Domenico da Tolmezzo

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Nella pala di Santa Maria Maddalena conservata oggi a Udine è ravvisabile un capolavoro dell’artista friulano

di Nadia Danelon

 

Il complesso del Museo Diocesano di Udine è famoso soprattutto per le opere del Tiepolo. Infatti, gli ambienti di Palazzo Patriarcale raccolgono alcuni tra gli affreschi più conosciuti della produzione giovanile di Giambattista Tiepolo, di cui quest’anno si ricorda il 250° anniversario della morte. Ma l’istituzione museale vanta anche una collezione, meno nota, di scultura lignea: lungo il percorso, si attraversa idealmente la storia dell’arte friulana, grazie a importanti opere che sono state messe in salvo nell’ambiente adeguato del Museo Diocesano.

In questo contesto, spiccano anche le opere degli scultori friulani attivi tra il Quattrocento e il Cinquecento. Uno dei nomi più importanti è quello di Domenico da Tolmezzo, eccellente autore attivo tra la seconda metà del XV e i primi anni del XVI secolo, zio di Giovanni Martini che ne riprenderà il successo. Domenico Mioni, detto “da Tolmezzo”, nasce nella località carnica intorno al 1448: è figlio del calzolaio e pellicciaio ser Candussio. Passa gli anni dell’infanzia e quelli della prima adolescenza a Tolmezzo, per poi recarsi a Udine in compagnia del padre nel 1462 allo scopo di entrare nella bottega del pittore e scultore Giovanni di Francia.

Quest’ultimo, in realtà, proviene da Spilimbergo: esistono dei documenti che testimoniano la sua attività, ma nessuna opera certa è giunta fino a noi. L’accordo tra ser Candussio e il maestro prevede sei anni di apprendistato per il giovane Domenico: saranno solo cinque, perché Giovanni di Francia muore prematuramente nel 1467. L’anno successivo, Domenico chiede l’emancipazione dalla patria potestà per poter aprire una sua bottega ed ottenere il titolo di maestro. Nel 1469 si sposa con Romea Pollame.

Quell’anno apre un periodo incerto per la carriera di Domenico: come ha scritto Marchetti (1972), «[…] la scuola di Giovanni di Francia poteva averne fatto, al più, un modesto artigiano nei limiti e nei modi della tradizione locale». Generalmente, si ritiene che Domenico si sia recato a Venezia per apprendere le novità già presenti nella laguna veneta.

Parlando del soggiorno e di un eventuale apprendistato di Domenico da Tolmezzo a Venezia, si delineano le circostanze storiche che hanno spinto Marini (1942) a definire le caratteristiche e i limiti della cosiddetta “Scuola di Tolmezzo”. Si tratta, in realtà, di un termine convenzionale utilizzato per raggruppare alcuni maestri (Andrea Bellunello, Domenico e Gianfrancesco da Tolmezzo, insieme ad altri autori) attivi in Friuli a cavallo tra il Quattrocento e Cinquecento. Già molti anni fa si è messa in dubbio la validità di questa definizione: infatti, gli studiosi moderni ricordano questo concetto, ma ne prendono le opportune distanze.

Come è stato evidenziato dalla critica moderna, è impossibile accomunare tali autori in una sola scuola, perché si tratta di artisti molto diversi tra loro che nel corso degli anni sono giunti a risultati differenti. Tuttavia, per un solo aspetto, tale definizione ha ragione di esistere: sono stati questi autori i primi ad incominciare quella grande rivoluzione che ha permesso il passaggio dell’arte friulana dallo stile tardogotico a quello rinascimentale. Gli autori hanno fatto davvero molta fatica a persuadere i committenti locali della validità del nuovo gusto: c’è da dire che le circostanze storiche hanno influenzato pesantemente questo processo, rallentandolo per mezzo di vari fattori (ondate di peste, episodi bellici e una calamità naturale).

La produzione dei maestri “tolmezzini” è legata all’arte religiosa. Gli incarichi non vengono però assegnati dal clero, ma piuttosto da confraternite e umili devoti. Lo scopo è essenzialmente devozionale, con una ripetizione di caratteristiche iconografiche tradizionali.

È questa l’epoca delle grandi ancone: come è stato detto, delle vere e proprie “macchine d’altare” (Bergamini, 1988). I polittici decorano moltissime chiese locali, tra cui vanno ricordate le pievi di montagna. Proprio nella pieve di Santa Maria Maddalena ad Invillino, come si vedrà, è stato per lungo tempo conservato uno dei capolavori di Domenico da Tolmezzo.

Il primo documento (1475) che attesta la presenza di Domenico Mioni in Friuli dopo il probabile soggiorno veneziano è legato proprio al pagamento di una di queste ancone: quella del Crocifisso, oggi perduta, realizzata per la pieve di Gemona. La carriera di Domenico decolla: moltissime richieste giungono alla sua bottega, situata a Udine. Non ritorna più a Tolmezzo, salvo per brevi visite. Le sue opere sono presenti o documentate in un territorio vastissimo: dal Cadore, passando per la Carnia, lungo la pianura friulana e fino a Cormons.

Domenico è un artista completo: scultore, pittore (ci rimane, firmato e datato, il polittico di Santa Lucia un tempo al Duomo di Udine e oggi nelle collezioni dei Musei Civici locali), “architetto” (suo il progetto del campanile realizzato presso la chiesa di San Cristoforo a Udine) e cartografo (disegno cartografico del monte San Simeone – tristemente noto come epicentro del terremoto del 1976 – realizzato nel 1481).

Nel 1979, Rizzi traccia le tappe dell’evoluzione stilistica di Domenico da Tolmezzo utilizzando per primo come parametro di giudizio le caratteristiche di alcune Madonne col Bambino che contraddistinguono i punti cruciali della sua carriera. Sono tre ed osservandole si ha la percezione del passaggio dallo stile tardogotico a quello rinascimentale.

La prima ad essere presa in esame è quella di Buia del 1481: una figura nobile, ma caratterizzata da una resa stilistica gotica (evidente soprattutto nel panneggio). Segue quella di Dilignidis del 1486: scolpita per la chiesetta di una frazione dell’effettivo paese natale del collega Gianfrancesco da Tolmezzo (Socchieve), si contraddistingue sempre per la monumentalità, ma accompagnata da un’espressione naturalistica (lo sguardo non è particolarmente fisso) e dalla minore rigidità del panneggio. Questo percorso termina idealmente con la Madonna di Cormons del 1489: vi si può osservare un maggiore rigore volumetrico, con un decisivo allentamento della tensione lineare rispetto alle opere precedenti.

Nessuna delle Madonne di Domenico da Tolmezzo sembra prestare attenzione al Bambino: per questa caratteristica, il suo stile è ancora gotico. Le sue immagini scolpite non “dialogano” tra di loro oppure con l’osservatore: sono sempre frontali e ieratiche. Gli studiosi hanno spesso evidenziato questa caratteristica: ma nelle ancone di Domenico, per la prima volta, le figure sono inserite in uno spazio autentico e non astratto.

Fabiani (1983) ha giustamente ricordato la vicinanza stilistica tra le Madonne di Buia e di Zuglio (1483). Allo stesso modo, ci si accorge che la Madonna di Dilignidis e il polittico di Invillino (1488) presentano delle notevoli somiglianze che li accomunano nella fase di transizione dell’artista: guardiamo, ad esempio, il volto della Vergine Maria (1486) e quello poco più tardo della Maddalena. La presenza delle medesime caratteristiche è evidente nello stile di entrambe le opere.

Sulla pala di Invillino, molto è stato scritto dagli studiosi di storia dell’arte friulana. Marchetti e Nicoletti (1956) l’hanno ritenuta opera di un collaboratore: «La pesantezza di mano e l’opacità del linguaggio fanno pensare ad un’esecuzione interamente affidata ad altro artefice». Per diversi anni, si è creduto di potere attribuire alla mano di Domenico solo qualche figura tra quelle presenti nella pala, ipotizzando nel resto dell’ancona l’aiuto dei suoi allievi. C’è da dire, come è stato evidenziato (Marchetti, 1972), che l’antica abitudine di ridipingere le figure ha causato parecchi danni alle statue di Domenico da Tolmezzo, in quanto la pittura originale è stata realizzata in modo da valorizzare i particolari delle statue.

La percezione è cambiata radicalmente, come spesso accade, grazie ad un prezioso ritrovamento: nel 1983, Quai e Bergamini hanno fatto menzione di un documento, datato 15 dicembre 1488. In quell’occasione, il cameraro di Santa Maria Maddalena ha ricevuto l’ordine dalla curia udinese di mettersi d’accordo con Domenico, da lì a quindici giorni, sul prezzo della pala eseguita per quella chiesa. Il 18 luglio 1489 viene chiesto il permesso di demolire l’antico altare della pieve, per sostituirlo con quello realizzato da Domenico da Tolmezzo.

Ecco, quindi, che la pala ora al Museo Diocesano si dimostra innegabilmente opera di Domenico da Tolmezzo. Riguardo al fatto che sia giunta a Udine dopo il 1976, la spiegazione è molto semplice: la maggior parte delle pievi carniche sono isolate, quindi storiche mete di furti. Per questo motivo, molte tra le ancone rinascimentali sono prive di alcune o di tutte le statue originali: il polittico di Invillino è stato molto fortunato, ma con il rischio costante di future manomissioni, è stato necessario metterlo al sicuro. A malincuore, la popolazione ha accettato, grazie al parere dei funzionari della soprintendenza coadiuvati dall’autorità delle persone sagge del paese: il posto riservato all’ancona in pieve è stato preso da una copia perfetta realizzata dallo scultore gardenese Engelbert Demetz.

Quella di Invillino (nel territorio comunale di Villa Santina, Val Tagliamento) è una delle dieci storiche pievi della Carnia, situata sul Col Santino e risalente al 1431. L’hanno preceduta un edificio dell’VIII e una basilica del V secolo, i cui resti sono stati ritrovati sul vicino Col di Zuca. Geograficamente non troppo lontana da Zuglio (Iulium Carnicum), sede vescovile tra il IV e l’VIII secolo, è stata tra le prime località dotate di un edificio sacro con battistero e cimitero. Ancora oggi, la semplice e dignitosa pieve di Santa Maria Maddalena è dotata di un fascino senza tempo.

L’ancona di Domenico Mioni, quindi, dopo circa cinque secoli passati in Carnia è oggi uno dei capolavori conservati in sicurezza nelle sale del museo udinese. Composta da dieci nicchie, ospita queste statue: san Rocco, san Giovanni Battista, santa Maria Maddalena (la titolare della pieve, al centro), san Pantaleone e san Lorenzo a figura intera nel registro inferiore; santa Barbara, santa Caterina, la Madonna col Bambino (al centro), santa Margherita e santa Lucia a mezza figura nel registro superiore. Il tutto è racchiuso in una cornice tardogotica, tipica dell’epoca e con richiami ai maestri muranesi: la decorazione composta da fiamme e pinnacoli è arricchita da alcune figurette, tra cui si riconoscono i profeti e i protagonisti dell’Annunciazione. Gli archi in corrispondenza delle dieci nicchie (l’azzurrite dello sfondo fa risaltare l’oro delle figure) ,unica eccezione delle opere di Domenico rispetto agli esempi veneziani, sono a tutto sesto anziché moreschi.

La dolcezza del volto della Maddalena, che regge saldamente il suo vaso per gli unguenti, è uno dei esiti più delicati e ben riusciti nel corso della storia della scultura lignea in Friuli. Un eccellente saggio di abilità tecnica, che conferma il ruolo di Domenico da Tolmezzo (1448-1507) come il più importante scultore friulano del Quattrocento.

 

 

Domenico da Tolmezzo

Pala di Santa Maria Madalena

1488

Museo Diocesano e

Gallerie del Tiepolo

Udine

foto di Riccardo Viola