La mia vita per un papiro
Il POnte rosso N° 72 | profili | Roberto Curci | settembre 2021
L’arduo tragitto umano e accademico di Medea Norsa, dimenticata da Trieste
di Roberto Curci
È una delle tante donne triestine in lista d’attesa per vedersi dedicata una via, o almeno una viuzza, una piazzola, una scalinatella. Impresa ardua in una città che non cresce e demograficamente deperisce. Si chiamava Medea Norsa, era nata nel 1877 e morì nel 1952. Un’intera vita dedicata alla filologia classica, all’egittologia e soprattutto a una scienza ai suoi tempi nascente: la papirologia. C’è da meravigliarsi se a ben pochi il suo nome dice qualcosa? (Eppure altrove qualche via le è stata davvero intitolata, perfino nella cittadina toscana di Agliana…).
Vita intensa, tutta dedita agli studi, ma vita tribolata e infelicemente conclusa, dopo disgrazie, gelosie, ostracismi, malanni. Troppi i marchi che si portava addosso: donna, nubile e sola; “straniera” a Firenze dove quasi sempre operò; e per di più presunta ebrea (non lo era). Eppure una personalità talmente forte e importante da vedersi oggi retroattivamente ricompensata con l’intitolazione a suo nome del Centro papirologico di Firenze, presso l’Accademia di papirologia e di studio del mondo antico.
Nacque a Trieste, da padre di ascendenze sefardite ma estraneo alla comunità ebraica e da madre slovena, che la fece battezzare coi nomi di Medea Victoria Irma. Fanciulla, fu tra i frutti più succosi maturati in quel vivaio di patriottica cultura che era il Civico Liceo Femminile, dove brillantemente ottenne il diploma di perfezionamento magistrale. E con altrettanta bravura, dopo una breve esperienza viennese, meritò a Firenze nel 1906 la laurea in Lettere, a “pieni voti assoluti”, con una tesi Sulle ultime scene dell’Aiace di Sofocle. Sull’esodo dei Sette a Tebe di Eschilo.
La sua strada, il suo destino erano dunque tracciati. E tanto più quando, poco dopo, con il voto di 50 su 50 e la lode, si diplomò alla Scuola di Paleografia. Tornata malvolentieri a Trieste per ragioni familiari, insegnò per un paio d’anni nel Liceo da cui era uscita. Ma – e fu la prima delle sue traversie – le venne rifiutata la domanda di congedo, dato che lei fremeva per tornare a Firenze e collaborare all’edizione del primo volume dei Papiri greci e latini con colui che sarebbe stato fino al ’35 il suo divinizzato maestro, Girolamo Vitelli. Fu costretta a dare le dimissioni dalla scuola, e da allora a Trieste sarebbe tornata soltanto durante le ferie estive.
Nel capoluogo toscano sembrava finalmente schiudersi per lei la via che aveva cocciutamente deciso di imboccare, benché la materia dei suoi studi fosse considerata un elitario “pallino”. Ottenne nel ’24 la libera docenza in papirologia classica, con un’abilitazione divenuta però operativa appena nel ’38, quando già nuovi guai si addensavano sul suo capo. Ma in quel quindicennio, avendo sempre come nume tutelare il professor Vitelli, lavorò indefessamente, non solo a livello accademico a Firenze e alla Normale di Pisa, ma con reiterate missioni in Egitto, partecipando a missioni archeologiche e setacciando i mercati antiquari, dove fece scoperte entusiasmanti che confermarono la sua reputazione di prima e unica papirologa italiana degna di interloquire con i grandi studiosi francesi e tedeschi.
In missione per conto di Vitelli col compito di reperire il maggior numero possibile di papiri letterari greci e latini, sopravvissuti per millenni grazie all’aridità delle sabbie dei deserti egiziani, rintracciò ad esempio, nella bottega di un mercante del Cairo, un frammento da lui sottovalutato ma che lei identificò, quasi a colpo d’occhio, per una manciata di versi appartenenti alla Chioma di Berenice del filologo-poeta alessandrino Callimaco, un poema poi tradotto in latino da Catullo, riemerso dunque dopo 2200 anni. Ma individuò pure un banale frammento di coccio, un ostrakon, su cui erano però vergati dei versi di Saffo, nonché il resoconto di un’ambasceria alessandrina ad Augusto e altri reperti di notevole valore storico e filologico.
Piccoli-grandi tesori affiorarono pure durante le campagne di scavo organizzate da Vitelli ad Antinoupolis, la città fondata da Adriano nel Medio Egitto nel 130 d. C.: sito che già tra fine ‘800 e inizi ‘900 aveva premiato la scuola archeologica francese, consentendo recuperi eccezionali che avrebbero dato ai musei di Francia e soprattutto al Louvre una quantità enorme di oggetti e di memorie.
Ma qui si offuscò la stella di Medea Norsa. Nel settembre del’35 Vitelli venne a mancare, lasciando l’allieva nella disperazione. Esperta come nessun altro nella decifrazione e nella pubblicazione dei reperti, gli subentrò comunque alla guida dell’Istituto papirologico; mancandole però l’autorevole appoggio del maestro, subì da subito invidie e attacchi personali, fino all’ostracismo e all’emarginazione. Non bastava: nel marzo del ’44 la sua casa fiorentina fu distrutta da un bombardamento, la cognata Eugenia rimase uccisa, la biblioteca privata andò perduta.
E anche le missioni in Egitto erano ormai finite. Dopo aver chiesto di potervi tornare per campagne di scavo tra 1939 e ’40, la Norsa finì nel mirino del regime per la sua presunta estrazione ebraica. Per lei, battezzata e cattolica, la sospirata dichiarazione di “mista non ebrea” arrivò appena nel febbraio del ’40, troppo tardi per l’ultimo appuntamento con Antinoupolis.
Nel dopoguerra le cose andarono ancora peggio. Una grave malattia la costrinse lungamente a letto, venne messa forzatamente in congedo (1949) e anche il nuovo volume dei Papiri della Società Italiana cui stava lavorando fu sottratto alle sue cure. Finì i suoi giorni, sola e dimenticata, ospite di un convento di suore, nel luglio del 1952.
Che dire?, se non che l’intitolazione di una via sembrerebbe davvero il minimo omaggio postumo che Trieste possa offrire a una studiosa che le fece onore e di cui la città non serba memoria, se non tra una pattuglia di acculturatissimi “specialisti”, Gino Bandelli in primis.
Carteggio 1926-1949
Dedalo, 2005
- 128, euro 18,00