«SONO NATO PER RACCONTAR FIABE»
Gli scritti per i “bimbi” tra rinnovamento intellettuale e influenze hebbeliane

gigetta_e_scipioLa produzione letteraria di Slataper precedente al Mio Carso non ha avuto molta fortuna di pubblico e di critica (pur con qualche significativa eccezione), penalizzata dalla difficile reperibilità dei testi e schiacciata dal confronto con le opere maggiori, il poema carsico e l’Ibsen.
Lo studio del periodo che va dal 1908, anno dell’arrivo di Slataper a Firenze, al 1912, anno della pubblicazione dell’opera maggiore, è tuttavia di fondamentale importanza per comprendere il formarsi della personalità slataperiana. Andando a guardare da vicino i testi è infatti possibile individuare preziose tracce dell’evoluzione che porterà lentamente il nostro autore a maturare letterariamente.
Tra questa produzione spiccano, per la peculiarità e l’importanza che lo stesso Slataper vi attribuisce, leFiabe e parabole. Si tratta di diversi testi, raccolti per la prima volta da Stuparich e recentemente ripubblicati in una versione rivista sugli originali (Fiabe e parabole e altri scritti per i bimbi, Trieste-Gorizia 2014)
Va subito detto che mai Slataper pensò ad un volume che raccogliesse tutti questi testi. Alcuni li pubblicò su rivista, altri li mandò per lettera alle amiche, altri ancora restarono chiusi nel suo cassetto. La creazione di tale corpus è quindi interamente dovuta alla sistemazione della sua opera condotta dall’amico. Bisogna infatti anche rilevare che il numero di scritti riconducibili alla fiaba composti da Slataper dovette essere maggiore poiché di diversi altri testi dedicati ai bambini ci è rimasta traccia nelle lettere o negli appunti.
Nello scorrere queste righe il lettore si trova davanti ad un mondo naturale animato e pieno di vita. È così che a svolgere la funzione di protagonisti di queste storie sono alberi fioriti, piante, uccelli di vario tipo; e accanto a questi troviamo la terra e il sole che dialogano, semini impauriti e nuvole che piangono.
Ma da dove nasce il nucleo di ispirazione che porta Slataper a scrivere questi testi che così diversi appaiono dal Mio Carso e da altri scritti?
In una lettera a Gigetta da Ocisla del 4 settembre 1911, Slataper scrive: «Io capisco tanto bene i bambini che forse sono nato per raccontar fiabe. Tu capisci com’è mio il Petalodi rosa. Io amo i bambini come uomini che varranno più di me. Forse solo per uno di essi io saprei dare la mia vita. […] Io voglio che il mio bimbo sia la nuova creatura; quella che cerco di fare da creature già stanche. Ma lui sarà nuovo. […] E cercherò di rifarmi sempre bimbo per vedere di non essere ingiusto con lui. Anche questa è una preghiera. Poi cercheremo di insegnare agli altri come abbiamo educato il nostro bimbo o bimba che sia […] Pensa bene a tutto quello che ti dico, e dimmi se ti pare sbagliato. Perché prima di educare gli altri, dobbiamo educare noi» (Alle tre amiche, Milano 1958, pp. 370-71).
La lettera risulta di capitale importanza per il nostro discorso. Slataper si trova ad Ocisla e sta completando la stesura del Mio Carso. In un momento di riposo scrive alla futura moglie e ripensa alla sua produzione precedente, citando esplicitamente Il petalo di rosa, una delle sue prime fiabe pubblicata nel 1909 sul Giornalino della domenica. Il testo, nella visione slataperiana, è legato essenzialmente al bimbo che per il nostro autore assume delle caratteristiche e funzioni particolari.
In questa figura, Slataper scorge infatti la possibilità di una visione sul mondo diversa da quella comune. Il bimbo è colui che ha ancora uno sguardo originario sulle cose, che è capace di animare la realtà, che è legato alle origini e dunque agli universali umani che lo rendono capace di vivere in una forma poetica pura. Qui il nostro autore vede la sorgente di una possibilità artistica autentica, che possa essere espressione della vita e in diretto contatto con essa.
Dunque Slataper vuole agire concretamente portando avanti un programma che possa educare a questa visione della realtà per fondare un’umanità rinnovata. È importante rilevare inoltre che il programma di educazione di Slataper è anche un programma di autoeducazione. Slataper vuole educare se stesso e il lettore alla visione del bimbo.
Per questo si impegna nella composizione di tali testi, rappresentazione letteraria di un piano d’azione sul reale che nella sua mente appare estremamente concreto.
Il 26 agosto 1909 Slataper aveva scritto sullaVoce rivolgendosi Ai giovani intelligenti d’Italia: «La campagna e il concentrarsi in sé, certo: ma come preparazione, bagno: al contatto delle cose primitive rinselvatichirci, noi gattini di cucina o di sofà. Per sentire veramente con senso di stupore, di rabbia, di venerazione, di amore, la vita di oggi. Essere moderni!: comprendere in sé le forme vitali proprie del nostro tempo» (Scritti letterari e critici, Milano 1956, pp. 187-88).
Il programma di rinnovamento intellettuale ipotizzato in questo articolo passa per il contatto con le cose primitive che permette di vedere il mondo contemporaneo con occhi differenti, quelli di un essere primitivo sempre stupito di ciò che lo circonda. La ricerca di una dimensione originaria rappresenterà una costante nella sua riflessione per tutta la vita, quasi un’esigenza a cui il nostro autore darà varie risposte nel corso del tempo (si pensi almeno alla figura del “barbaro” che troviamo nel Mio Carso). Negli anni tra il 1908 e il 1911 il contatto con le origini per Slataper è veicolato dalla figura del bimbo, e la stesura delle fiabe rappresenta una delle principali modalità con cui tendere a tale dimensione.
La personalità slataperiana non è mai stata così accesa, dirompente e sicura della direzione intrapresa come in questo periodo. Stuparich, quando parla a proposito di questi testi di «parabole così leggere e varie» (G. Stuparich, Scipio Slataper, Milano 1950, p. 85), rischia di far cadere in equivoco. Questa produzione corrisponde al momento di maggior fiducia nelle possibilità espressive e rappresentative dell’arte in generale e della letteratura in particolare. È poi il suicidio di Anna – con cui aveva intrecciato una intensa relazione amorosa – avvenuto in fosche circostanze, a innescare nel giovane quel processo di riflessione che lo porterà a problematizzare la propria fede nelle capacità d’espressione umana e che permetterà la nascita di quel capolavoro che è Il mio Carso. Le fiabe non rappresentano dunque per Slataper scritti di liberazione, ma sono più che mai scritti di lotta e di azione concreta sulla realtà.
La matrice culturale da cui nascono questi testi deve sicuramente molto al romanticismo e tardo romanticismo tedesco, i cui autori Slataper frequenta assiduamente negli anni della propria formazione. A questo proposito una discreta rilevanza deve aver avuto la lettura del saggio Blütezeit der Romantikdi Ricarda Huch (in particolare del capitolo dedicato alla fiaba romantica) citato esplicitamente; ma importanti dovettero essere anche altri scrittori, tra i quali Nietzsche, Novalis, Kleist e Tieck, quest’ultimo soprattutto a proposito dell’idea di Theaternatur che ritorna in alcuni dei nostri testi (G. A. Camerino, La persuasione e i simboli, Napoli 2005, pp. 47-48). In realtà tutti questi riferimenti, pur suggestivi e in una qualche misura corretti, andrebbero sfumati e definiti più genericamente.
Non sembra invece essere stata ancora rilevata una serie di rifermenti testuali che portano piuttosto questi testi sotto l’influenza di Hebbel. L’interesse per il drammaturgo tedesco e per le sue opere, alla cui lettura il nostro autore si dedica proprio nel 1909, è tale da portarlo a dichiarare: «Hebbel – posso dar la parola d’onore – è mio fratello» (Appunti e note di diario, Milano 1953, p. 86). E probabilmente non è un caso che proprio il periodo d’infatuazione di Slataper per l’autore della Giuditta corrisponde a quello in cui maggiormente Slataper si dedica alla stesura di questi testi. È così che alcune annotazioni presenti nei Diari hebbeliani, messe in relazione con qualcuno dei nostri testi, possono venir intesi come lo spunto iniziale di ispirazione da cui è partito Slataper.
È questo il caso del già citato Petalo di rosa. La storia narra del viaggio a cui è costretto un povero petalo di rosa, strappato a tradimento dalla propria pianta e fatto volare per un’intera notte finché al mattino il sole, con un bacio, lo trasforma nell’aurora. Questa vicenda e il tema che vi è rappresentato possono essere messi in riferimento con una nota hebbeliana che recita: «La rosa sa solo del sole che la bacia, ma non della radice da cui nacque».
Lo stesso caso, e forse qui il collegamento è ancora più stringente, può essere fatto a proposito del Granello. Si tratta di una brevissima parabola che racconta la storia di una manciata di semi lanciata da un contadino. Alcuni di questi semi, che per paura si nascondono, rimangono sterili, mentre quello che finisce sul sentiero viene calpestato e coperto di sterco, ma è l’unico che riesce a germogliare. Il rimando piuttosto evidente è ad un appunto hebbeliano che tratta il tema della fertilità del dolore: «Un seme venne calpestato da un piede e si lamentò. Ma il piede lo aveva coperto di terra e il seme divenne un albero» (F. Hebbel, Diari, Reggio Emilia 2009, p. 133).
Un discorso simile si può fare per un altro testo ancora, L’eroe. Su tale figura infatti Slataper riflette proprio nell’introduzione che premette alla propria edizione del Diario di Hebbel descrivendolo come colui che con la sua azione, necessaria e tragica, si scontra con il destino collettivo per metterlo in movimento e non può far a meno di restare schiacciato in questo urto. Esponendo il pensiero del drammaturgo tedesco Slataper tratteggia anche la figura del protagonista del suo scritto. La breve trama narra appunto della caduta di uno straniero la cui azione lo porta inevitabilmente alla morte e contemporaneamente a produrre anche un beneficio per la collettività.
Hebbel, inoltre, non sembra estraneo nemmeno alla riflessione che Slataper svolge più in generale sulla figura del bimbo. Un passo dei Tagebücher che Slataper non riporta nella scelta che compone per l’editore Carabba, ma che viene tradotto in una nelle Note del gennaio-febbraio 1910 rimasta esclusa dall’edizione stupariciana degli Appunti e note di diario, recita: «Le Anschaüüngen [sic] son poetica, cioè vere, il che a sua volta significa, se esse son sorte da un atto puro o raffinato della fantasia, lo si sa (ottimamente) meglio di tutto dai bambini. Tutto ciò che viene o può venire (in testa) ai bimbi, è universale-umano, e perciò anche, se sta nel cerchio poetico, poetico» (Si cita dall’autografo presente all’Archivio di Stato di Trieste). È qui evidente lo stretto legame – che ritroviamo presente anche in Slataper – tra la visione dei bimbi, visti come coloro che sono capaci di attingere alle radici umane, e l’arte vera.
Ci fermiamo qui per motivi di spazio, ma gli esempi potrebbero continuare ancora. Ciò che in fin dei conti importa mettere in evidenza è come alcuni rimandi, che presi singolarmente possono sembrare riprese poco significative, considerati nel loro insieme vengano invece a costituire una trama di riferimenti, sia a livello di immagini con dei contatti puntuali, sia – soprattutto – a livello tematico, che pone inequivocabilmente questo versante della produzione slataperiana sotto il segno di Hebbel. Ma va anche detto che questi temi e la riflessione che Slataper svolge su di essi non mancheranno di influire anche negli scritti successivi, in particolare sul Mio Carso che non a caso presenta tutta una serie di elementi fiabeschi.
Da quanto siamo venuti dicendo finora si capisce bene come le Fiabe e parabole costituiscano un punto chiave nello sviluppo della riflessione letteraria e della formazione della personalità intellettuale slataperiana. Si tratta di un momento di mediazione culturale e di preparazione, del tutto organico al progetto di rinnovamento della gioventù italiana e dell’umanità in generale che Slataper persegue per tutta la sua vita e che troverà poi la più compiuta, complessa ed interessante espressione nel poema carsico.

di Lorenzo Tommasini