Il violoncello di Gino Pincherle

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La storia complessa di uno strumento rubato da ignoti e fortunosamente ritrovato dal proprietario

di Roberto Spazzali

 

La Seconda guerra mondiale era finita da pochi mesi e l’avvocato Gino Pincherle (1905-1983) era rientrato a Trieste da poco tempo, dopo essere stato esule e braccato dall’8 settembre 1943. Perseguitato politico e razziale aveva conosciuto il confino ed era stato internato a Urbisaglia dal giugno 1940 all’ottobre 1941. Noto in città per il suo antifascismo fin dalla sua adesione da diciottenne all’Unione goliardica per la libertà. Dopo l’armistizio aveva collaborato con Partito d’azione nel settore organizzativo, occupandosi per lo più – assieme al fratello Bruno – di stampa clandestina e dei contatti con la rete antifascista italiana, ma il 13 maggio 1944 era stato arrestato a Roma dalla famigerata banda Koch e incarcerato fino al 4 giugno, al momento della liberazione della città. Solo a guerra finita era rientrato a Trieste per assumere il delicato incarico di pubblico ministero alla Corte straordinaria d’assise che doveva giudicare coloro che avevano avuto un ruolo politico e militare o collaborato a vario titolo con le forze d’occupazione nazista o con i loro alleati fascisti. Come suo fratello medico Bruno, colpiti entrambi dalle leggi razziali abbracciarono con ancor maggiore intensità la causa antifascista. Gino era rientrato da poco a Trieste ed aveva trovato la sua abitazione – una villa in via Giulia, al numero 55 – completamente devastata e saccheggiata: era stata occupata dai tedeschi e dai collaborazionisti domobranci sloveni. Quel poco che era rimasto era stato sottratto, dopo la fuga degli occupatori, da ignoti saccheggiatori negli ultimi giorni dell’aprile 1945. Non si trattava di un bottino di poco conto. Come ha scritto Fabio Isman su «Il giornale dell’arte» del 30 gennaio 2021, ben quattordici opere d’arte di proprietà di Gino Pincherle erano andate all’asta nella filiale di Klagenfurt del Dorotheum: si trattava di un Palma il giovane, un paio di Giovanni Battista Pittoni ed altri dipinti non meno significativi.

Il 3 novembre, l’avvocato Pincherle passeggiando per corso Garibaldi (oggi corso Umberto Saba), scorgeva nel negozio Agenzie vendite di occasione di G. Semerari qualcosa di familiare: un violoncello con fodera di tela marrone corrispondente a quello che aveva in casa e che faceva parte dei tanti oggetti sottratti  dopo la fuga dei domobranci, come aveva saputo da alcuni testimoni oculari. Conosceva bene quello strumento: spesso lo aveva accompagnato nei concerti domestici a casa dell’amico Marco Ravasini tra il 1937 e il 1938, anzi glielo aveva lasciato per motivi di comodità e gli fu restituito diversi anni dopo, al rientro dal confino a cui era stato sottoposto fino al 1941. Pincherle, entrato nel negozio segnalò a Semerari il fatto e ottenne la promessa che lo strumento non sarebbe stato venduto e tantomeno restituito a chi lo aveva posto in vendita, persona della quale, tuttavia, non sapeva il nome. L’avvocato Pincherle era assolutamente sicuro che quel violoncello era stato nella sua abitazione fino al settembre 1943.

Nell’immediato esposto al Tribunale di Trieste, Gino Pincherle chiedeva il sequestro del violoncello in quanto si trattava di oggetto di refurtiva, la sua restituzione al legittimo proprietario, ma anche di conoscere il nome del depositante e un’eventuale perquisizione del domicilio di costui per individuare eventuali altri oggetti di sua proprietà, illecitamente asportati dalla sua casa. Il 5 novembre, due giorni dopo – con una celerità che ci appare oggi sbalorditiva – due agenti della Polizia civile si erano recati all’agenzia intimando di tenere sotto sequestro violoncello e custodia e si erano fatti dare il nome del depositante: il trentaseienne Gastone Bradaschia, insegnante. Le prime indagini avevano appurato che il Bradaschia aveva comprato il violoncello da Antonio Kidric, un fabbricante di pianoforti con laboratorio e abitazione in via Rismondo 9 e a sua volta lo aveva avuto per la somma di seimila lire, a sconto di lavori eseguiti, da Giuseppe Ribic di quarantasei anni, esercente della trattoria “Ai nuovi porchetti” in via Coroneo (allora via Nizza). Tutto chiaro? Niente affatto, perché il Kidric aveva dichiarato di avere acquistato il violoncello nell’agosto 1941 e non dopo, anzi era pure disposto ad esibire una copia de «Il Piccolo» dell’epoca, sulla quale aveva pubblicato un annuncio di piccolo commercio, e relativa ricevuta per l’inserzione. Nonostante che le date discordassero, Pincherle era convinto che quel violoncello fosse il suo e non era possibile una conciliazione per la distanza tra le parti. Pertanto il caso finì davanti al giudice istruttore Ferruccio Bercich. Certo, Gino Pincherle doveva dimostrare che era suo e il Kidric di averlo regolarmente acquistato nel 1941. Proprio costui dichiarava nell’interrogatorio del 7 novembre di ricordare molto bene lo strumento perché era particolarmente rovinato: una delle quattro corde era rotta e un’altra mancante, la tavola armonica scollata e inoltre risultava mancante anche un bischero. Antonio Kidric, nuovamente convocato, confermava che il violoncello era privo dell’archetto che si era procurato per rivenderlo al Bradaschia e di aver riparato a sua cura e spese la tavola armonica. Però sulla data dell’acquisto entrò in contraddizione: ricordava confusamente che il violoncello gli era stato consegnato nel 1941 o al massimo nel 1942, in tutti i casi prima della deportazione del Ribic nell’ottobre 1943. D’altronde Gastone Bradaschia dichiarava che l’acquisto risaliva ad almeno due anni prima (quindi il 1943) dopo aver notato nel laboratorio di pianoforti Kidric quel violoncello per almeno tre mesi.

Pure Gino Pincherle non era risultato troppo preciso nel rammentare i fatti: era sicuro che lo strumento fosse stato in casa fino al 2 settembre 1943; qualche mese prima lo aveva temporaneamente depositato presso l’amico Marco Ravasini – come già accaduto in passato, ed escludeva che fosse necessario di riparazioni: mancava l’archetto, aggiunto un bischero, ma era nelle condizioni in cui l’aveva lasciato, privo della corda del Sol e quella del La le aveva sostituite personalmente nel 1943. Si può dedurre che il Bradaschia non l’avesse usato e che il Kidric non l’avesse lasciato come lo aveva ricevuto.

Era poi la volta dei testi più o meno significativi. Nel cortile di via Rismondo 9 c’era all’epoca una fabbrica di ghiaccio di Enrico Tonier, che era pure amministratore dello stabile in cui c’era il laboratorio di Kidric. Giordano Regolo, operaio della fabbrica, confermava di avere visto il violoncello già alla fine del 1942, ma non poteva dirsi certo quando era stato rimosso, era invece sicuro che fosse rimasto lì per molto tempo. Pure la casalinga Giovanna Mlach de Rin, abitante nello stesso stabile, aveva visto  il violoncello e ci aveva pure scherzato sopra con il Kidric affermando di saperlo suonare. Allo scambio di battute era stato casualmente presente Giuseppe Ribic il quale aveva affermato che lo strumento era stato suo e che lo aveva venduto al fabbricante di pianoforti. L’episodio risaliva a un periodo tra la metà del 1942 e il 1943. Nell’interrogatorio dell’avvocato Mario Sinigaglia dichiarava di avere saputo che il violoncello era rimasto per un periodo a casa di un amico di Pincherle, ma che era stato restituito nel 1941 al rientro dal confino; per certo lo aveva visto in casa del proprietario nell’estate 1943. Nel frattempo la pratica era passata dal giudice Bercich al collega Ennio Pellegrini e infine a Stefano Rosano, che emise un mandato di accompagnamento per Giuseppe Ribic allo scopo di sentire la sua versione dei fatti, in quanto il procedimento penale era ancora contro ignoti per furto aggravato al fine di ricavarne un ingiusto profitto. Per certo era stato venduto da Giuseppe Ribic, che tuttavia non poteva testimoniare: essendo stato deportato assieme alla moglie in Germania nel 1943, dove entrambi erano deceduti. A Trieste viveva il figlio, coniugato e residente nei rione di San Giovanni. Sarà rintracciato dal giudice istruttore Ennio Pellegrini, cui chiarì che nel 1941 non era a Trieste e che il Giuseppe Ribic che stavano cercando era in verità l’omonimo suo padre, deportato in Germania «donde non ha fatto ritorno».

Bisognava giungere a una decisione che chiudesse la faccenda e il pubblico ministero riteneva che il violoncello era stato effettivamente sottratto a Gino Pincherle in un imprecisato giorno successivo l’8 settembre 1943 – quindi le testimonianze che collocavano la presenza del violoncello in date antecedenti nel laboratorio di Kidric non erano da prendersi in considerazione – però, non essendo possibile individuare gli autori del reato né svolgere ulteriori accertamenti, ai sensi dell’art. 371 cpp, chiedeva al giudice istruttore  di dichiarare l’improcedibilità dell’azione. L’indomani, 2 aprile 1946, il giudice Ennio Pellegrini pronunciava una sentenza di «non luogo a procedere perché ignoti gli autori».

E il violoncello? Era stato posto sotto sequestro e, probabilmente, restituito.

 

(Fonte: Archivio di Stato di Trieste, Tribunale di Trieste, Atti penali istruzione, busta 2720, procedimento penale 8959/45).

 

 

Bruno Pincherle

(Trieste, 1903-1968)