L’avatar di Kafka

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Nelle alte sfere di governo dei social, gli uomini erano stati aboliti e sostituiti dagli algoritmi

di Francesco Carbone

 

«Dove tutti sanno poco, e’ si sa poco.»

(G. Leopardi. Dialogo di Tristano e di un amico)

 

«Allora saremo vicini a sapere quasi tutto ciò che

non ci importa sapere. Mentre ulteriori algoritmi

certamente sapranno trarne profitto.»

(Roberto Calasso, L’innominabile attuale)

 

 

Dopo una notte di sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato, nel suo letto, in una grossa menzogna nera. Non che avesse fatto qualcosa di strano: aveva passato la serata sui social (Facebook, Twitter, Instagram, YouTube), postando un paio di selfies al solito ritoccati coi filtri che Instagram offre da sempre (Nashville, Valencia, Mayfair…), condividendo qualche contenuto in cui credeva di rispecchiare quello che, con un certo ottimismo, possiamo chiamare il suo pensiero. Lasciò la sua scia di lumaca digitale soprattutto disseminando un po’ di like qua e là; infine, acconsentì alla richiesta di aggiungere alla list dei suoi amici una certa Jessica, la quale nelle sue foto esibiva un sorriso accattivante e che mostrava di amare i gatti, i tramonti, una certa marca di pizza surgelata e i tatuaggi. Jessica, che in realtà – particolare ininfluente – non era una persona ma un bot: un nulla digitale capace di interloquire con utenti veri, o falsi come lei, generato in Macedonia e venduto in un pacchetto di 500 falsi profili come lei al prezzo stracciato di cento dollari: pacchetto fornito a chi sapeva come guadagnarci.

Tra i contenuti delle sue piattaforme social, Gregor non aveva mai sbirciato nulla che lo informasse di questo. Del resto nessuno può essere obbligato a sapere tutto; sapere per esempio che proprio in quell’anno uno sciame di 36.000 bots era stato sparso in rete dalla sola Russia. Pareva poi che un esercito di creature digitali simili a Jessica avesse condizionato due anni prima l’elezione del presidente degli Stati Uniti: quel Trump su cui è lecito tenere sospeso il giudizio: se sia un uomo o, a sua volta, un bot. Sempre che la storia dei bot russi non sia una delle tante fake news.

Come al solito, prima di addormentarsi e fare sogni stranamente inquieti, Gregor, aveva dato un’occhiata alle ultime novità messe su Facebook dal suo politico preferito, un leader perentorio e aggressivo che gli piaceva molto: in particolare nella sua pagina scialò in like e si compitò persino un commento alla notizia dell’ennesimo extracomunitario da bandire: scrisse D’accordo! Vaiiii! – Come nel caso di Jessica, Gregor non aveva voglia di sospettare che quel profilo, così frequentato da tanti, non fosse l’espressione di un uomo in carne ed ossa, ma di un chatbot, un algoritmo abbastanza intelligente da saper leggere, scrivere e rispondere ecolalicamente agli attivi frequentatori della sua pagina Facebook. Grazie a quel paio d’ore di socializzazione digitale, il cervello di Gregor aveva avuto la dose di dopamina a cui ormai non poteva rinunciare per sentirsi contento, dose che i cyberpsicologi di quel social sapevano da tempo come far rilasciare da ogni cervello umano connesso alla loro ragnatela mondiale: un cocktail di like, di richieste di amicizia, di giochetti divertenti e gratuiti che viene spontaneo condividere con gli amici.

Gregor si era addormentato sereno perché anche quella sera la giusta dose di dopamina ancora una volta aveva esorcizzato qualunque rischio di FOMO (Fear of Missing Out), quella sì una tragedia da suicidio: pur di non sentirsi fuori dalla corrente di amici e like, Gregor Samsa era disposto a cambiare pensieri, impressioni, certezze anche su se stesso; a contraddire persino quanto poteva aver visto coi suoi stessi occhi: cosa che, se non fosse accaduta, avrebbe sorpreso tutti i cyberpsicologi del mondo, i quali avevano, tra le loro conoscenze ovvie, quell’esperimento di Asch (1951) che aveva dimostrato che tutto, ma proprio tutto, quasi ogni persona fa per non sentirsi esclusa dal gruppo a cui appartiene.

Gregor apprezzava molto che, mentre ogni altra cosa a questo mondo aveva un prezzo, girovagare per i social fosse gratis. L’avessero avvertito che, «se non stai pagando per il servizio, sei tu il prodotto», (cfr. Charles Seife, Le menzogne sul web, 2017), Gregor non avrebbe avuto comunque niente da eccepire. Non si sarebbe offeso se avesse saputo che Facebook vendeva tutte le informazioni ricavabili dal suo profilo a chi le richiedeva (Samsung, Apple, un movimento politico, un supermercato…). Se il prezzo per avere tutti i suoi followers era essere trattato da merce, la cosa non poteva che apparirgli vantaggiosa. E poi cos’altro può voler dire essere una merce se non che qualcuno ti vuole davvero? Una merce a cui vendere altre merci… Per proporgli quelle giuste per lui, bastava un software persino da poco: da appena undici dei suoi likes su facebook, il programmino inferiva una conoscenza già più accurata dei suoi colleghi di lavoro; avendone a disposizione settantuno, l’algoritmo scandagliava i suoi sentimenti meglio del suo migliore amico; e appena con trecentouno likes il suo cuore veniva conosciuto dai dispositivi meglio di quanto avrebbe mai potuto fare sua moglie

Come la quasi totalità degli utenti dei social, Gregor Samsa si guardava bene dall’usare avventurosamente Internet. Per lui, il web, terra promessa nata da «una dolce fiducia nella natura umana» (Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? 2010), era il labirinto minaccioso da cui tenersi alla larga: mai una ricerca per sapere, per esempio, se davvero ci sia il riscaldamento della Terra, o se gli aborti siano diminuiti o aumentati. Del resto, se l’avesse fatto, Google, che lo conosceva meglio di sua moglie, gli avrebbe fornito solo una sequenza di risposte uguali a quanto pensasse già.

Da normale utente, Gregor era felice di vivere nel suo silo, nella sua echo chamber di amici tutti uguali a lui, tenuti, grazie ai filter bubbles, al riparo dalla brutta sorpresa di qualunque smentita di chi la pensasse diversamente, o semplicemente della realtà. A questo mondo di certezze, costellato di fatti, nonfatti, pseudofatti e fattoidi (del tutto indistinguibili gli uni dagli altri), Gregor aderiva con un profondo senso di armonia anche per il notevole talento con cui gli algoritmi avevano piegato la stessa lingua alle sue capacità di capire e di stracapire: frasi brevi, un uso confortante e inclusivo del Noi, verbi sempre nel modo indicativo – il modo della realtà! – spesso declinati in speranzosi futuri, mai un non che potesse adombrare i pensieri: su questo non c’era nessun rischio d’errore, soprattutto da quando, nelle alte sfere di governo dei social, gli uomini erano stati aboliti e sostituiti dagli algoritmi.

Così Gregor Samsa, con la naturalezza di un vermetto felice che bruca la sua foglia nell’immenso bosco del web, abitava i suoi microspazi virtuali, ambienti che aveva visto predisporsi sempre meglio ai suoi desideri: come un vestito fattogli su misura da un sarto.

Era caso mai il diverso, la voce stonata rispetto agli echi dell’echo chamber, a inquietarlo, a provocargli fulminei attacchi di odio anche forsennati. Ma anche il nemico aveva una sua omeostatica funzione: gli algoritmi sapienti sapevano quanto una quota non indifferente della gratificante dopamina che irrorava le sinapsi di Gregor venisse dall’odio: dall’odio condiviso coi suoi amici per gli stessi paria: vittime che sempre l’algoritmo predisponeva di volta in volta per le gogne virtuali necessarie al nutrimento mondiale di dopamina.

Così, alla sua metamorfosi in menzogna Gregor dedicò non più di otto secondi di sonnolenta attenzione: tempo più che sufficiente per constatare che non gli era successo niente di che. Poi prese lo smartphone, che titillava come ogni utente ogni sei minuti (centocinquanta volte al giorno), per vedere se qualche nuova bella cosa fosse sortita nell’amata finestrella: nel consueto stato di leggera ipnosi studiato, – o è una fake news? – procurato con le tecniche del NLP (Neuro-linguistic programming), Gregor lesse che era caduto un ponte a Genova. Fece scorrere col pollice infallibile il nastro di news sullo schermo, dedicando a ogni informazione un’attenzione di sei-sette secondi: un tempo in cui si sentì sinceramente dispiaciuto.

Se Gregor avesse saputo di una simile tragedia una quindicina di anni prima, sarebbe stato capace di dedicarle ben dodici secondi; ma è appunto la riduzione dei tempi – dei tempi della mente – la religione del Ventunesimo Secolo. A proposito di questo, dovremmo piuttosto complimentarci con lui che, come tutti i nativi digitali, aveva da tempo surclassato il pesce rosso, che è capace, nella sua palla di vetro, di restare concentrato su qualcosa per ben nove insostenibili secondi.

Gregor sapeva per esperienza che una curva dell’attenzione breve risolve da sola la grandissima parte dei problemi. Se l’avesse conosciuto, avrebbe potuto riconoscersi beatamente in quel brano di Fire and Fury di Michael Wolff (2018) in cui si racconta che il presidente americano Donald Trump si addormentava immancabilmente non appena gli si provava a leggere la prima pagina della Costituzione del suo Paese, testo che aveva sempre lietamente ignorato. Ora, come non pensare che era proprio per questo che era diventato Presidente degli Stati Uniti? Per non aver perso tempo a cercar di sapere cose che non aveva più alcun senso sapere?

Si può arrivare molto lontano abbandonandosi ai social: anche Trump, che fosse un uomo, un troll o un chatbot, viveva in silos tutti suoi, grotte platoniche dov’erano abolite le obiezioni e gli imprevisti: dov’era abolito ogni possibile Altro. Così anche il saggio Gregor, o il fatto alternativo che aveva preso il posto di Gregor, non trovava interessante sapere se quanto credesse fosse vero o no: sarebbe stata una fatica senza fine, visto che, come tutti, cambiava idea facilmente, credendo ora una cosa ora il contrario, dimenticandosi presto cosa l’avesse entusiasmato o fatto indignare anche poco tempo prima. Quello che Gregor sapeva era che era vero che ci aveva creduto: dunque era vero: era un Cartesio del XXI secolo.

 

 

PER UNA PRIMA BIBLIOGRAFIA: Franz Kafka, La metamorfosi, 2014i; Roberto Calasso, L’innominabile attuale, 2017; Franca D’Agostini, Menzogna, 2012; Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, 2017; Intorno agli unicorni. Supercazzole, ornitorinchi e ircocervi, 2018; Umberto Eco, Il fascismo eterno, 2018; Michiko Kakutami, La morte della verità, 2018; Christopher Lasch, La cultura del narcisismo, 1986; Anna Maria Lorusso, Postverità, Laterza 2018; Tom Nichols, La coscienza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, 2018; Eli Pariser, Il filtro. Quello che Internet ci nasconde, 2012; Enrica Perrucchietti, Fake news, 2018; Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, 2002; Giuseppe Riva, Fake news, 2018; Christian Salmon, La politica nell’era dello storytelling, 2014; Charles Seife, Le menzogne del web, 2017; Hannah Arendt, Verità e politica, 2004; Alcune questioni di filosofia morale, 2006; ; La menzogna in politica, 2006; Jacques Derrida, Storia della menzogna, 2014; Alexandre Koyré, Sulla menzogna politica, 2010; Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna, 2015; Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1974; Platone, La Repubblica, Laterza 1999; Ippia minore, 1999; Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, 1983; Tom Wolfe, Il decennio dell’io, 2013.