Su una poesia di Ivan rico

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di Maurizio Casagrande

 

Bròilo

 

Xe crissude altone

mai vidude vididule e fisse

èlare co ierisi via de star.

Comodo che ‘l cuntìneva sensa

de naltri ‘l mondo

i ne fa lumar.

 

Lession, de novi

fior scugnussudi, de dute

le robe che no le ne spetarà.

Al logo e ‘l insunio de onde

che ‘l xe sta ‘nbastì

‘l se sfantarà

 

como duti i nostri ‘nsonii

peladi de pressa dei verni.

Ma sfantarse, suvegnete, vol dir

 

surtir nome ta quela

che dasseno se pol assetar

par nantri distinada

 

sàcuma

de éssar terni.

 

Giardino Sono cresciute altissime / mai viste erbe e fitte / edere durante la nostra assenza. / Come va avanti senza / di noi il mondo / ci mostrano. // Lezioni, da nuovi fiori / sconosciuti, di tutto / ciò che non ci attende. // La casa e il sogno / da cui nasce / svanirà // come tutti i nostri sogni / presto sfiorati dagli inverni. / Ma scomparire, ricorda, significa // accedere all’unica / davvero accettabile / a noi concessa // forma / di eternità.

 

Appare per più di una ragione una scrittura di frontiera quella di Ivan Crico: innanzitutto per le sue radici goriziane; secondariamente per la scelta del codice, il bisiaco, variante linguistica di chiara matrice veneta (ne costituisce un’eco colta, dal veneziano di Goldoni, la voce avverbiale “dasseno”, al v. 17) ma con innesti anche dal friulano o dallo sloveno, un dialetto ormai ristretto ad un’area geografica piuttosto ridotta già prossima a storici e rigidi confini, esso stesso peraltro quasi residuo fossile di parlate anteriori; e ancora per l’orientamento di una poetica che vede il proprio punto di forza nell’apertura a lingue morte quali appunto i dialetti (il bisiaco o il tergestino, una variante sette/ottocentesca del triestino dalla forte connotazione friulana), o a forme espressive quali la poesia e l’arte; infine in ragione dell’ampia gamma tematica che i testi abbracciano, dalla fascinazione per la natura, come per il trascendente e la mistica, all’impegno civile, all’attenzione alla storia, fino all’irruzione nelle nostre vite di eventi epocali quali la pandemia.

Ed è appunto da tale amara stagione che traggono ispirazione testi inediti come quello proposto, partendo sempre tuttavia dalla concreta e tangibile presenza della natura, nella fattispecie un giardino di piante rampicanti particolarmente intricate fiorite negli spazi di abbandono lasciati dal genere umano, quasi assente dalla scena dopo un cataclisma che resta implicito alla pari di quanto viene tematizzato nello scambio leopardiano tra un folletto e uno gnomo, mentre il mondo, in un’ideale ripresa e prosecuzione del dialogo cui si accennava, va avanti impassibile anche senza di noi. E tuttavia in questi versi l’ironia e il sarcasmo del recanatese cedono il campo ad una visione serena e quasi religiosa della vita giacché se tutto è destinato a svanire, incluso il segno di permanenza per eccellenza – la casa, terreno di coltura dei sogni e di ogni altra aspirazione umana, è proprio in questa nostra precarietà, in controtendenza rispetto alle logiche dominanti, che il poeta ci ammonisce a riconoscere l’unica autentica forma di eternità che ci sia concessa proprio abbracciando il paradosso della finitezza, nel segno del morire a se stessi dell’evangelica parabola del seme, come nel solco della saggezza stoica o induista.

 

Nota biografica:

 

Ivan Crico è nato a Gorizia nel 1968 e risiede a Tapogliano (Udine). Insegna all’Accademia di Belle Arti del capoluogo friulano. Parallelamente all’attività artistica, dal 1992 ha iniziato a collaborare con gli amici poeti Amedeo Giacomini, Gian Mario Villalta, Mario Benedetti e Pierluigi Cappello. Scrive in lingua e nell’arcaico idioma veneto bisiàc. Ha pubblicato vari libri di poesia in bisiàc, premiati dai più importanti concorsi poetici nazionali. Raffinata la versione integrale in bisiàc de Al cant dei Canti (Il Cantico dei Cantici) edito nel 2018 dalla ACB; e la traduzione poetica dell’opera di Pier Paolo Pasolini I Turcs tal Friùl, realizzata nel 2019 per Quodlibet. Della sua poesia – pubblicata sulle maggiori riviste italiane e all’estero – si sono occupati diversi studiosi italiani, tra i quali Giorgio Agamben, Antonella Anedda e Mario Benedetti.