Le insidie della valorizzazione

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Nell’assordante cicaleccio di questi scampoli di campagna elettore, fortunatamente sulla via di concludersi, tra le rodomontate sui pronostici e le frottole programmatiche che ci vengono propinate, nessuno che si dia pena di accennare ai problemi legati alla tutela dei beni culturali, così ingenti in questo Paese purtroppo sotto molti profili disastrato. Per la verità un accenno, subliminale, c’è stato con la pubblicazione dei dati del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MIBACT) relativi all’affluenza di pubblico nei musei statali. Secondo tali dati, si è avuto nel 2017 un incremento dei visitatori dei musei, che hanno superato la cifra di 50 milioni; di pari passo con una crescita degli incassi, passati da 126 a 193 milioni di euro tra il 2013 e l’anno scorso. Certo tali dati andrebbero scomposti, per verificare l’incidenza delle domeniche gratuite istituite nel 2014 (che nel solo 2017 hanno garantito un aumento di 3 milioni e mezzo di visitatori), l’incremento dei prezzi del biglietto medio, lievitato nel 2017 del 5,23% rispetto al 2016, nonché il notevole incremento del flusso di visitatori stranieri, conseguenza anche del regresso di tale dato nei paesi concorrenti, dalla Francia alla Spagna alla Turchia, ai paesi del nord Africa e in particolare all’Egitto, che ha visto un calo di presenze straniere superiore al 40%. Nonostante questi correttivi e al lordo di indisponibilità di notizie su come siano stati raccolti i dati (per esempio, esiste per tutti i siti considerati uno storico degli accessi negli anni precedenti? Oppure: sono attendibili i dati relativi alle domeniche a ingresso gratuito?) pur senza accodarsi a un probabile eccesso di trionfalismo ostentato dal MIBACT, non vi è dubbio che i dati riferiti al numero di visitatori segnino un aspetto positivo della gestione, se non fosse che sono allineati con un processo di crescita che data almeno dal 2000, e quindi è dubbio se siano il portato della riforma di Franceschini.

Il primo punto di questa discutibile riforma concerne la “piena integrazione tra cultura e turismo” e già questo rivela una visione piuttosto riduttiva di cosa s’intende con la parola “cultura”, che evidentemente si vorrebbe come fonte suppletiva di incremento del PIL, anziché come elemento indispensabile all’elevazione sociale e alla crescita di una consapevole e critica partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Da tale primo assunto derivano alcune criticità di non poco momento nella gestione del ministero a livello centrale e nelle sue articolazioni periferiche, dovute ad alcuni effetti della riforma e in primo luogo l’avvenuta semplificazione dell’amministrazione, basata da un lato su un drastico ridimensionamento del personale e dall’altro nell’accorpamento di funzioni di tutela del patrimonio prima distribuite per competenza tra dirigenti (i soprintendenti) distinti per professionalità e preparazione nei vari ambiti di competenza (storico-artistica, architettonica, archeologica e paesaggistica). Queste scelte hanno implicato il drastico ridimensionamento delle risorse legate alle attività di tutela rispetto all’enfasi posta nell’incrementare quelle di valorizzazione di tale grande patrimonio del Paese.

Si tratta di argomenti di non semplice comprensione, che meritano ben più delle quattro righe di un articolo, anche perché siamo in presenza di cortine fumogene che oscurano la reale portata dei più recenti interventi in una materia di elevata complessità. Intendiamo pertanto, a partire dal prossimo numero, occuparci con continuità di tali argomenti, mediante una rubrica che chiameremo ARTICOLO NOVE, richiamando quindi esplicitamente il dettato della nostra Costituzione, che appunto in tale articolo afferma che “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”, dettato troppo spesso disatteso ed eluso.