Io e Veza

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La pazienza porta rose: racconti di Veza Canelli

di Silvia Zetto Cassano

 

Qualche volta leggo stesa sul divano, specie se il libro è cedevole, esattamente come il mio divano.

Qualche volta leggo seduta, quando il libro richiede una postura rispettosa.

Di rado leggo che non so come stare, mi alzo, mi siedo, alzo gli occhi, chiudo il libro e lo riapro, non sto bene, le parole mi fanno male tra l’esofago e lo stomaco, la strettura è proprio là.

Di rado è una donna a farmi stare così malamente. Sono poche le scrittrici implacabili al punto da negare ogni pietas ai loro personaggi affinché la violenza dell’ingiustizia di cui sono vittime spicchi col massimo dell’efficacia sul lettore.

Ma Veza, ah, Veza.

Il primo racconto, che dà il titolo alla raccolta La pazienza porta rose è un filo tagliente di lama che ti fa uscir sangue se solo la sfiori. Veza punta dritta verso le ultime righe, dove sapremo, alfine, il significato delle rose, bianche come il raso bianco. Lungo il tragitto del racconto Veza mi spinge nella direzione della collera profonda, provocata dalla constatazione di quanto male possa venire dai ricchi quando sono frivoli e senza cuore, incapaci di capire come sia facile far precipitare i poveretti quando sono troppo miti e incapaci di rendersi conto di quel che succede. Incapaci non solo di odio, ma anche di collera. Stupidi, insomma. “Si accontentavano, perché non c’era nessuno che spiegasse loro che il destino non sopporta chi si accontenta. Prende e prende fino all’ultimo bruscolo di chi si accontenta, finché non c’è più nulla da prendere. Allora si dà pace. Mentre gli esigenti danno battaglia, e quanto sono privi di scrupoli i loro mezzi, tanto più sono forti”.

Veza quella specie di odio lo provò e avrebbe voluto scorresse assieme al sangue sul pavé grigio di una Vienna 1932 troppo, troppo malvagia da meritare il perdono.

Veza non era una che si accontentava. Veza non mi somiglia in niente, ma vorrei essere come lei, almeno di tanto in tanto. Provare la passione della collera e avere la capacità di scriverla con parole che tagliano quand’è il momento di farlo.

Veza, Venetiana Taubner-Calderon, nata a Vienna nel 1897, ebrea sefardita dal viso spagnolo, lunghe ciglia nere, miniatura persiana, dice Elias Canetti: “Ha letto più lei di tutti noi messi assieme. Sa a memoria delle poesie inglesi, lunghissime, e mezzo Shakespeare, per giunta. E Molière, Flaubert, Tolstoj… Ma legge con intelligenza. Se qualcosa le piace, sa perché. Sa spiegarne le ragioni. Nessuno la mette nel sacco”. Elias se ne innamorò e la sposò. Avevano le stesse passioni, compresa quella per la scrittura. Ma Veza non riuscì mai a farsi pubblicare nessuno dei suoi romanzi. Solo qualche racconto su delle riviste, e basta. Non saprei dire se Elias la sostenne, l’aiutò. Scrive di lei a molti anni dalla sua morte, ricordando la serata del Nobel. È smisurato, l’’io’ del grande Elias. Anche quando parla di lei parla si sé – io, io, – e non di quant’era brava Veza e delle belle le cose che scriveva: “Nemmeno il lustro è mancato del tutto a questa vita; con lei, di cui hai trattenuto il respiro, sei stato a Stoccolma, e tra le mogli era lei la più bella. Se da allora non ci fu più gloria, sei stato tu a volerlo e l’hai rifiutata, rovesciando il tuo orgoglio nel suo contrario. E poi, due anni fa, il bello in assoluto: il nome di Veza sui libri, anche in altre lingue. – Veza, che adesso porta il tuo nome e resterà unita a te per sempre – non è forse sommamente prodigiosa questa resurrezione a ventisette anni dalla sua morte?” (Elias Canetti, Un regno di matite)

Mi chiedo quanto Veza sia stata felice con l’uomo così orgoglioso che lei portasse il suo nome e che forse pensava che questo potesse bastarle. Mi chiedo se il grande Elias abbia avuto tanta cura di lei quanto lei ne ebbe per lui. Mi chiedo se abbia saputo scaldarle il cuore per impedire che morisse o che forse si lasciasse morire, come avvenne nel 1963. Veza gliel’aveva fatto capire: l’aveva scritto, nel suo romanzo Le tartarughe pubblicato postumo: “La tartaruga vive in una solida corazza, ma le viene rubata perché è così bella, e dunque non la protegge e lei rimane nuda.

Il suo segreto è l’imperturbabilità. Vive di nulla, di aria, di foglie, si lascia tagliare, tranciare, lacerare, e continua a vivere, muta e temprata.

Ma ha bisogno di calore.

Senza calore è destinata a morire”.

 

 

Veza Canetti

La pazienza porta rose

Traduzione dal tedesco di Emilio Picco

Anabasi, Milano 1993

  1. 96, fuori catalogo

 

 

Riquadro:

 

Veza Canetti (nata Venetia Taubner-Calderon) nacque il 21 novembre 1897, priva dell’avambraccio sinistro, a Vienna, da una madre ebrea sefardita e un padre di origini ungheresi.  Dopo aver compiuto gli studi liceali, lavorò come insegnate di inglese. Nel 1924 conobbe Elias Canetti, col quale si unì in matrimonio nel 1934. Fu una relazione problematica, a causa soprattutto dell’infedeltà del marito, che aveva anche intrecciato una complessa vicenda sentimentale con Anna Mahler, figlia del compositore. Nel 1938, dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania, emigrò col marito dapprima per poco tempo a Parigi e quindi a Londra, dove morì nel 1963, quasi sicuramente suicida, dopo aver distrutto molti dei suoi manoscritti. Fu socialista impegnata, autrice di racconti, poesie, testi teatrali. Qualche anno prima di morire, Elias Canetti decise di far pubblicare quanto ancora rimaneva degli scritti della moglie.

Di lei sono pubblicati in traduzione italiana, oltre a La pazienza porta rose, Le tartarughe, nella traduzione di Alessandra Luise, Marsilio, Venezia 2000 e La strada gialla, nella traduzione di Agnese Grieco, Marsilio, Venezia 2000. E poi, con Elias Canetti: Lettere a Georges 1933-1959, a cura di Karen Lauer e Kristian Wachinger, traduzione di Giovanna Agabio, Achinto, Milano 2012.