Ricordo di Valentino Zeichen

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di Diego Zandel

 

Ci teneva alla sua identità fiumana, il poeta Valentino Zeichen, nato a Fiume, appunto, nel 1938 e poi arrivato profugo in Italia con il padre, prima al campo di Parma, poi a Roma, l’animo straziato dalla morte della madre Evelina, per tisi a Fiume. C’è uno struggente ricordo di Valentino della madre, di quando l’ha vista per l’ultima volta. Si trovava in colonia a Cantrida e lei lo venne a trovare, parlarono un po’ prima di abbracciarsi per quello che lei sapeva essere l’ultimo saluto. Di quell’addio è rimasta una poesia bellissima. Fiume, così, anche se si definiva un successore del romano Marziale, era diventata per lui una città profondamente interiore, uno scrigno che si teneva dentro e di cui parlava con pochi amici. Io ero uno di questi.

Lo andavo a trovare, soprattutto negli anni in cui lavoravo vicino a dove abitava, nella sua baracca al Borghetto Flaminio, per pranzare insieme. Era un cuoco sopraffino, ci teneva. E, mentre preparava e mangiavamo, parlavamo. In dialetto fiumano, naturalmente. Credo di essere stato l’unico con cui gli capitava questa possibilità. Gli argomenti svariavano, ma dominava la letteratura e poi, sì, il discorso cadeva sulla nostra città. Ero una fonte di notizie per lui, per le mia frequentazioni di Fiume da una parte, e quindi dei Rimasti, e dei profughi qui a Roma. Profughi che lui, avendo abitato sempre a Roma Nord, mentre il Villaggio Giuliano-Dalmata si trovava dalla parte opposta, a sud.

Un po’ ce l’aveva con i profughi, dai quali non era mai stato preso in considerazione. Ma neppure i Rimasti, se è per quello. Non credo che sia gli uni che gli altri abbiano scritto di lui, lo abbiano invitato. Eppure era uno dei più grandi poeti italiani. Ed era famoso per i suoi recital, per quella forte impronta di attore che aveva, per la personalità della sua voce, che sapeva attrarre l’uditorio, farlo proprio, talvolta travolgendo (resta negli annali il grande recital che fece a Castel Porziano nel 1979, una tre giorni teatrale en plein air, con tanti poeti di tutto il mondo, compresi i mostri sacri della Beat generation americana, Allen Ginsberg, Gregory Corso, William Burroughs). I libri di poesia di Valentino Zeichen non possono prescindere dalla storia della letteratura. I grandi editori se ne erano subito accorti. Valga però per tutti Mondadori, che gli ha dedicato un Oscar Tutte le poesie, con i testi scritti negli anni Area di rigore (Cooperativa Scrittori 1974), Museo interiore (Guanda 1987), Passeggiate romane (Fazi 2004), Neomarziale (Mondadori 2006), Aforismi d’autunno (Fazi 2010), Casa di rieducazione (Mondadori 2011).

Ha scritto anche un romanzo La sumera, pubblicato da Fazi, lo stesso anno in cui è morto, un rifacimento di un romanzo che tanti anni prima aveva pubblicato con il titolo Tana per tutti. Si dava quasi per scontato che sarebbe stato uno dei finalisti allo Strega, invece ne fu escluso e, questo, credo non sia stato del tutto estraneo all’accidente, un ictus, che lo ha colpito e che dopo alcune settimane lo avrebbe condotto alla morte.

Valentino aveva un carattere non facile. Non era addomesticabile. Aveva le sue idee, alcune delle quali molto rigide. Sicuramente aveva antipatie, anche razziali, molto forti. Antipatie che, ad esempio, anche per via del ricordo della madre, sepolta così lontano da lui, gli impediva di tornare a Fiume. Anche se, a un certo momento, l’idea di fare insieme, noi due un viaggio – sognava un po’ Abbazia, dove suo padre aveva fatto il giardiniere – lo aveva preso. Soprattutto dopo che, sempre insieme, avevamo partecipato alla commemorazione del Giorno del Ricordo a Servigliano, la cittadina in cui esiste il campo profughi che mi aveva visto nascere. Andammo a parlare nelle scuole, portando la nostra testimonianza, lui quella più diretta della mia, per essersene andato via da Fiume che aveva già quasi dieci anni. Con gli scolari avemmo un approccio diverso, io più diplomatico, mentre Valentino non esitò a mostrare il suo entusiasmo per i bombardamenti americani che c’erano stati su Belgrado, per la devastazione della Jugoslavia, il paese che gli aveva portato via tutto, compresa soprattutto la possibilità di portare un fiore sulla tomba di sua madre.

 

A Evelina, mia madre

 

Dove saranno finiti la veduta marina, il secchiello e la paletta, e i granelli di sabbia che l’istantaneo prodigio tramutò in attimi fuggenti, travisandoli dal nulla in un altro nulla? Dove sarà finito l’ovale di mia madre che fu il suo volto e che il tempo ha reso medaglia? Perché non mi sfiora più con le sue labbra, dove sarà volato quel soffio che raffreddava la mia minestrina? Dove le impronte di quel lesto e disordinato sparire delle cose? In quale prigione di numeri è rinchiuso il tempo? Rispondimi! Dolore sapiente, autorità senza voce.