Il tempio di Monte Grisa a Trieste

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di Maurizio Lorber

 

In un articolo precedente avevo colto l’occasione, esaminando la pescheria di Giorgio Polli, di porre l’attenzione su di un aspetto semiotico: cosa accade quando una chiesa assume le sembianze di un night club oppure lo stadio quelle di un tempio?

Seppure il dilemma sia stato presentato ironicamente non è banale poiché con l’avvento e l’affermazione delle forme proprie dell’architettura contemporanea la funzione degli edifici spesso sfugge ad una immediata identificazione. Proprio a Trieste abbiamo un caso esemplare in tal senso che era sfuggito anche a Gillo Dorfles o forse più attendibilmente lo studioso aveva evitato di citarlo poiché già allora considerato discutibile. Si tratta del tempio mariano di Monte Grisa progettato da Antonio Guacci e edificato fra il 1963 e il 1967.

Come ricordavamo la pescheria di Giorgio Polli è, ancor oggi, spesso scambiata per una chiesa. I triestini infatti causticamente la chiamarono “Santa Maria del guato”. In maniera altrettanto ironica e irriverente i triestini fanno riferimento al tempio Mariano denominandolo “il formaggino” a ricordo delle ben note confezioni triangolari di carta stagnola di formaggio spalmabile che furoreggiavano nell’Italia convertita al consumismo alimentare. Beffardamente le possiamo definire la versione italiana della famigerata Campbell Soup. Con la sostanziale differenza che il noto barattolo di minestra, attraverso la trasfigurazione del banale messa in atto da Warhol, divenne parte del mondo dell’arte.

La rinascita economica, e il conseguente consumismo, in Italia coincideva con le forme architettoniche immaginate dagli architetti in paesi anche lontanissimi ma oramai vicini grazie alla diffusione di riviste specializzate. Progettati indipendentemente dalle tradizioni che gli avevano preceduti questi edifici assurgevano a notorietà planetaria in forza della ridda di polemiche e discussioni che ne conseguivano. A solo titolo di esempio possiamo ricordare un edificio che suscitò uno scalpore internazionale e ancor oggi ben noto a tutti: la Sidney Opera House del danese Jørn Uzon (progettata nel 1957 ma ultimata soltanto nel 1973). Nel 1972, in un articolo dedicato alla comunicazione per immagini, Ernst Gombrich scriveva: «Il nuovo teatro dell’opera di Sidney, in Australia, è una struttura del tutto originale e chi ne veda la fotografia non potrà fare a meno di porsi una serie di domande cui l’immagine non può rispondere. Che inclinazione ha il tetto? Quali parti sono concave, quali convesse? Che dimensione ha l’intero edificio?». Provate ora a immaginare di osservare il tempio mariano dalla città. Il punto di vista lo assimila a una riproduzione fotografica priva di rilievo plastico, e le domande poste per l’edificio di Sidney si ripropongono all’osservatore ignaro dello sviluppo tridimensionale della chiesa. Infatti, ancor oggi, mi capita che visitatori foresti mi chiedano che cosa sia quella presenza aliena. Essi sono incapaci di comprenderne non solo la funzione ma lo stesso sviluppo spaziale. Recentemente si è cercato di porre rimedio almeno all’imbarazzo identificativo apponendo un’enorme croce sulla sommità dell’edificio ma il dilemma rimane e contempla la scelta di una soluzione fuori dall’ordinario. Come in molti casi la storia e il contesto teorico nel quale operò Antonio Guacci, ci permettono se non di apprezzare l’opera perlomeno di comprendere le motivazioni di una scelta apparentemente così ardita.

Mi è stato recentemente segnalato che l’arcivescovo Antonio Santin, il promotore dell’impresa, aveva immaginato una sorta di chiesa che visualizzava delle vele incrociate. Forse fu questa l’icona primigenia dalla quale trasse origine l’attuale facies del tempio mariano tuttavia non è sufficiente a dare ragione dell’astratta razionalità compositiva. Per comprenderla dobbiamo accennare al maggior protagonista dell’International Style: Le Corbusier. Nel 1954 l’artista convertito all’architettura aveva definitivamente codificato il sistema proporzionale del Modulor portando a compimento la sua ricerca sulle proporzioni iniziata nel 1910. Questo modello proporzionale è il corrispettivo dei principi chiari e distinti di cartesiana memoria. Da queste premesse proporzionali la progettazione avrebbe istituito una magica relazione fra lo spazio architettonico e l’uomo che lo abita. I progetti e le realizzazioni di Le Corbusier diedero la stura ad una sequela di epigoni geniali ed altrettanti seguaci mediocri che elaborarono, e alle volte abusarono, delle tipologie progettuali del maestro. I risultati, come ben noto, non sempre furono all’altezza delle aspettative utopiche cosicché, troppo spesso, le nostre periferie sono state costellate da eco mostri.

Molti architetti in Europa accolsero l’appello di Le Corbusier di reinventare da zero le forme architettoniche costruendo una “lingua” artificiale fondata sulla geometria e le proporzioni che, queste si, rimandavano alla teorie proporzionali antiche (ad. es. la sezione aurea). Fra questi architetti Alfred Neumann, già allievo di Peter Behrens, emigrato in Israele nel 1949, insegnante e poi preside della facoltà di architettura del Technion (Politecnico di Haifa) è un nome a molti sconosciuto ma in questo contesto è la chiave per comprendere la realizzazione del Tempio mariano di Guacci. Neumann pubblicò, nel 1956, un testo di riferimento intitolato L’Humanisation de l’espace nel quale proponeva una personale interpretazione delle griglie proporzionali secondo le quali coordinare tutte le parti dell’edificio. Partendo da Le Corbusier, Neumann teorizzava che dalla proporzione umana si dovesse estendere questa armonia geometrica nello spazio e quindi umanizzare in tal modo lo spazio abitabile.

Niente di nuovo se pensiamo che non si trattava che di recuperare quanto già Vitruvio, in epoca augustea, aveva elaborato. La differenza sostanziale è che l’architetto romano organizzava, sulla base delle proporzioni di un uomo ideale, un linguaggio architettonico già codificato che aveva le sue origini nell’arte greca. Gli architetti moderni invece cancellavano ogni sorta di riferimento al passato – capitelli, colonne, timpani, coperture a capanna – per lasciare “nuda e cruda” la griglia geometrica esaltando e magnificando la loro fiducia incondizionata nelle radici metafisiche della geometria. L’accordo simmetrico dei moduli ripetuti, associato alle proporzioni geometriche di antica memoria, avrebbe cancellato le differenze culturali e accomunato gli uomini nel nome dell’universalità della bellezza scaturita dal vocabolario euclideo.

Per comprendere, seppur sommariamente, questo procedimento possiamo ricorrere a un’immagine tratta da una mostra dedicata ad Alfred Neumann allestita a Ostrava nella Repubblica Ceca (Neumann nacque a Vienna ma crebbe a Brno) intitolata Space Packing Architecture: The Life and Work of Alfred Neumann (2015).

Tutti i modelli e i disegni presenti nella mostra pongono in evidenza che unità modulari (triangoli, pentagoni o esagoni forme piane sulla base delle quali si costruiscono i poliedri platonici tridimensionali) possono costituire una griglia compositiva che ben posta in evidenza, dispiega una notevole forza espressiva. Infatti questo tipo di edifici una volta realizzati accentuano giochi astratti di luci e ombre come in effetti avviene tanto al Tempio di Monte Grisa di Guacci quanto nell’edificio che ospita il Laboratorio dell’Israel Institute of Technology di Haifa di Neumann; entrambi, si noti bene, realizzati in cemento armato a vista.

La sequenza regolare e ripetuta di una forma semplice come il triangolo a base e altezza uguale, utilizzato da Guacci nel Tempio di Monte Grisa, risponde perfettamente a questo tipo di linguaggio modulare. Se l’origine di questo metodo progettuale è il funzionalismo, ben presto lo trascese per divenire un’estetica moderna che confidava nel piacere visivo delle semplici figure geometriche ripetute simmetricamente.

La rivoluzione non si realizzava solo sul foglio di carta ma anche in cantiere. I materiali permettevano finalmente di realizzare la città di Utopia: ferro, vetro e cemento. In particolare quest’ultimo diveniva il materiale di costruzione per eccellenza. Il cemento armato non era soltanto duttile e resistente, la sua bellezza consisteva nel non camuffarlo e nel lasciarlo a vista. È il Béton brut (cemento al grezzo) che tanto entusiasmava Le Corbusier e i suoi seguaci. Osserviamo il Laboratorio della Facoltà d’ingegneria meccanica ad Haifa di Alfred Neumann e noteremo come sia concepito secondo la medesima cifra stilistica del tempio mariano di Guacci. Sul cemento a vista si proiettano ombre generate dall’impiego modulare del triangolo che mutano secondo la diversa inclinazione del sole.

L’aspetto curioso e paradossale è che nessuno degli edifici di Neumann ha mai assunto lo statuto di Landmark – termine secondo il quale un’architettura o un monumento identifica un luogo – mentre il “formaggino” di Guacci, che rispetta in tutto e per tutto i principi estetici di Neumann, è divenuto, nonostante lo scarso apprezzamento dei triestini, un riferimento peculiare e ineludibile allo sguardo sul paesaggio carsico che fa da cornice al golfo di Trieste.