Il vate e la pantera a Trieste

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Cronistoria di un’escursione giuliana del poeta, nata privata e divenuta pubblica

di Walter Chiereghin

 

Un convegno organizzato a Trieste dall’Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione, avente come oggetto “L’impronta del classico nella poesia giuliana dall’epoca asburgica al secondo Novecento”, ha rimarcato in una pluralità di contributi la centralità della poetica e dell’impegno civile carducciani nella cultura letteraria della Trieste negli ultimi decenni del dominio asburgico, in cui tanta parte ebbe la tensione irredentistica che percorreva la maggioranza liberal nazionale reggitrice a lungo dell’amministrazione della città tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo.

Fulvio Senardi, nell’occasione, ha citato un brano di Giani Stuparich indicativo di questa infatuazione letteraria che assegnava una preferenza assoluta al poeta maremmano anche nelle giovani generazioni, naturalmente attratte dai grandi autori che si apprestavano, all’albeggiare del nuovo secolo, ad assegnare a d’Annunzio o a Pascoli il testimone di una staffetta che sembrava ormai matura nel gusto corrente.

Questo il passo segnalato: «Tutti e tre erano giovani che non limitavano la loro vita intellettuale dentro la scuola. Si ritrovavano fuori in lunghe e libere discussioni letterarie. S’erano divisi i tre poeti dell’epoca: Mitis era un infuocato carducciano, Antero appassionato di Leopardi, era pascoliano, e Pasini poneva D’Annunzio sopra gli altri due. Quando gli animi si accendevano troppo e le parole cominciavano a frustare, allora Mitis si metteva improvvisamente a recitare Saluto italico. […] Antero e Pasini tacevano fremendo, e quando era finito scattavano “Sì, magnifico!”. Perché più in alto di ogni criterio estetico stava per loro il sentimento della patria; la rivendicazione di Trieste all’Italia era lo scopo delle loro vite. Essi organizzavano le manifestazioni irredentistiche in classe, scrivevano un giornaletto di cui ogni parola era una promessa di vincer per l’Italia, e dove anche la retorica patriottica aveva una sua spontaneità.» (Giani Stuparich, Un anno di scuola, 1929).

Come noto, il racconto lungo di Stuparich è ambientato nel Liceo “Dante Alighieri” nel 1909, e fa riferimento a ricordi autobiografici, nei quali l’autore stesso è impersonato da Antero, mentre dietro il personaggio di Pasini si cela il futuro germanista Alberto Spaini. Ma quel che conta, nell’economia del discorso che stiamo svolgendo, è il fatto che i versi di Saluto italico, quindici distici di accidentata metrica archilochea che immagino quasi nessuno proponga oggi agli studenti liceali, avevano il potere, nel 1909, di mettere a tacere ogni dissidio tra quei tre giovani, infiammati lettori di poesia.

Molteplici le ragioni per quel così acritico entusiasmo: soprattutto il rispetto che godeva anche presso le generazioni più giovani il poeta che aveva segnato di sé la letteratura nazionale della nuova Italia, come di lì a poco, a partire dal 1914, l’avrebbe denominata Benedetto Croce. E poi, certo, il prestigio della nomina a senatore, il lungo addio alle scene, con il pensionamento dall’Università di Bologna nel 1904, col Nobel per la Letteratura, primo italiano a esserne insignito, nel 1906, pochi mesi prima della scomparsa. Su ogni altra ragione, tuttavia, prevalevano presumibilmente due fattori: da un lato l’ispirazione patriottica dell’ode, del resto preceduta e seguita da innumerevoli costanti attestazioni d’amor patrio del Carducci e segnatamente da richiami alla “redenzione” delle terre giuliane (e trentine), dall’altro al contenuto del testo, che fa esplicito riferimento a un paesaggio, tanto geografico che storico, che ha la concreta corrispondenza con quello che si poteva percepire a Trieste o a Capodistria.

In margine a un suo soggiorno a Venezia, difatti, il poeta pensò di ricavarsi qualche giornata a Trieste assieme a Lidia, al secolo Carolina Cristofori, moglie di un garibaldino, alto ufficiale dell’esercito, Domenico Piva, con la quale il Carducci mantenne una relazione sentimentale tra il 1872 e il 1878, indirizzandole oltre 570 lettere – appellandola a volte «angelo», altre volte «pantera» – e citandola in alcune anche famose poesie delle Odi barbare (Ruit hora, Su l’Adda, Alla stazione in una mattina d’autunno).

L’escursione a Trieste era stata proposta dal poeta in una lettera fin dal 30 giugno 1878 (Epist. XI 328) quando da Bologna scrisse all’amante: «E poi, quando saremo a Venezia, chi c’impedirà di fare una gita, per esempio, a Trieste? Ho voglia di veder Trieste». Come si vede, nelle intenzioni del Carducci il progetto era di una “gita” del tutto privata ed aliena da qualsiasi impegno, tanto che non prese contatto con nessuno dei suoi interlocutori triestini, nemmeno con Attilio Hortis né con Giuseppe Caprin, coi quali era da tempo in corrispondenza, per annunciare il suo arrivo. Evidentemente contava di condividere soltanto con Lidia quelle sue giornate triestine, ma non andò precisamente così. Arrivati i due in città domenica 7 luglio, trovarono sul quotidiano L’Indipendente del giorno successivo un trafiletto recante il titolo «Ospite illustre» e, sotto, la notizia della loro presenza a Trieste: «Abbiamo da ieri tra noi l’illustre poeta Giosuè Carducci, il quale trovandosi a Venezia per ragione di studi, volle visitare anche la nostra città».

I due amanti avevano preso alloggio in un albergo del centro, forse il grande Hotel et de la Ville, sulle rive, attualmente sede della direzione della Fincantieri, o più probabilmente all’Albergo al Buon Pastore, nel luogo ove oggi opera l’Hotel Continentale, in via San Nicolò, proprio dirimpetto al locale destinato a diventare, nel 1919, la Libreria antiquaria di Umberto Saba. La possibilità di godersi in intimità quella loro vacanza durò soltanto poche ore, che essi impiegarono per raggiungere e visitare, da soli, il Castello di Miramare in una giornata, quella dell’otto luglio, caratterizzata da un cielo nuvoloso (il ciel piovorno, del secondo verso dell’ode Miramar). Fin da quel giorno, presumibilmente, i due furono poi accompagnati dall’Hortis e dal Caprin, e la sera del martedì (il 9 luglio) furono ospiti della Società di Minerva in una cena – anzi: un banchetto pomeridiano, come c’informa L’Indipendente del 10 luglio – cui parteciparono «tutte le classi della cittadinanza; il nostro piccolo ma laborioso mondo artistico, le migliori notabilità del fòro e della stampa, e le rappresentanze delle più cospicue associazioni liberali». Finita dunque, fuori dalla stanza d’albergo, l’intimità per la coppia semi-clandestina, e difatti, come c’informa il Chiarini, «Alla sera [del 9 luglio n.d.r.] due imbarcazioni di canottieri attendevano al molo San Carlo il poeta, per condurlo, in compagnia di alcuni dei partecipanti al banchetto, a fare una passeggiata in mare; la mattina di poi una ristretta brigata d’amici lo accompagnò a visitare la vicina Capodistria, dove si rinnovarono le cordiali accoglienze. Aveva deciso di partire la sera, ma, cedendo alle vive insistenze degli amici, rimise la partenza alla mattina dipoi. Quando partì, la stazione era affollata di cittadini d’ogni classe, recatisi a stringergli la mano. Egli era commosso. Le sue ultime parole nel congedarsi da loro, furono: A rivederci presto!» (Giuseppe Chiarini, Memorie della vita di Giosue Carducci, G. Barbera, Firenze 1903).

Un arrivederci che poi non fu mai realizzato, benché l’interesse politico per Trieste e il movimento interventista continuasse a occupare per anni la mente e spesso gli interventi del Carducci, soprattutto in relazione al processo e alla successiva esecuzione capitale di Guglielmo Oberdan, nel 1882, quando definì Francesco Giuseppe, sul Don Chisciotte di Bologna, «imperatore degli impiccati».

Ma in esito alla visita a Trieste, il poeta elaborò due importanti testi delle Odi barbare: Miramar e Saluto italico. Il primo componimento, un’ode sulla vicenda di Massimiliano d’Asburgo, fu evidentemente suggerito al Carducci dalla visita dell’otto luglio, della quale abbiamo detto, al parco e al castello di Miramare, e il poeta, che aveva appuntato alcune note a matita durante la visita, vi attese a partire dal 17 agosto, quando scrisse le prime sei strofe – che furono in seguito ridotte a cinque – pubblicate il 14 gennaio 1882 dal bimensile triestino L’Eco del Popolo e anche sul Don Chisciotte di Bologna il 18 dello stesso mese, in entrambi i casi completate dall’annotazione dell’autore «luglio 1878 sotto Miramar mentre minacciava il temporale». L’ode fu poi completata undici anni dopo la gita a Trieste, il 20 settembre 1889 e inserita nel volume Le terze odi barbare, finito di stampare, appunto, il 31 ottobre di quell’anno.

L’altro testo “triestino” è quello del Saluto italico, decisamente più gradito agli irredentisti giuliani, scritto di getto, pare in un solo giorno, il 2 gennaio 1879 e spedita al Chiarini con la raccomandazione che l’ode doveva «essere stampata in una strenna a beneficio dell’emigrazione triestina» (Epist. XII, 82). E difatti venne pubblicata a Roma in un volume miscellaneo di prose e poesie, La stella dell’esule, col titolo Capo d’anno, mentre il titolo che poi rimase definitivo fu adoperato il 21 aprile 1879 per la pubblicazione sul bimensile La giovane Trieste, stampato a Roma con datazione da Trieste e diffuso clandestinamente nell’area giuliana ad opera di irredentisti locali.

Fatale che infiammassero gli animi degli irredentisti i contenuti di quell’ode, coi riferimenti a Bezzecca e alle guerre d’Indipendenza, e, ancor più, i richiami alle arti della classicità romana suggellati da Winckelmann (di cui aveva avuto modo di vedere a Trieste il cenotafio).

Se da un lato la fermezza della rivendicazione di Trento, di Trieste e dell’Istria all’Italia, che in quel testo si fa esplicita e proclamata con enfasi, doveva conciliarsi con le aspirazioni degli irredentisti giuliani, ed eccitarne ulteriormente le impazienti aspettative, dall’altro doveva essere vista con sospetto da parte delle autorità dell’amministrazione austroungarica, che d’altra parte non ostacolarono in alcun modo la presenza a Trieste e a Capodistria del poeta e della sua compagna.

Per la verità, come ha scoperto diversi anni più tardi Nicolò Cobolli in una sua ricerca all’Archivio di Stato di Trieste, l’i.r. luogotenente barone Felice Pino chiese con una lettera di data 13 luglio al preside del ginnasio superiore italiano di Capodistria, Giacomo Babuder ragione di una manifestazione spontanea degli studenti che salutarono il poeta all’atto della sua partenza in vaporetto da Capodistria. Il fatto era stato segnalato da una corrispondenza dell’Indipendente, presumibilmente di penna del Caprin, presente ai fatti, pubblicata sul numero dell’11 luglio. Il direttore dell’istituto scolastico rispose minimizzando quanto accaduto e asserendo che casualmente cinque «cinque (dico cinque) studenti ginnasiali» si trovavano in loco, «tra la gente che usualmente sta a guardare oziosamente gli arrivi e le partenze dei piroscafi» e furono presentati al poeta che «strinse loro la mano e li eccitò allo studio diligente». (Nicolò Cobolli, Giosue Carducci a Trieste e in Istria. 7-11 luglio 1878, in Rassegna storica del Risorgimento, Atti del XVI Congresso sociale tenuto in Bologna l’8, 9 e 10 novembre 1928). La cosa non ebbe alcun seguito, grazie alla prudente risposta del Babuder.

Il concomitante impegno dell’amministrazione comunale e di buona parte della classe intellettuale triestina protrassero fino alle soglie della Prima guerra mondiale la fortuna di Carducci e il riconoscimento del suo impegno civile. Il Comune, ad esempio, deliberò di dedicare al nome del poeta la più importante arteria della città fin dal 17 febbraio 1907, il giorno stesso della sua dipartita, né le autorità statali si opposero, fino all’entrata in guerra del Regno d’Italia. Tale alta considerazione della figura e dell’opera del Carducci dal dopoguerra riprese con vigore, sospinta dalla vocazione nazionalista del regime fascista, anche se in ambito letterario, sotto l’impulso dell’emergere di poetiche del tutto diverse, quali quelle del Pascoli e di D’Annunzio e subito dopo delle avanguardie futuriste e, in poesia, dell’ermetismo, calò su di lui una malinconica coltre di rimozione che continuò ad inspessirsi nel tempo.