Jörg Shimon Schuldhess e Venezia

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La bella vita del critico d’arte parte quattordicesima

di Giancarlo Pauletto

 

«Ti devo spiegare in breve il mio rapporto problematico con la Svizzera, la mia patria. è da tanto che avevo in mente di farlo.

C’è un paese bellissimo. Montagne, laghi, foreste, acqua, sole, pioggia e neve.

C’è di tutto. E un bel giorno qualcuno particolarmente diligente costruì un recinto tutt’intorno. Poi si disse: Abbiamo fatto noi tutto ciò. Questo è il nostro paese. Un’opera d’arte completa […] Siamo seduti in un paradiso e chiunque qui sieda vive nella ferma convinzione che le catene di montagne, l’abbondanza di laghi etc. siano merito degli antenati.

Devo nuovamente andarmene. Il mio lavoro è creare. Ma qui non c’è più nulla da creare. Solo da amministrare…».

Chi scrive queste righe l’otto maggio del 1992 – qualche mese prima di morire – al suo amico buddista Saccako Aggivessano, è Jörg Shimon Schuldhess (1941-1992), grande artista svizzero che poco dopo i vent’anni è già impegnato in una drammatica, potente meditazione grafica sul tema dello sterminio degli ebrei nei lager nazisti, condotta sulla scia del grande espressionismo tedesco, innervata da una sorta di ossessione ripetitiva che diventerà, alcuni anni dopo, il grande tema dello “strappo”, una larga ferita dipinta sulla tela, attraverso la quale compaiono piccole, deformi figure d’uomo ciascuna imprigionata nella sua casella, ma lo strappo stesso appare praticato su una superficie a sua volta riempita di caselle con piccole figure deformi.

Sono opere di grande espressività e di immediata ricezione, anche per l’uso sapientissimo di un colore dilavato e biologico, che richiama il sangue e il siero.

Dunque Schuldhess artista drammatico, ma anche artista impegnato in una incessante ricerca di ordine umanistico-religioso.

Viaggia molto in India, in oriente, Cina e Giappone, in Australia, in Africa, a Cuba.

Prende immagini e simboli da tutte le grandi tradizioni religiose, ebraismo, buddismo, induismo, islam, cristianesimo e compone con essi opere di pittura che, oltre il racconto, diventano “imago”, visione, forma estetica perfettamente connessa nelle sue parti.

Si impegna per tutta la vita, con l’arte e con gli scritti, per il suo ideale di pace da fondare da un lato sull’unicità dell’essenza umana, e dall’altro sull’unicità dell’essenza divina che sottostà a tutte le religioni.

Quest’uomo e questo artista fuori del comune abitò anche nel Veneto Orientale, precisamente a Bibione, e passeggiò più volte sotto i portici di Portogruaro.

Avevo già scritto sulla sua arte per una mostra presso la Galleria Sagittaria di Pordenone nel 1974, rilevandone soprattutto gli aspetti formali e i collegamenti culturali con l’arte contemporanea, da leggere con attenzione affinché la visione delle opere non rischiasse di venir deviata in termini decorativi, per quanto sontuosamente decorativi.

Nel 1995, tre anni dopo la sua scomparsa, ebbi l’opportunità di allestire una sua esposizione presso i “Molini” di Portogruaro, costruita essenzialmente con opere che erano state acquistate da collezionisti del territorio, i quali avevano saputo ben scegliere, se è vero che ho un ricordo dell’evento ricco e coloratissimo, come coloratissimi erano i suoi quadri di guru e di elefanti, di templi e di minareti, di fiori e vegetazioni, ma anche di raffinatissimi disegni ed incisioni, di tempere e acquarelli, in cui si deponeva una fantasia febbrile, come sostenuta da una inesausta necessità di fare, di segnare, di creare.

Volle, dopo la morte, che le sue ceneri fossero consegnate al Gange.

 

«L’idea di dedicare l’ultima mostra ’97 al tema Venezia nasce dalla venezianità stessa del luogo in cui la Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Portogruaro sorge: in mezzo al fiume Lemene, con case, chiese e palazzi che si specchiano sull’acqua; nasce poi dalla venezianità della città che li custodisce come il suo più pittoresco gioiello; nasce, infine, dall’ovvia, ma non perciò meno felice, ricordanza del Nievo, e dei suoi “paroni” che trasportano sul Lemene lo stesso vociare di Venezia.

E, ultima ma essenziale ragione, nasce dal fatto che ottimi artisti del territorio hanno affrontato il tema, dandone una versione ora lirica e intima, ora magari sontuosamente cromatica, ma sempre coinvolgente».

Così giustificavo la mostra “Venezie”, con cui si concludeva il mio impegno di direttore della galleria “Ai Molini”.

Fu, mi spiace dirlo – chi si loda s’imbroda – una mostra bellissima, libero ciascuno di non crederci. Può darsi che ci siano troppi superlativi nel mio impegno critico, ciò mi è stato anche rimproverato, e da persone molto avvertite: ma se costruendo la mostra mi capita di trovare un inedito di Angelo Variola del 1947, una pittura delle origini, con il Redentore sullo sfondo e due barche in primo piano, e il tutto è in una luce solare, ferma, quasi paradisiaca; se una Salute 1945 di Saetti si alza azzurra sull’acqua del Canale contro lo sfondo di un cielo dorato, chi lo sa, una specie di ex voto per la guerra appena finita; se il vecchio Luigi Diamente, pittore udinese e portogruarese, crea nel 1956 una quinta teatrale di fervidi, perfetti cromatismi, pronta ad ospitare, nella sua imperturbabilità, una commedia di Goldoni; se Luigi Vettori, dotatissimo pittore pordenonese morto sul fronte albanese a ventotto anni, crea a vent’anni una Piazza San Marco rutilante di sapientissimi ori: perché non dovrei entusiasmarmi?

Sono opere di poesia, in definitiva, e lo spirito non soffia solo in Raffaello, Monet o Paul Klee.

La mostra, che vedeva schierate una o più opere anche di Altieri, Bordini, Culòs, Giannelli, Guidi, Pittino, Pizzinato, Sartorelli, Tramontin, Valenzin e Zennaro, riempiva i due molini con grazia e sicurezza, con sapienza e grande bravura, cui poneva il suo sigillo la straordinaria Canocia in laguna, 1950 circa, di Luigi Zuccheri, rispetto alla quale scrivevo «che è la Venezia marina, è il suo stare nelle acque che viene in primo piano, è l’ambiente che l’ha fatta e senza il quale essa non sarebbe, che si vede. Nella nitida trasparenza di queste tavole si cela, in un riferimento anche stilistico all’antica pittura, la memoria pervasiva di una grande civiltà».

 

Bruno Saetti

La chiesa della Salute

olio su tela, 1945