsi di senso scavati nel vivo delle situazioni, tutte le sue foto si fondano su un denominatore comune: ogni immagine è uno spazio di relazioni e interrelazioni con significati che spesso trascendono la specificità della vicenda, e che tendono verso contenuti di rilievo universale al di là del tempo fermato. Tanto da poter pensare che le fotografie di Capa non siano fatti isolati ma risposte a un programma-progetto adattato alle circostanze e plasmato dall’imprevedibile.

Dunque è una narrazione quella che Capa offre al lettore interessato e desideroso di saperne di più, che ci fa scoprire – attraverso le persone riprese, i loro sguardi, sofferenze, tenerezze e stati d’animo – l’ardente impegno e l’incommensurabile ricchezza di uno straordinario modo di vedere e considerare il mondo. Una penetrante capacità di scrivere per immagini e di coinvolgere il lettore.