Lo sguardo di “Scorcio”

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di Luca Zorzenon

 

Uno dei pregi del Saba di Stefano Carrai è senz’altro l’ampiezza dell’indagine dedicata al Saba prosatore. Pregio nel pregio, il titolo della sezione dedicata ai Racconti, a Scorciatoie e raccontini, a Ernesto: «Un diverso canto», che di suo già dice molto. Le Scorciatoie, del resto, non stanno forse sotto il segno della diversione? Della ricerca di una diversa via, non retta e non comunemente frequentata, che scorci il percorso in asciutta brevità, inviti alla digressione e alla trasgressione, aspra – ebbe a scrivere Saba stesso – come un sentiero per capre, ma infine rivelatrice di mete e approdi di una consapevolezza inusuale? E tuttavia, sotto un medesimo segno che unifica l’essenza della poetica sabiana, in versi e in prosa: giungere al cuore della cosa? E certo, lo sappiamo, in un gioco (forse quello della famosa «carta» nel finale di Amai) di reticenze e immediatezza, di tenebre e solarità (le voci alterne di Preludio e fughe), di egocentrismo doloroso e di apertura all’infinito amore dell’alterità, di profondità oscure che tendono (nietzschanamente) a chiarezze essenziali, di originarie scissioni dell’io e di pazienti, sofferte suture che durano l’intera vita: di “rose” e di “abissi”. Fino a giungere, nota Carrai, allo sguardo di scorcio gettato sull’orlo del dubbio radicale, che fu anche di Adorno: si possono scrivere versi dopo Majdanek? Poeta, Saba, di una città, Trieste, che ebbe la Risiera, l’unico campo nazista dotato di un forno crematorio in territorio italiano, e che pure non scrive poesie sull’olocausto, come accade a Fortini, Sereni, Quasimodo. Saba – per continuare nelle parole di Carrai – che è ebreo suo malgrado, e che matura un suo antisemitismo semita anche nell’influenza delle letture di Weininger e Nietzsche, ma sofferto come un inesauribile confronto con una parte di se stesso oscura, grave, colpevole, da combattere, da slontanare: una “parte” che è materna. Dall’abisso dell’olocausto, per Carrai, sono reduci le Scorciatoie di Saba, che pure – aggiunge lo studioso – in una lettera a De Robertis del 1946 scrive della sua volontà di «chiudere in un cerchio di bontà persino Majdanek».

Come dar forma (cercare un ordine) a tutto ciò? Come indagarlo ed esprimerlo nella forma della poesia? Due le vie sabiane: quella dell’ancorarsi al “filo d’oro” della tradizione letteraria italiana (anche il più volte deprezzato Petrarca, che tanto valse a Saba, però, nella sua lezione di armonia formale e di pulizia lessicale come controspinta all’antitesi, alla contraddizione dolorosa, nel render cioè «amorosa» la «spina»), oppure la “scorciatoia” aforismatica, la brevitas asciutta, icastica e tuttavia non di conclusa sapienza, ma aperta e mobile, solcata da un reticolo – sovente di convulsa precisione – di segni di interpunzione, pause ritmiche e sospensioni, curvature e argomentazioni binarie di una sistematicità antinomica, nella definizione di Alfredo Luzi.

Forme diverse? Un “diverso canto”? Sì, se tuttavia, fra poesia e prosa di Saba, si intuisce anche una salda, tenace invarianza: la fiducia nella composizione di un quadro i cui elementi stiano sempre racchiusi dentro una conclusa cornice, la fiducia nel libro. Diversione, dislocazione, trasgressione in Saba non smentiscono mai l’anelito al canto, alla ricomposizione armonica delle scissioni del cuore. Le scorciatoie (e I raccontini) non sono libro meno pazientemente costruito del Canzoniere, nel segno della costruzione di un senso, del libro come aspirazione organica al senso. E se per il Canzoniere una simile ispirazione fu anche petrarchesca, per le Scorciatoie valse, piuttosto, come ci ha suggerito Silvio Perrella, la lezione di Nietzsche (del Nietzsche “precursore di Freud”, del Nietzsche aforismatico di Aurora) a illuminare il rapporto fra l’aforisma-frammento e il libro che aspira a raccordarlo ad un tutto. Un’idea di “connessione non romanzesca” che, per Perrella, offre l’immagine di un continuum all’infinito, di un’ “analisi freudianamente interminabile”. D’altronde, entro una tradizione della prosa italiana poco incline alla forma aforismatica, Gino Ruozzi ne rievoca una precisamente sabiano-triestina, più vicina a suggestioni mitteleuropee, dai «lampi di pensiero» di Francesco Grisogono, agli «immoralismi» di Italo Tavolato, ai «frammenti» di Francesco Burdin. Libro in forma di aforismi, le Scorciatoie sabiane, che Edoardo Greblo legge all’insegna dell’invettiva del poeta, in nome di un Nietzsche anti-filosofo e invece “psicologo”, maestro del sospetto e vitalistico demistificatore, contro il sistematismo ontologico della tradizione metafisica: il Saba che ammette la radice ego-centrica di ogni poeta, ma che rifiuta, invece, l’universalismo ego-cosmico dei filosofi. E anche da ciò, in Saba, potremmo aggiungere, lo scarto costante della sua poetica dalla linea simbolista della poesia, in particolare polemica col suo rinnovarsi novecentesco ermetico.

Se la poetica di Saba nel Canzoniere ha una svolta sensibile, essa si colloca, ci avverte lo stesso Saba in Storia e cronistoria del Canzoniere, dopo una raccolta tra le più alte e che segna un punto di crisi e insieme di maturazione e ripresa: Il piccolo Berto, sotto il segno dell’esperienza psicoanalitica e della meditazione di Freud. Si inaugura così la stagione del Saba di Parole e di Ultime cose. E, ancor più in là, di Mediterranee. Nella celeberrima Ulisse quegli «isolotti a fior d’onda» lungo le coste dalmate, che appaiono e scompaiono, quando le maree notturne li sommergono e li annullano alla vista, terre labili, presenze incerte, eppure al sole belle come smeraldi, una «terra di nessuno» come «regno» del poeta che le preferisce ai «lumi» di un porto sicuro (ancora Petrarca, ma stavolta anche nel segno del rovesciamento) e che vi rivendica un suo «diverso esilio», scogli aspri, deserti e avventurosi come in cielo stelle isolate tra le quali cercare il senso di una possibile costellazione, rievocano in immagine poetica la ricerca sabiana che inizia proprio a metà degli anni ’30 dentro il laboratorio stilistico delle Scorciatoie, concluse e assemblate in ordine, in libro, proprio nel’45-’46, gli anni di Mediterranee. Insomma, è ad iniziare dall’esperienza di scrittura delle Scorciatoie che Saba apre a una diversa soluzione di poesia: una ricerca che, come ebbe a scrivere Mario Lavagetto, piuttosto che scontare debiti o cedere a lusinghe verso Ungaretti o verso il neo simbolismo ermetico anni ‘30 e la sua parola criptica e mistericamente insondabile, da Saba tenacemente scostata da sé («parole incrociate»), si nutre della essenzialità, dello scavo profondo nel cuore della cosa, della rapida intensità apparentemente divergente e in realtà tesa verso il movimento centripeto: della lezione, cioè, del «diverso canto» delle Scorciatoie.

Più che un limite una caratteristica fondamentale, tuttavia, quella che trattiene il Saba delle Scorciatoie e della stagione ultima della sua poesia al di qua di una poetica del frammento e del frantume, dello scarto irrelato e dell’angoscia irredimibile, al di qua dell’esperienza della disgregazione del senso e della totalità cui esso sempre aspira. Anche Majdanek può esser chiuso in un cerchio di bontà, quando, afferma Alfredo Luzi, la scrittura di Scorciatoie sgorga dall’impeto di rinnovamento morale-civile dell’opposizione tra il male del fascismo e della guerra e il bene della lotta di Liberazione e delle speranze dell’immediato dopoguerra.

Una stagione dell’impegno di Saba che Fulvio Senardi ha voluto ricondurre però ai suoi più certi termini temporali, che non oltrepassano la breve stagione dei governi ciellenisti dell’immediato dopoguerra e non dura fino alla svolta del 1948 in cui di solito lo si prolunga, memori del ritratto del poeta nella famosa lirica di Vittorio Sereni. Più che impegno politico, per Senardi nelle Scorciatoie Saba rivela un’intenzione pedagogica di segno a-ideologico e fiduciosa piuttosto nelle capacità dell’esperienza psicoanalitica di offrire alla ri-costruzione di un’Europa nuova (sulla rivista La Nuova Europa Saba collabora appunto con alcune “scorciatoie”) una rinnovata e più profonda coscienza del suo fondamento umanistico. La poesia è sempre poesia civile, avvertiva Saba stesso, se tuttavia il suo “impegno” non venga inteso in semplici e tradizionali dimensioni contenutistiche o di esplicito schieramento. Piuttosto, per l’appunto, in una funzione pedagogico-civile mediata e tipica della forma poetica, aliena, come Saba confessava anche di se stesso, da facili e schematiche definizioni di “conservatorismo” e “progressismo”.

Il Saba di Stefano Carrai è un libro che coniuga un discorso complessivo – articolato e con momenti di densa analisi critica di testi fondamentali – sull’intera parabola del Saba poeta e prosatore, con puntuali riferimenti, talora anche inediti, alla sua biografia e al contesto socio-culturale triestino. L’incrocio tra l’uomo e il poeta, saldamente tenuto in pugno lungo l’intero volume, produce uno stile che in nulla cedendo alla densità dell’analisi e dell’interpretazione propone le forme di una critica letteraria leggibile e godibile ben al di fuori di tradizionali specialismi accademici. Un Saba davvero a “tutto tondo”, un punto di riferimento, il libro di Carrai, per un rilancio della ricerca e degli studi sul poeta triestino.

Per il sessantesimo della scomparsa di Saba l’Istituto Giuliano di Storia Cultura e Documentazione ha voluto dedicare al poeta un significativo convegno sulle Scorciatoie con interventi di Stefano Carrai, Edoardo Greblo, Alfredo Luzi, Gino Ruozzi, Silvio Perrella, Fulvio Senardi, coordinati e introdotti da Giovanni Capecchi e Pier Luigi Sabatti.

Stefano Carrai ha presentato a Trieste il suo Saba su invito del Centro Studi Scipio Slataper, introdotto da Lorenzo Tommasini, di cui sulla rivista online Oblio si può leggere una recensione completa del saggio.

 

 

 

 

Copertina:

 

Stefano Carrai

Saba

Salerno Editrice, Roma 2017

  1. 296, euro 18,00