Tralummescuro: le nostalgie di Guccini

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Il nuovo libro del cantautore/scrittore, sul suo paese nella luce incerta di un crepuscolo demografico, sociale e culturale

di Walter Chiereghin

 

Presentato dall’autore a Pordenonelegge poche ore dopo che il volume era arrivato nelle librerie, Tralummescuro, più recente fatica di Francesco Guccini, rivela fin dalle prime pagine (quando ne parlai con lui ne avevo lette poco più di cinquanta) alcune sue connotazioni, che poi saranno confermate, pagina dopo pagina, fino alla fine del libro.

L’opera affronta e si confronta con un sentimento ricorrente nella poetica dell’autore, che già in ripetuti episodi creativi, nella sua produzione di indimenticabili canzoni, si era fatto interprete di una profonda nostalgia per il suo passato e per quello della sua generazione, per esempio in Radici o nel coevo Incontro (1972), in Le osterie di fuori porta (1974), oppure in Eskimo (1978), per attingere ai successi più noti e popolari.

In Tralummescuro oggetto della nostalgia è Pàvana, frazione di Sanbuca Pistoiese, il paese d’origine del padre, dove il piccolo Francesco trascorse i primi anni dell’infanzia, durante la guerra nella quale il regime aveva cacciato l’Italia quattro giorni prima che egli venisse al mondo. Lo stesso luogo dove Francesco ha fissato la sua residenza, ormai saranno presto vent’anni. Oggetto già della sua prima pubblicazione in prosa, Croniche epafaniche, il piccolo borgo appenninico toscano (ma in posizione liminale adiacente all’Emilia, da lì raggiungibile agevolmente anche a piedi), torna ad essere il centro della narrazione, che confronta la situazione attuale di un borgo in progressivo vistoso calo demografico con il paese ricco di abitanti, di tradizioni, di occasioni d’incontro che era negli anni dell’immediato dopoguerra e ancora nei primi anni Sessanta, quando – confida Guccini – lungo un solo chilometro della Porrettana che lo attraversa esistevano sei piste da ballo, mentre oggi se si vuole ballare bisogna montare in macchina e andarsene altrove. è un dettaglio, se si vuole anche poco significativo, ma Guccini ne inanella altri a dozzine, in una impietosa ricostruzione intrisa di un leggero sottinteso rimpianto.

Era una civiltà contadina, prima di tutto, ancorata a solidi valori che avresti detto indiscutibili e immodificabili, e che invece oggi sono archeologia culturale. Per esplorarla e per narrarla a terzi, quella civiltà dell’altro ieri ha richiesto di essere rivelata per mezzo di un appropriato strumento lessicale, in grado di trasportare il lettore in un microcosmo nel quale le parole fossero capaci di modellarsi sopra la realtà che intendono rappresentare enfatizzandone dettagli minuti quali persino gli odori e i sapori, altrimenti inattingibili nell’uso di un registro linguistico diverso – per quanto contiguo – a quello autoctono. Consapevole della centralità dello strumento lessicale nell’economia del libro, Guccini gli dedica un intero capitolo, il terzo, dividendone i contenuti tra una trattazione storica sulle vicende del paesello, un’altra lessicografica sul rapporto tra lingua e dialetto (che «esiste e lo si parlava lungo una fascia orizzontale, da est a ovest, là dove l’Emilia incontra la Toscana, e illustri studiosi hanno dibattuto se sia un toscano influenzato dall’emiliano o viceversa», pp. 65-66). L’opulenza linguistica e fonetica di cui si tratta in quel capitolo sembra assumere a tratti il ruolo di vocabolario nomenclatore, sorreggendo tutt’intera la prosa del volume, opportunamente illustrata mediante note a pie’di pagina nei casi in cui il lemma si discosta di più dalla lingua nazionale. Né la vocazione esplicativa si limita a ciò, essendo ulteriormente arricchita da un glossario di una sessantina di pagine in fondo al volume («Voci del testo chiarite al popolo»).

Sulla scorta di un tanto elaborato sistema linguistico, viene offerta al lettore un’immagine articolata e complessa di cos’era stata la vita e la gente, le case e il clima, gli animali e i radicchi di un mondo che viene rivissuto negli ultimi scampoli di identità affioranti grazie alla memoria assai più che dall’osservazione diretta di quanto si muove nell’aria di crepuscolo che oggi identifica il luogo e le persone che lo abitano, superstiti provenienti da ore antecedenti il tramonto, quando ancora Pàvana – e l’Italia – erano espressione di una realtà sociale agricola più che industriale, non ancora corrotta da una pubblicità televisiva pervasiva, da un sistema distributivo che non s’era ancora arreso alla grande distribuzione, dall’invadenza di modelli di comportamento poco rispettosi dell’ambiente.

Questi due mondi, i tempi disarticolati di un passato recente e di un presente magari più confortevole, ma certo più anodino ed insipido sono posti a confronto di continuo, nella narrazione di Guccini, che si rivela occasione per discorrere anche didatticamente di persone e soprattutto di cose e attività dei tempi andati. Così, ma è solo un esempio tra mille, ci viene raccontata la raccolta e la preparazione delle castagne, alimento di base di un’economia povera di raccolta nei castagneti che costituivano una risorsa importante. «Alora cominciava la còlta. Tutta la famiglia, di tutte le età si mettevano a manéggia, partendo dall’alto o dal basso, ognuno con la sua striscia di territorio davanti, e via fino a su (o a giù, dipende da dove partivano), poi arrivati in cima (o in fondo) scaricavano il paniere e ripartivano. Così per giorni. Alla fine, quando pensavano d’aver ripulito tutto, che non ci fosse rimasta una castagna, […] lasciavano che qualche famiglia più povera, senza un castagneto di suo, andasse a raspare. E ne tiravano su ancora un sacchetto» (p. 108). E non era che l’inizio di un’attività ancora da realizzarsi con la selezione dei frutti per tipo: «Le castagne non erano tutte uguali, c’eran le pastnési, le pistoiesi, le molane, le mondine e tante altre ma, tolti i maroni che venivano raccolti a parte, eran tutte prese su uguali e portate al caniccio, dove cominciava l’operazione della seccatura» (pp. 108-109). Il caniccio è un sistema ingegnoso per essiccare le castagne, ma rimando i molti che non ne hanno idea a leggerne direttamente nel libro di Guccini, che compie una descrizione puntuale, gustosa e interessante su quella antica pratica. L’essicazione durava una quarantina di giorni, e rimaneva ancora da mondare i frutti della buccia e della sanza, il residuo della mondatura, prima di inviarle al mulino per la macinatura, per ricavarne la farina che «serviva per tutto l’inverno, per farne una polénta dolce, che rotolava sul tagliere bruna e fumante, bòna, appena mazato il maiale, coi fegatelli e la rete, per i nécci, per le frittelle, per il castagnaccio, aromatizzato col ramerino, ma aveva l’aggiunta sibaritica di noci ed uvetta per le feste di Natale» (p. 111). Un mondo diverso dal nostro, in cui «i castagni non li guarda più nessuno, e i boschi sono ridotti a un troiài-io, e i ricci cascano su quelli degli anni passati e le foglie non le ramazza più nessuno, e i rami sono accumulati sul terreno e si mescolano alle piante sbarbate dal peso di una nevata e piombate a terra» (p. 112).

Pare, leggendo, di sentire la voce, pacata e inconfondibile, non esente da qualche lampo della sua sorniona ironia, che ha arricchito la colonna sonora di più di una generazione. E ti capita, chiuso il libro, di mormorare a te stesso con voce sognante le parole del più piccolo dei protagonisti della sua Il vecchio e il bambino: «Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!»

 

 

Copertina:

 

Francesco Guccini

Tralummescuro

Ballata per un paese al tramonto

Giunti, Firenze 2019

  1. 288, euro 19,00