Ricordando Deziderij Svara

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di Walter Chiereghin

Uomo libero, sempre amerai il mare!
È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima
nell’ infinito muoversi della sua lama.

 

Charles Baudelaire Les fleurs du mal

 

Gli ultimi giorni del 2020 sono stati anche gli ultimi del percorso biografico di Deziderij Švara, uno dei decani – essendo nato nel 1934 – delle arti figurative a Trieste, dove in particolare è stato attivo nel significativo drappello di autori afferenti alla comunità di artisti di lingua slovena, che, con personalità quali quelle di Lojze Spacal, August Černigoj, Milko Bambič, Klavdij Palčič e Franko Vecchiet, costituisce un nucleo agguerrito ed articolato nelle diverse ispirazioni creative nel denso panorama delle arti nell’area territoriale giuliana. In tale eletta compagnia, la presenza di Švara si distingue come «voce originale ed autonoma nella sapiente mediazione, nell’ambito dell’astrazione geometrica, tra il costruttivismo di Černigoj ed il lirismo di Spacal e nel raccordo, almeno in prima istanza, alle poetiche tutte italiane di un Guidi e di un Morandi» (Sergio Molesi, 1981).

Dai primi esiti del suo agire pittorico, quasi ancora imbozzolati all’interno di una cultura accademica rigorosamente impegnata nella trasposizione del reale, la sua ricerca lo ha indotto, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, a percorrere un itinerario di ricerca formale che si è esercitata sempre più in direzione di un’astrazione che tuttavia non ha abbandonato se non episodicamente un suo radicato collegamento con la rappresentazione ispirata al realismo. Tra i primi passi di questa sua esplorazione si può rilevare la scomparsa tra i suoi temi della figura umana, percepibile soltanto attraverso le creazioni dell’uomo e le conseguenti modificazioni da lui apportate al paesaggio, progressivamente sempre più connotato da un semplificazione delle forme con l’eliminazione di dettagli e con il rigore di un’estrema pulizia formale.

Fin da quella fase, e una volta esaurita quella, intermedia, dell’astrazione più spinta, il soggetto che attirava l’attenzione di Švara era principalmente il mare, contemplato dalla riva, le barche, che suggerivano con le loro verniciature vivaci campiture da riportare sulla tela come dettagli dello scafo, fino a ridursi, nella produzione dell’ultimo periodo, a segmenti che davano senso profondità alle visioni, espresse per campiture orizzontali di colore, di rasserenanti marine, contemplazioni di un’immagine di sé riflessa, proprio come nel testo di Baudelaire citato in esergo, nella conseguita quiete di una composta limpidezza formale, autentico specchio di un equilibrio psicologico e spirituale lungamente cercato e infine raggiunto.

Una traccia illuminante del percorso umano e di quello artistico di Švara è narrato con precisione nell’intervista che mi ha accordato per il mensile Trieste Arte & Cultura nell’aprile del 2014 e che di seguito, per gentile concessione dell’editore Hammerle, riproduciamo in queste pagine, ricordando con ammirazione e rimpianto l’amico recentemente scomparso.

 

 

INCONTRO CON DeZideriJ Švara

 

«Kai je to, mama?», che cos’è, mamma? Col piccolo dito teso a indicare un luccichio lontano, stando in braccio alla madre. è un giorno qualsiasi della metà degli anni Trenta del Novecento, il luogo è il piccolo borgo di San Giuseppe della Chiusa, Ricmanje per quasi tutti gli abitanti, in Val Rosandra, alle porte di Trieste. «To je morje», risponde la donna: è il mare. Il mare, già, penso guardandomi attorno, tra decine di rarefatte marine ormai quasi del tutto astratte, nello studio luminoso sopra l’appartamento in cui abita Desiderio Švara.

 

Questo piccolo episodio che mi racconti, uno dei primissimi tuoi ricordi, mi fa pensare a come siano a volte misteriosi i fili che legano tra loro le cose nella vita di un uomo, e ancor più quelle che poi ritroviamo sulle tele di un artista…

è quello uno dei miei primi ricordi, probabilmente la prima volta che, da lontano, vedevo il mare e quel suo luccicare che provo ora a riprodurre in questi quadri, i più recenti tra quelli che esporrò a maggio. Tutto si tiene, ogni cosa si salda… e da quel mare non ho mai potuto staccarmi, presenza quasi del tutto costante in tutto quello che ho fatto. Con lui ho un rapporto intimo e durevole. Non tace mai, ha sempre qualcosa da dirmi, ed è ormai un dialogo che dura da molti decenni. Vedi che ne parlo come fosse una persona, un vecchio amico?

Le tue marine, così piane, così tranquille nella luce sempre cangiante che trova ogni volta sulla tua tavolozza i colori più adeguati a fissare l’attimo che più non torna, danno il senso di un’appagata serenità, quasi che la tua vita sia fin qui vissuta nella contemplazione di un fluire generoso del tempo, senza asperità, senza dolori.

Magari fosse stato come dici tu. è vero il contrario, come in parte sai bene, ma mi fa piacere che tu colga questa serenità nei miei dipinti: è la cosa cui aspiro con maggiore intensità, è, anche, la visione che vorrei trasmettere a chi ne fluisce, la contemplazione di un ordine interiore che aspira a un’illuminazione, una conoscenza più profonda, un’immersione in un assoluto che magari sappiamo essere inattingibile, ma al quale non possiamo fare a meno di aspirare. Per questo la natura, le cose che vedo intorno a noi (e il mare in primo luogo( sono state il soggetto quasi onnipresente nella mia pittura, che si è esercitata solo occasionalmente con soggetti diversi, per lo più a livelli di studio. è perché trovo che soltanto da un sentirsi parte del tutto, dal confronto che silenziosamente si fa con l’elemento naturale che abbiamo davanti agli occhi possa derivare l’approdo a una conoscenza più piena della spiritualità della quale siamo partecipi, della parte immateriale di noi, insomma.

Sei passato però attraverso prove molto dure, nella tua biografia, prima di pervenire a questa serenità che oggi così efficacemente manifesti nella tua opera.

Purtroppo è così, è stato così. La malattia senza perdono di mia moglie, vederla trasformarsi in una persona diversa e perfino ostile, una situazione che senza scampo ci ha condotto all’impossibilità assoluta di essere insieme e di comunicare utilmente. è durata per quindici lunghissimi, interminabili anni prima che se ne andasse, dieci anni fa, e poi la sventura più difficile da affrontare, la perdita di un figlio che se n’è andato improvvisamente per un infarto, appena cinquantenne. Non è stata una vita facile, e ci sono stati momenti nei quali quanto mi stava succedendo mi pareva giunto a un livello per me non più sopportabile, vissuto oltretutto in uno stato di progressivo isolamento, di solitudine. Devo dire che proprio Claudio H. Martelli, con la sua profonda umanità e con l’empatia che mi ha manifestato, mi ha aiutato a superari i momenti più duri.

Oltre al resto, sei anche nato in un periodo certo non dei migliori per un bambino, che era destinato ad affrontare la guerra a sei anni, ma anche prima, nella tua condizione di bambino sloveno in uno stato totalitario, violento e vessatorio nei confronti di quelli che chiamava “alloglotti” non dev’essere stata un’infanzia facile, vero?

Direi di no. Mia madre parlava soltanto sloveno, mentre mio padre, che conosceva perfettamente l’italiano, non si sarebbe mai sognato di parlarlo con noi, in casa: era tenacemente antifascista, e appena gli fu possibile aderì alla Resistenza jugoslava. Sta di fatto che mi trovai in una classe di bambini di sei anni, tutti più o meno con le mie nozioni linguistiche, dove non si poteva parlare che in italiano. Nessuno capiva niente di quanto la maestra ci diceva, per mesi. Ricordo il primo giorno di scuola, stavamo tutti zitti ad ascoltare quella donna, scura, con i tratti meridionali, direi brutta, che sbraitava contro di noi in una lingua assolutamente incomprensibile. In una mano teneva una bacchetta, nell’altra un libro, illustrato a colori, per me un oggetto mai visto. Con la copertina a colori, capisci? Continuavo a fissare il volume che teneva tra le mani, e pensavo di aver capito che era disponibile a punirci con la bacchetta o anche a premiarci con il libro, allora mi impegnai al massimo, cominciai a capire qualche parola e alla fine dell’anno il libro fu mio, un romanzo di Tarzan, illustrato a colori, la cosa più bella che avessi mai avuto!

Pochi anni più tardi dovesti però abbandonare la scuola, vero?

Già: mio padre era tornato dalla guerra di Liberazione minato nel fisico, come conseguenza di una grave ferita riportata in Montenegro. Dovetti lasciare la scuola e lavorai come falegname. Tiravo letteralmente la carretta, ma qualche anno dopo fui assunto alla raffineria Aquila, anche se i miei interessi erano fuori, erano, soprattutto, la pittura.

Ricordi com’era nato in te quell’interesse, che tanto ha contato e conta nella tua vita?

Credo fosse nato in chiesa, a Ricmanje, dove mi portavano ad assistere alle funzioni liturgiche. Mi sarò annoiato, come ogni altro bambino. La liturgia era in latino, figurati… e così, guardandomi attorno, mi incantavo col naso all’insù a perdermi nella contemplazione del grande dipinto sulla volta della chiesa, La buona morte, opera di un artista del ‘700, un frate napoletano, Pasquale Perriello. è stata la prima opera d’arte nella quale mi sono imbattuto e ho pensato allora che, da grande, avrei fatto il pittore.

Cosa che poi ti è riuscita, evidentemente.

Beh, posso dire di averci provato… Ho avuto la fortuna di avere dei maestri notevoli: Riccardo Tosti prima e Renato Brill successivamente. Ma l’acquisizione di una buona tecnica pittorica, se è fondamentale, non è tuttavia sufficiente: bisogna conoscere di più, avere nozioni di cosa sia stata prima di noi l’arte, studiarne i nessi con la realtà profonda, storica e psicologica dell’uomo. Sono stato a portare queste cose da Milko Bambič, anche lui fondamentale nella mia formazione artistica.

Immagino: ho avuto la fortuna di conoscerlo anch’io, e devo dire che era una personalità straordinaria, forse ancora misconosciuta nei suoi meriti, uomo di straordinaria cultura: artista, critico, poliglotta…

Sì, è stato su sua indicazione che mi sono diplomato da privatista al Liceo artistico di Venezia, conseguendo poi l’abilitazione all’insegnamento a Bologna. Mi sarebbe molto piaciuto insegnare, ma le esigenze pratiche, la necessità di provvedere alla famiglia mi hanno precluso quella strada. Così ho lavorato nella raffineria fino a raggiungere il limite del pensionamento per anzianità di servizio, allora fissato in trentacinque anni, e me ne sono andato in pensione. Però la Total, che come ricorderai era proprietaria della raffineria di Aquilinia, mi prospettò un lavoro che accettai e che mi portò dapprima a Parigi e poi ai tropici, in Martinica, nelle Antille francesi, dove rimasi per cinque anni.

Mi azzarderei a dire che anche questa tua esperienza caraibica ha lasciato un segno profondo nella tua pittura, se non altro per la straordinaria gamma dei colori che adoperi.

Direi di sì: il clima, la vegetazione, la variegata provenienza etnica degli abitanti, i colori nei quali si vive immersi da quelle parti non possono non lasciare un segno. Oltre a ciò, ho avuto l’opportunità di stringere amicizia con un indiano (esiste alle Antille un’importante comunità induista), un guru per la sua gente, che mi ha iniziato ad alcune pratiche di meditazione che sono risultate per me importanti, esortandomi a confrontarmi con la sfera della spiritualità, troppo spesso ignorata in Occidente. Ciò mi ha dato l’impulso a studiare le filosofie orientali, e credo che oltre che il colore, che come giustamente affermi mi sono portato dietro dai tropici, sia anche questa dimensione spirituale che è rinvenibile nella mia pittura, o almeno spero che lo sia.

Ti dirò che non potevo conoscerne le ragioni, ma in effetti considero che la tua pittura ha sublimato le sue connotazioni realistiche nella quieta raffigurazione di una natura ridotta alla sua essenzialità, dove forma e colore conducono a una visione che è assai più interiore che meccanicamente riproduttiva della realtà visibile. Ma non vorrei farne un esercizio di critica d’arte…

 

Mi sorride e ci congediamo dopo poco, con grande cordialità. Mentre l’ascensore mi porta a livello della strada dal suo ottavo piano, non posso fare a meno di pensare a come collimino in Švara le caratteristiche personali e psicologiche e gli esiti artistici che da queste derivano, frutto di una serena riflessione su quelli che sono i valori fondanti di un umanesimo vissuto giorno per giorno, indagato con gli strumenti che una sensibilità acuta ed accogliente ha messo a sua disposizione.

 

Pubblicato su Trieste Arte & Cultura, aprile 2014