Il sonno della ragione

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Emblematica, tra le acqueforti-acquetinte che compongono la raccolta di incisioni di Francisco Goya nota col nome di Capichos, pubblicata una prima volta nel 1799, è senz’altro quella nota dal titolo, inscritto entro un cartiglio nell’opera stessa: El sueño de la razón produce monstruos, / Il sonno della ragione genera mostri. La frase, così in accordo con l’epoca illuminista nella quale l’opera di Goya si materializzò, è forse mutuata da Immanuel Kant, che qualche anno prima, esattamente nel 1781, inseriva il medesimo concetto e con le medesime parole nella prima versione della sua Critica della ragion pura.

Ma cosa ci fanno questi riferimenti di duecento e passa anni fa in questo spazio, normalmente dedicato all’attualità? È che in queste ultime settimane la frase di Kant e/o di Goya mi ritorna in mente a ogni telegiornale, allo sfogliare di qualsiasi quotidiano, tanto la cronaca del nostro presente mi pare immersa in questo sonno della ragione.

Con quali altre categorie, se non con quelle di un’assenza o almeno di una sospensione delle facoltà raziocinanti potremo riflettere sui sanguinosi esempi che quotidianamente ci sono proposti dalla cronaca? È possibile individuare in qualcosa di diverso da uno stato ipnotico la strage di non musulmani consumata a Dacca, in Bangladesh? O quella di cinque poliziotti che ha insanguinato Dallas, nel Texas? O le altre infinite efferate mattanze che, ad opera di esplosivi, di kamikaze, di raffiche di mitragliatrice, segnano la quotidianità di tante parti del mondo, dal Medio oriente all’Africa sub-sahariana? Oppure la quantità di civili innocenti sgozzati, decapitati o arsi vivi per mano degli assassini seguaci del cosiddetto Califfato?

Il fanatismo religioso, il fondamentalismo, ma anche più semplicemente il disprezzo per l’altro da sé, tutte categorie non ascrivibili certo alla ragione, sono alla base di queste atrocità, che, come ogni altra atrocità, si lascia dietro una lunga scia di risentimento e di rivolta che perdura ben oltre i limiti temporali della vita di un uomo, per produrre a sua volta altre atrocità in una catena che teoricamente non può avere fine, che certo non può averla se non mettendo in moto quella ragione per la quale è necessario svegliarsi, individualmente e collettivamente dal sonno che l’ha eclissata.

Scendendo solo di qualche gradino la scala dell’efferatezza criminale ci si rende conto che, ispirati sempre dal medesimo sonno della ragione, possiamo individuare ancora nella cronaca fatti meno allarmanti, ma assai più prossimi alla nostra quotidianità, com’è stato per gli scontri belluini degli ultrà che hanno guastato la festa per gli Europei in Francia, come è stato a Fermo, nelle civilissime Marche, con l’omicidio, che si spera preterintenzionale, di un ospite straniero colpevole di avere, lui e la sua signora, la pelle di una pigmentazione diversa rispetto a quella del suo aggressore.

Destarsi e destare chi abbiamo intorno da questo sonno nefando che non può che generare mostri è possibile, a patto che nessuno si tiri indietro dal dovere civile di isolare ogni forma di razzismo, per quanto velata e subdolamente ammantata da qualcosa di diverso da quello che è: un rinfocolare primitivi sentimenti di ostilità per quanto percepiamo come estraneo, non simile, non omogeneo e – ipso facto -antagonista e nemico. Perché il colore della nostra pelle non è migliore né peggiore di quello degli altri, così come la nostra fede religiosa, il nostro ateismo, la nostra lingua, le nostre preferenze sessuali, il nostro credo politico, le radici della nostra cultura.

Diffidare di politici nazionali o dei loro emuli locali che giocano con questi istinti di esclusione attizzando paure inconsce e pregiudizi ancestrali diviene così, prima ancora che un dovere civile un imperativo etico. Categorico, per rifarci ancora all’insegnamento del buon vecchio Kant.