Il tempo altro di Claudio Grisancich

| | |

Un io provveduto e complicato ancora alla ricerca della sua storia

Nella costruzione di un posto senza tempo, identitario e privato, Grisancich fa sua, in modo molto meditato, la lezione di Virgilio Giotti e di El Paradiso

di Anna Modena

 

Con le poesie che aprono Bora zeleste, Alida Valli che nel Quaranta iera putela e La foto, Claudio Grisancich inizia la costruzione di un racconto familiare, o romanzo con figure, che interseca il suo lavoro di poeta fino a Album del 2013[1] e Petit poème familial, (2015)[2], dentro la storia di un mondo e di una città.

Apparentemente a muovere la ricerca poetica è il filo emozionale del ricordo, motivato dalla fotografia, sia in senso barthiano, come ‘principio di avventura’ e come momento (quasi congelato) da spiegare e ricostruire: nella prima una madre ragazza in abito a fiori e scarpe di sughero bastano a fare il clima di un’epoca e il nome di una piazza a inquadrare una città; ma il vero perno della poesia emerge nel finale, dove campeggia l’unico superstite di quel mondo: «Tra tuta quela gente / che camina con lore / solo el picio restado vivo ogi / ga ricordi ingombri / de morti». Un io diverso dunque, nel pieno della maturità, che affronta il passato con tutto il peso delle esperienze. Un io provveduto e complicato ancora alla ricerca della sua storia.

Al rapporto con la guerra Grisancich aveva dato voce in Mi e la guera in Noi vegnaremo: il padre soldato conosciuto solo in fotografia, i bombardamenti, la madre che lo portava in braccio nei rifugi, il pensiero della morte che lasciava tutti attoniti, in sostanza un precoce incontro col male del mondo col suo portato di paure (che il termine dialettale «la guera: xe caligo» accrescendone il senso di indeterminato, non dissimulava). Ma, pur non dimenticando, in quel primo libro, tutto intriso di futuro, il tempo della guerra è qualcosa di superato, sebbene non distante: è un tempo fermo e chiuso, di cui è certa la fine. Torna il padre, riprende la scuola, e riprende in sostanza la vita.

Quarant’anni dopo, le due fotografie che hanno al centro la madre (ne La foto il padre, appena tornato dalla prigionia con l’itterizia, è l’ombra di sé stesso, un miracolato, un cristo al quale si appoggia, eterna ragazza «in pelizeta / de lapen – zuzadina -/ al zenocio») diventano il motore del recupero di un mondo e di un tempo che si pone fuori dalla temporalità reale. È quanto accade in El ciaro del bosco, dove le voci alternate della banda di ragazzi (del primo e terzo piano) che giocano in giardino, (col grido marcato della liberatoria Fortic! Fortic-taco), e della madre che li chiama, fanno da contorno all’emarginazione del ragazzo della soffitta, che, fuori dal gruppo, si rifugia su un albero. Era stata proprio sua madre a spingerlo lì fuori a prender aria con gli altri, inconsapevole della crudeltà infantile che si appropria del territorio, e lo rivendica come suo, mettendo da parte l’intruso, sull’albero a guardar oltre, «stando ‘scoltar, vardandoli / ‘ntanto che l’aria scuriva».

Dentro l’andamento di questo racconto in versi, tra i più sommessi e strazianti del poeta, che vede il silenzio del bambino contrapposto alle urla, il suo impegno a guardare oltre il muro, in via Galeria…, e, in quell’oltre, sognare di andar via, lasciando quelle voci legate ai loro luoghi, si inserisce, a toni più bassi, e non dall’alto, ma direttamente dal giardino, quella materna, che tuttavia anticipa il suo apparire: «Quela / tua bela testa de cavei / ramai, che te se fermavi / in-t-el scuro de l’ ora / drento l’ultima luse / del tramonto / che tra ‘l verde la fa / come un ciaro del bosco…» Al figlio, che può fingere di non sentire, quell’apparizione, e quella luce, di cui si perpetua il rinnovo, danno la garanzia del superamento del tempo: resta un luogo che non invecchia, che va oltre la memoria, e crea quella personale mitologia di via san Michele, che darà molti felici esiti, in particolare in Album.

Nella costruzione di un posto senza tempo, identitario e privato, Grisancich fa sua, in modo molto meditato, la lezione di Virgilio Giotti e di El Paradiso, di cui ha offerto, nel 2007, magistrale lettura critica[3]; ritrova la madre, come Giotti aveva fatto con i figli, in un luogo ideale, che diventa luogo e mezzo di superamento di grandi e piccoli dolori della vita.

Anche il padre incontra in un ‘oltre’ metatemporale, in Càmion di Crature del pianzer, crature del rider, dove vive in dittico quasi ossimorico con il precedente Pianeròtolo: all’incontro dell’oggi di due uomini fatti («omini che no se da’ bado») che si negano l’abbraccio per severità e pudore, incatenati ciascuno alle loro esistenze, si contrappone il ricordo infantile del càmion. Ingigantito in treno e monte, dotato del potere straordinario di andare dovunque, diventa, in sogno, elemento salvifico che riverbera la garanzia di protezione della figura paterna.

Sogno e fiaba saranno determinanti anche nella struggente lirica El giorno che se parti (tra le ultime di Conchiglie), perfetta nei ritmi della frenesia domestica in vista di una partenza: qui già il camminare per strada, quindi il viaggio in treno, è collocato in un tempo altro, che allude all’incredulità del sogno, e adombra il futuro.

Grisancich torna dunque nella via della prima infanzia, la via San Michele su cui costruisce il suo Album, con un ricco bagaglio. Sa che non è una ‘petrosa Itaca’: ha lasciato alle spalle il tremito dell’Ulisse che fugge dall’incendio di Troia e si mette ai remi (ulisse di Crature del pianzer, crature del rider), e non arriva per mare, ma per marciapiedi bagnati di pioggia, tra portoni chiusi e finestre cieche (via San Michele, ogi) senza più osterie e azzurri gli glicine: il suo ritorno all’infanzia non gli permette di trovare «l’itaca ch’el credeva / lo ‘spetassi», gli resta solo il nome della via.

È cambiato il mondo ed è cambiato lui. Nella consapevolezza della sua diversità, per cui Fulvio Senardi ha opportunamente citato i versi di Fernando Bandini («sono parte / di ciò che cambia anche se resto indietro»[4]), Grisancich recupera il mondo dell’infanzia con tutti mezzi di cui dispone, in primis parola e suono. Del resto nella fondamentale La gran cometa (in Scarpe zale e altro cose), nella consapevolezza di non conoscere appieno il viaggio compiuto per essere quello che è, ricanta dentro di sé le parole raso muro della quotidianità, compagne di vita: sono il ‘meccanismo incandescente’ che illuminano il percorso della memoria e i suoi approdi.

In Album le parole, «dir le robe co’l suo nome /cussì anche per le persone», servono a nominare il mondo familiare del vicinato, che trova la sua forma più alta di comunicazione in quel parlare «anca de gnente giusto / de tocarse co’ la vose» per dire appartenenza e solidarietà. E Grisancich nomina persone e cose (negozi, insegne, muri, cinema, scuole), in questa autobiografia di quartiere, che è un po’ passeggiata della memoria e un po’ fiaba dell’infanzia, in cui l’io è altro da sé, (el picio, muleto, l’ometo) a marcare il distacco da quello che è oggi; questo schermo gli permette di rivivere, senza cedimenti, i gesti da niente, di cui sono rimaste sensazioni e colori, la misura in piedi sulla tavola, o la prima neve del ’45 per mano al padre). Un ruolo fondamentale ha il cinema, che è l’immersione totale, dentro la sala buia, nelle diverse storie, tra guerra e avventura, che rivedrebbe all’infinito, se non fosse prelevato per la cena (le quatro piume), e, ancora luogo di identificazione col proprio vissuto: alla proiezione di Ladri di biciclette si ricorda, con un pensiero adulto e complice, che anche a casa sua la madre conserva nel cassettone, piegate tra le lenzuola, le ricevute del monte di pietà, e lascia affiorare, trattenuta, la partecipazione a una privazione simbolica: «… el iera con su’ mama al monte / de pietà co la gaveva portado quei/ tocheti de oro e la vera cavandosela là».

In quel mondo dove vive un’umanità disparata (la coralità di cui ha parlato Walter Chiereghin), fatta di cattiverie e gesti amorevoli, di manie e di abitudini, dove sembrano governare le donne, e gli uomini appaiono più deboli o senza cervello, dove passano americani (che portano in regalo divine comedie in carta india), soldati di Tito liberatori che battono i tacchi sul selciato, e madonne pellegrine, Grisancich si muove con appartenenza e distanza.

Sa che il suo petit poème familial si svolge qui, e che la madre è sempre il personaggio centrale, quella che offre le chiavi del futuro, nei gesti abituali, in quel portarlo continuamente fuori, che vale guardare oltre, e diventa sprone alla conoscenza, come alla poesia.

Con lei il bambino parte alla scoperta del mare (e tenta, quella, non riuscita, della bicicletta) e la diga diventa nelle giornate d’estate, non più miraggio oltre la finestra, ma un pezzo del mondo altro da possedere: «le braccia a collo, poi, / di sua madre, in acqua alta, lontani dalla / riva, il fondo non si vede più, il mondo / è solo acqua da decifrare in un suo / mistero dove, a sapersi muovere, imparerà / a nuotare l’estate del Quarantatrè.»

[1]          Trieste, Hammerle Editori, 2013. Fotografie di Stefano Visintin; con La commedia umana di Grisancicich di Walter Chiereghin pp. 5-8, e Esplorando l’origine di Fulvio Senardi, pp. 9 – 103.

[2]          Nel volume collettivo I mari di Trieste, a cura di Federica Manzon, Milano, Bompiani, 2015.

[3]          Cfr. Il «paradiso» di Virgilio Giotti, in «Si pesa dopo morto». Atti del convegno internazionale di studi per il cinquantenario della scomparsa di Umberto Saba e Virgilio Giotti, Trieste, 25 – 26 ottobre 2007, a cura di Giorgio Baroni, Introduzione di Cristina Benussi, “Rivista di Letteratura Italiana”, 2008, XXVI, 1, pp. 257 – 260.

[4]          In Santi di dicembre, Milano, Garzanti, 1994, p. 117.

 

Foto di Luisella Pacco