Incontro con Paolo Cervi Kervischer

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di Walter Chiereghin

 

Un grande appartamento in affitto sulle rive, nell’edificio progettato da Max Fabiani: l’arte si respira ancor prima di salire al primo piano, dov’è l’abitazione e lo studio di Paolo Cervi Kervischer. Dentro, in ogni dove sono accatastate tele dipinte, che farebbero la gioia di un gallerista e la felicità assoluta di un collezionista. Lo studio vero e proprio, la fabbrica dei dipinti, ha la posizione migliore, dalle finestre uno sguardo sul mare, sulla Sacchetta cara a Quarantotti Gambini. E poi, oltre alle tele, ai pennelli, ai vasi di acrilico i segnali di un’altra passione: un pianoforte a mezza coda, una batteria, un sassofono… tutto fa prevedere una conversazione impegnativa, ma che si preannuncia sicuramente interessante.

 

Paolo, se non ti spiace, inizio dalle origini: come mai questo doppio cognome?

È una storia semplice, comune a molte persone, soprattutto qui a Trieste, dove i cognomi di origine straniera, sloveni, croati o tedeschi, non mancavano certo: in pratica, io sono nato Cervi, mentre mio padre si chiamava in origine Kerwischer, con la doppia vu, ed è stato poi italianizzato nel 1927. In seguito ho chiesto la restituzione del nostro cognome originario, ma dato che fino ai trentacinque anni tutti mi conoscevano come Cervi, ho mantenuto il doppio cognome, anche se ora all’anagrafe, e in tutti i documenti ufficiali, il mio cognome risulta sempre (e soltanto) Kervischer.

È una storia molto triestina, fin da queste prime battute. Rimaniamo però in anni ormai lontani e parliamo un momento della tua formazione artistica, che è nata sotto la guida di due insegnanti di eccezione, Nino Perizi qui a Trieste ed Emilio Vedova a Venezia.

Sì: ho frequentato, per anni, la mitica Scuola di Figura con Perizi al Revoltella. Ho iniziato a diciassette anni, ricordo che mi è sta richiesta l’autorizzazione dei genitori, perché, essendo allora minorenne, non mi sarebbe altrimenti stato concesso di partecipare alle esercitazioni di nudo che prevedevano, ovviamente, la presenza di una modella. Erano, come sai bene anche tu, anni diversi da quelli che viviamo oggi, quando vedere una ragazza svestita non presenta per nessuno la minima difficoltà. Ricordo invece la mia trepidazione di allora, e quando, dopo alcune lezioni introduttive, fummo finalmente ammessi alla prima seduta di nudo, dopo aver meticolosamente sistemato i miei attrezzi e il foglio, mi decisi ad alzare lo sguardo sulla modella, mi accorsi con raccapriccio che si trattava di una disgraziata, una donna anziana, col corpo sformato e priva della minima attrattiva erotica. Poi, per fortuna, non è stato più così: venivano a posare delle belle ragazze ventenni, con le quali è stato facile entrare in relazione, ma quella prima traumatica seduta non la dimenticherò mai.

Devo dire che a quanto appare osservando i tuoi lavori, perlomeno quelli attuali, sembri ora essere abbastanza lontano dai tuoi due maestri, tanto da Perizi quanto da Vedova, il che va a loro merito, se consideriamo il loro lavoro di formatori preoccupato di lasciare all’allievo la libertà di scegliersi un proprio ambito creativo autonomo.

È stato assolutamente così. Per quanto riguarda Perizi, che io considero essere stato un artista di livello mondiale, non si è mai espresso in alcun modo riguardo alle scelte creative che gli proponevo, se non per segnalarmi e correggere errori e debolezze nel mio lavoro, mentre per quel che concerne Vedova, lui era preoccupato soprattutto di instillare in noi allievi la necessità di avere sempre, in ogni momento del nostro lavoro, la coscienza precisa di quanto venivamo facendo. Sono stati due maestri non confrontabili tra loro, ma certo entrambi assai rispettosi della libertà delle persone che stavano educando all’arte. Con Nino Perizi, certo, il rapporto è stato più intenso e prolungato nel tempo, anche dopo che avevo smesso di frequentare la Scuola Libera di Figura, spesso andavo a trovarlo al Museo dopo che mi ero diplomato all’Accademia.

Una volta scomparso Perizi, tuttavia, la Scuola Libera di Figura ebbe un rapido declino, prima di scomparire a sua volta, vero?

Questo è un argomento che conosco bene, e intendo raccontartelo. Dopo la morte di Perizi, gli allievi, i ragazzi che frequentavano i corsi al Revoltella, rivolsero un appello scritto alla direttrice e al Curatorio chiedendo che fossi io a prendere il posto del Maestro scomparso, in quanto ero riconosciuto in possesso dei requisiti professionali per poterlo fare. Siccome si era stabilito di procedere alla nomina mediante un concorso per titoli, presentai un mio curriculum e ricordo che il funzionario al quale consegnai la documentazione mi rassicurò, dicendomi che ero l’unico a possedere i requisiti richiesti: nessun altro aveva il diploma dell’Accademia, nessuno aveva un’esperienza pari alla mia maturata nella Scuola stessa. La cosa non andò così: l’incarico, su insistente richiesta di un membro del Curatorio, fu dato a un certo Vittorio Porro, che mi fu preferito nonostante un percorso del tutto diverso dal mio e da quello che veniva richiesto, essendo lui un grafico, apprezzato soprattutto in quanto scultore in legno. E fu così che nel giro di un paio d’anni la scuola fu chiusa, com’era negli obiettivi della direttrice del Museo.

Cheintervista 2 era allora Maria Masau Dan?

Sì, era lei già allora, e devo dire che aveva manifestato il suo disinteresse per la Scuola, che considerava inessenziale per le attività del Museo Revoltella. La determinazione di chiudere quell’istituzione formativa che continuo a considerare di grande valore, fu certo un grave danno per me, che dovetti ripiegare aprendo il mio laboratorio ai giovani che ho formato privatamente fino a due anni fa, ma soprattutto fu un danno assai rilevante per la città, perché il posto della Scuola non può essere affidato al “Nordio”, che ha finalità formative ed educative diverse e meno specifiche. Con la scelta di chiudere la Scuola si è inferto un danno alla città, bloccando la continuità dell’insegnamento e perdendo un’istituzione formativa di eccellenza. La controprova di quanto affermo è che poi quanti frequentavano la Scuola sono venuti a fare esperienze di nudo e di figura nel mio studio, lasciando il Revoltella che non aveva più niente da offrire loro.

Beh, ci rimane ora almeno la Scuola Libera dell’Acquaforte…

Fortunatamente sì, perché in quel caso la scuola è stata retta con grande competenza e determinazione, dopo la scomparsa di Carlo Sbisà, da sua moglie Mirella Schott e poi da Furio De Denaro e ora, da qualche anno, da Franco Vecchiet, che è per certo quanto di meglio vi sia attualmente in materia. Tuttavia quella Scuola copre soltanto una parte delle esigenze formative in ambito artistico, quella di una tecnica importante e complessa. Se potessimo ancora contare anche sulla Scuola che fu di Perizi, per i nostri giovani sarebbe un’offerta completa e di grande qualità.

Tu se uno degli artisti triestini che hanno maggior fama fuori Trieste, anche se questa è una vecchia condanna che riguarda molti. Nemo propheta in patria…

In effetti, negli anni Ottanta ho lavorato molto per l’Austria, ho fatto delle mostre a mio giudizio determinanti, nell’84 è statol’anno che ha segnato un po’ un mio apogeo, con l’esposizione di numerosi quadri di grandi dimensioni. Però non mi è mai riuscito a staccarmi da questa città, benché avessi tentato, per due volte, aprendo uno studio a Vienna, una prima volta, nell’84, in Mozart Platz, successivamente in un altro appartamento che dividevo con Giovanni Leghissa, filosofo, che ora insegna all’Università di Torino e che era allora all’inizio dei suoi studi di Filosofia, venuto a Vienna per imparare il tedesco. Con lui divisi l’appartamento per un periodo.

Si, ma a prescindere da quelle esperienze ormai lontane nel tempo, continui a muoverti sul territorio, almeno quello nazionale: sei appena reduce da quest’esperienza dell’Infaust a Pisa…

Elettrizzante, devo dire. Tanto che a breve porteremo lo spettacolo a Roma, al Foro Italico: uno spettacolo, ispirato dal poema di Goethe, affidato a una compagnia di danzatori (selezionati a livello mondiale), mentre io stesso, in scena, allestisco un dipinto di grandi proporzioni per l’intera durata dello spettacolo. Ma non divaghiamo: sì, è necessario andare a cercare occasioni e incontri in ambiti territoriali diversi: fa parte in qualche modo dell’attività di ricerca, senza la quale il mio lavoro insterilisce e diviene routine.

Tu hai una non occasionale esperienza degli ambiti culturali diversi da quello triestino: ti capita di fare paragoni?

Sì, anche se preferirei non parlarne per carità di patria. La vita culturale a trieste, sicuramente nell’ambito delle arti visive, ma temo anche in ogni altro diventa sempre più asfittica e autoreferenziale, quasi non fossimo il capoluogo di questa regione, quasi non fossimo la cerniera tra Este ed Ovest, oltre che tra Nord e Sud. È il portato di una cultura abbandonata a se stessa, senza che vi sia stato, da molti anni, un pensiero programmatorio, uno stimolo che non può non derivare dalle classi dirigenti, soprattutto politiche, che si alternano alla guida della città.

Anche per queste ragioni, che largamente condivido, da queste tue frequentazioni lontano da qui non ti arriva mai la sollecitazione a pensare per te e per il tuo lavoro un’altra vita: si moltiplicherebbero di sicuro le occasioni e i successi se tu lavorassi a Roma o a Milano, per non dire a Parigi, a Londra…

Sono stato tentato, certo, ma poi mille piccole questioni mi legano a questa città. Nel 1991 ho avuto una grande tentazione: mi si offriva la possibilità di utilizzare un appartamento a New York per circa sei mesi all’anno, senza spese. Capisci bene che New York può cambiare del tutto la vita di un artista, e francamente avevo deciso di cogliere quell’opportunità che mi veniva offerta…

E perché non l’hai fatto?

Che vuoi che ti dica… è arrivato l’amore, e sono stato indotto a rinunciare. Si è trattato (almeno questo!) di una storia importante, che mi ha dato anche un figlio. Da questo punto di vista, mi è capitato di vivere una vita molto ricca, anche se parecchio incasinata, mai avuto pace…

Senti, basta dare un’occhiata a questa stesa stanza, dov’è ospitata una batteria, un pianoforte, un sax per capire che c’è anche un’altra passione nella tua vita. Mi chiedevo se questa altra tua abilità, della quale non conosco il livello, ma che comunque esiste, stabilisca una relazione tra le due cose: saper far musica e saper dipingere. Sono due aspetti della medesima cosa, oppure un ambito di attività influenza l’altro?

Domanda non facile… intanto devo dirti che non mi considero un musicista, che soprattutto nell’ambiente jazz è attività della massima serietà, che richiede impegno e talento. Tuttavia un collegamento tra le due cose esiste, assolutamente. Considera, se non altro, che mentre dipingo, ascolto tanta musica, e poi rifletti sul fatto che – segnatamente nel caso del jazz – fare musica è una ricerca di situazioni nuove. Bene, con ciò c’è un’identicità con quanto faccio in ambito visivo. Se guardi un mio quadro, anche quello che abbiamo qui davanti, noterai che vi è una struttura, una base molto rigorosa: non vi sono diagonali (sono molto in debito con Mondrian per questo), è una struttura che prende molto in considerazione il peso, la gravità, ma all’interno di tale struttura vi è il colore, lo sfregamento, le variazioni tonali che sono proprie, per esempio, anche della musica jazz, lì intese come variazione del tono della voce dello strumento, mentre nel dipinto è la variazione del tono del colore. Sotto tale aspetto, posso dire che la mia pittura è la raffigurazione di un approccio jazzistico. Del resto non è per caso che la mia ultima mostra, Equinox, sia dedicata a John Coltrane e fin dalla stessa intitolazione, che è quella di un suo celebre brano, richiama il suo magistrale lavoro. In pratica, il mio lavoro pittorico, mi accorgo che è la mia modalità di fare jazz, a un livello che col sax mi sarebbe precluso.

Richiami spesso Piet Mondrian nel riferirti alle tue ascendenze artistiche, e a ben vedere ciò è percepibile anche a prima vista, ove si pensi a un Mondrian più mediterraneo, più caldo, e poi sei passato attraverso Emilio Vedova, il che non è acqua. Puoi dirmi quali sono gli artisti che sono stati i tuoi Maestri, non in senso tecnico, ma come riferimento culturale, quelli che non hai potuto conoscere direttamente, ma che invece conosci con intensità attraverso lo studio delle loro opere?

Il mio lavoro scaturisce dall’incontro tra una cultura visiva mitteleuropea, rappresentata soprattutto a Vienna nel momento del passaggio tra XIX e XX secolo, quindi Klimt, Kokoschka e Shiele, con quella che è la mia più diretta esperienza, quindi Perizi, Vedova, e Venezia, e quindi Tiziano, la pittura tonale, il colore luminoso dei veneziani. Mi riconosco dunque una radice simbolista (penso a Klimt, soprattutto, al suo oro, all’elemento decorativo, e anche al suo pensiero, quel senso della fine, di questa vita che viene riducendosi: pensa alle sue immagini di donne, Le tre età della donna, il senso ineluttabile del finire, dettato anche dalle circostanze storiche in cui l’autore operava, alla vigilia della caduta dell’Austria Ungheria). E poi Kokoschka, certo, di cui mi affascina il lavoro sulla pittura, sulla superficie della pittura. Ha grattato, violentato le superfici, che in definitiva è il punto di contatto tra la tela e la mano del pittore, l’epidermide del dipinto. E infine c’è Shiele, la sensualità (che coinvolge molto anche me), sul quale mi sono esercitato molto, pervenendo a esiti affatto diversi dai suoi. Per lui, disegnare un corpo è questione di linee, le tracce evidenti con le quali delimita i corpi, isolandoli al loro contesto e dallo sfondo, mentre io faccio l’opposto: sono, i miei, quadri in cui non sono rintracciabili linee di contorno e il corpo della donna è espresso soltanto per mezzo di campiture di colore. Shiele, inoltre, agisce all’interno della figura, definendo dettagli e sovente massacrandola, mentre io agisco senza rappresentare alcun dettaglio, direi per sintesi e non per analisi. Faccio in sostanza il contrario di quanto fa Shiele.

Poi, all’interno della mia pittura, è la coscienza del fare, come diceva Vedova, la consapevolezza continua e poi la struttura, l’insegnamento di Perizi. E come vedi siamo arrivati da dove eravamo partiti, come spesso succede. Anche nella vita.