Impera l’arte (se arte è)

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Attorno a una creatività sconcertante un miliardario giro di affari e denari

di Roberto Curci

Sorridono. E ci sarà pure un perché. Fateci caso: nella maggior parte delle loro foto reperibili i Maestri dell’Arte Contemporanea non appaiono affatto come gli artisti pensosi, arrovellati, tormentati, tramandatici da una certa tradizione iconica. Sorridono, e chi più di tutti se la ride è Jeff Koons, l’ex di Cicciolina: quello, per capirci, dei giocattoli e pupazzi gonfiabili in lamina d’acciaio. Un sorrisone da bravo ragazzo americano. Bravo e indubbiamente scaltro.

Chi voglia conoscerlo da vicino può ammirare, nella mostra intitolata “Shine” (Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 30 gennaio), «una selezione delle più celebri opere di un artista che, dalla metà degli anni Settanta, ha rivoluzionato il sistema dell’arte internazionale». Certo, Koons – come Hirst, come Cattelan, come Judd, come Flavin – ha movimentato, più che il sistema, il mercato dell’arte (sempre che di arte si tratti), con un vortice di fantastilioni rimpallati tra un’assai ristretta élite di gallerie e nababbi planetari: una vera bolla speculativa.

E siccome «l’arte è ciò che tutti sanno cosa sia», secondo l’antica massima di Benedetto Croce, e dunque la sua essenza si può stiracchiare come polistirolo a seconda dell’occhio del fruitore, ha probabilmente ragione Koons e non quanti ritengono che le sue opere, più che esempi di puro kitsch, siano esempi di pura fuffa. Del resto, lo scaltro Jeff difende le sue sculture e installazioni con una frase autoassolutoria: «Il lavoro dell’artista consiste in un gesto, con l’obiettivo di mostrare alle persone qual è il loro potenziale. Non si tratta di creare un oggetto o un’immagine: tutto avviene nella relazione con lo spettatore. È qui che avviene l’arte».

Il dilemma arte-non arte si ripropone per la produzione di Maurizio Cattelan, quello dei cavalli appesi o conficcati nel muro, quello del dito medio formato XXL collocato in piazza a Milano, quello dell’Hitler inginocchiato e di Papa Wojtyla centrato da un meteorite. Anche a Cattelan viene reso omaggio con una mostra aperta al Pirelli Hangar Bicocca di Milano fino al 20 febbraio. Gli va dato atto di avere una tantum rinunciato agli estremismi della sua lucrosa irriverenza. Stavolta, complice lo spazio quasi chiesastico dell’Hangar e la densa penombra che l’avvolge, l’autore ha dribblato scandali e choc con la pauperistica messinscena di tre sole opere, Breath Ghosts Blind (da cui il titolo della mostra), strategicamente dislocate negli ambienti.

Che cosa, poi, significhino i tre pezzi (sculture? Installazioni? Come definirli?) resta un mistero, salvo nell’ultimo caso. Una figura d’uomo giacente o dormiente, con un cane sdraiato al suo fianco, in marmo bianco di Carrara (un homeless? Chissà) se ne sta rannicchiata dinanzi a una parete sui cui metallici trespoli sono allineati centinaia di piccioni imbalsamati. Qualcuno ha scritto che i poveri volatili, già esposti da Cattelan alla Biennale veneziana del 1997, qui «sono diventati dei fantasmi: immagini che hanno a che fare con il concetto di sorveglianza e controllo, dominante nella società contemporanea». Sarà. Maggiormente decodificabile è l’ultima opera, Blind: un monolite in resina nera alto 18 metri entro cui è incastonata la sagoma di un grande aereo, allusione una volta tanto trasparente alla tragedia delle Torri Gemelle.

Chi poi volesse immergersi ancor più a fondo negli arcani di questa solipsistica creatività contemporanea, deve giocoforza concedersi una scappata a Parigi, dove François Pinault, dopo le due roccaforti veneziane (Palazzo Grassi, Punta della Dogana), ha deciso di occupare con pezzi a rotazione della sua collezione di diecimila opere la Bourse de Commerce, spettacolare edificio a pianta circolare datogli in concessione dal Comune per mezzo secolo e riallestito dal suo archistar di fiducia, Tadao Ando. Qui, in uno spazio enorme, articolato in dieci gallerie convergenti sulla grande rotonda centrale, si ritrovano opere di operatori del legno (Donald Judd, Carl Andre) e della luce (Dan Flavin), assieme ad altri campioni del minimalismo e dell’arte povera (le forme distorte o gli stracci di David Hammons).

A dominare la scena è però la monumentale scultura in cera liquefacentesi di Urs Fischer, al centro della rotonda: una replica del Ratto delle Sabine del Giambologna, già esposta a Firenze nel 2017. Poco meno gigantesca della figura umana acefala che da tempo invade l’interno di Palazzo Grassi, ideata da Damien Hirst e costata un bel sacco di lavoro e di quattrini per il suo progressivo montaggio.

Pinault, si sa, fa le cose molto in grande, e se lo può arcipermettere. Al restante 99,9 per cento che mai se lo potrebbe restano i dubbi: principalmente sul senso ultimo di questo narcisistico girotondo di quattrini, riservato a rari eletti e destinato alla stupefazione perplessa di quanti comunque consumano ciò che vien loro propinato. Che poi si chiami arte o presa in giro, poco importa. Tanto è noto che «l’arte è ciò che tutti sanno cosa sia». (Loro, intanto, sorridono).

P. S. Il “Rabbit” di Koons è stato venduto all’asta da Christie’s per 91 milioni di dollari.

Jeff Koons

L’artista con la scultura Rabbit

Acciaio, 2010

Collezione privata