Io ed Emily

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di Silvia Zetto Cassano

 

Il dio della collera e del livore, dei diluvi, di Sodoma e Gomorra

Pentito dei suoi eccessi ci mandò Emily, bianco scialle su bianca veste,

Emily, bianche mani, piccole ossa

Mani per impastare farina e un’anima severa per impastare angeliche parole.

 

“A eccezione di rarissime visite a Boston e a Northampton, Emily è rimasta sempre chiusa in casa, anzi nella sua stanza, preferibilmente vestita di bianco, sulle spalle un magro scialle a uncinetto. Con qualche trasferimento in cucina, dove impastava e cuoceva pane squisito, tanto che vinse il secondo premio di panificazione alla Fiera d’Ottobre di Amherst, nell’anno 1875. Non si sarebbe mai sognata di concorrere a un premio di poesia, seppure in quegli stessi giorni scrivesse versi di abbagliante bellezza. Le sue 1775 poesie furono destinate da lei a venir distrutte.” (Attilio Bertolucci)

 

“Bruttina e incantevole Miss Dickinson, tutta casa e giardino, tempeste e teiere, affetti esclusivi e abbracci all’universo, piccola attrice fosforescente sul palcoscenico della natura.” (Alfredo Giuliani)

 

Miss Dickinson sta sul più accessibile degli scaffali della mia libreria. Accanto al signor Giacomo Leopardi, copertina contro copertina, stretti stretti. Non saprei dire si trovino bene l’uno accanto all’altro. È probabile che l’algida Miss Dickinson tenga a distanza il signor Giacomo; d’altronde lui fatica a capire tutte quelle api, arcobaleni, tazze, margherite, ragni e scope.

 

“La differenza da Leopardi è che Leopardi amava l’indefinito, dove trovava rifugio dallo sgomento di un universo vuoto, mentre per Emily non esiste il vago, tutto è preciso, nel suo microcosmo ornitologico e botanico come nel macrocosmo della vita eterna, due universi comunicanti senza la mediazione del mondo storico, passato e presente, cioè senza le morte stagioni e la presente, e viva e il suon di lei.”(Italo Calvino)

 

Miss Dickinson maneggia versi come asciugasse una forchetta con lo strofinaccio prima di riporla nel cassetto.

 

Tiene il ragno un gomitolo d’argento

Con due mani invisibili,

e in una danza dolce e solitaria

sdipana il filo di perla.

 

Di nulla in nulla avanza

Col suo lavoro immateriale.

Ricopre i nostri arazzi con i suoi

Nella metà del tempo;

 

gli basta un’ora ad innalzare estreme

le sue teorie di luce –

pende poi dalla cima di una scopa,

dimenticando ogni sua sottigliezza.

 

Miss Dickinson fa cosmici balzi tra il minuscolo e l’infinito. Continuamente. Una manciata di versi. Mi dà la vertigine.

 

 

 

“Dopo un grande dolore viene un senso solenne,

i nervi stan composti, come tombe.

Il cuore irrigidito chiede se proprio lui

soffrì tanto? Fu ieri o qualche secolo fa?

 

I piedi vanno attorno come automi

per un’arida via

di terra o d’aria o di qualsiasi cosa,

indifferenti ormai:

una pace di quarzo come un sasso.

 

Questa è l’ombra di piombo, e chi le sopravvive

la ricorda come gli assiderati

rammentano la neve;

prima il freddo, poi lo stupore, infine

il lasciarsi andare.”

 

“Il finale, stupendo, è un paragone con gli assiderati dalla neve. Che ricordano la loro esperienza, se le sopravvivono, in quest’ordine: prima il gelo, poi lo stupore, poi ‘letting go’. Ecco, è assolutamente impossibile tradurre bene. Perché quel ‘letting go’ è il lasciarsi andare, l’abbandono, la resa. Ma per come è detto (così funziona il mistero della poesia) significa esattamente il contrario. Che la ‘sua’ poesia, cristallina come il quarzo, dura come la pietra, è servita alla Dickinson per non lasciarsi andare, per resistere.” (Beniamino Placido)