La cultura nel freezer

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di Roberto Curci

 

Accadde un bel po’ di anni fa. A un generoso funzionario regionale di un certo rango venne la bella idea di convocare una sorta di Summit della Cultura, invitando a confrontarsi su idee, progetti, buone intenzioni e possibili collaborazioni i responsabili di istituzioni, enti, associazioni attivi a Trieste in ambito, appunto, variamente culturale, assieme a qualche cane sciolto (quorum ego) ritenuto – bontà sua – capace di fornire ulteriori apporti al dibattito. “Vaste programme”. Troppo vasto, infatti. Tanto che, dopo un paio di riunioni, sulla bella idea scese un sepolcrale silenzio. Una conferma in più, se occorresse, dell’impossibilità di “fare squadra” o “fare sistema” in una città dove ognuno, ben che vada, fa squadra per sé stesso.

In questi tempi cupi, di scartabellamento e riordino casalingo, è però riaffiorato il verbale della prima riunione (18 gennaio 1994, a esser precisi: un quarto di secolo, ohibò). E, a conferma della generosa volontà (divenuta presto velleità) del funzionario FVG di cui sopra, val forse la pena di ricordare – senza far nomi – quanti furono convocati e, almeno agli esordi, aderirono con un certo interesse e un’apparente disponibilità: oltre all’assessore comunale alla cultura di allora, il Rettore dell’Università, il Soprintendente regionale ai beni culturali, i direttori del Museo di Miramare, dei Civici Musei, della Biblioteca Civica, del Museo Revoltella, del Teatro Verdi, del Teatro Stabile di prosa, dell’Archivio di documentazione della cultura regionale, di Alpe Adria Cinema, della Sissa, dell’Immaginario Scientifico, dell’Area di Ricerca.

Tra i proclamati obiettivi, la calendarizzazione coordinata di avvenimenti da programmare; la progettazione di manifestazioni anche interdisciplinari “di grossa portata”; la realizzazione, “se  possibile”, di alcuni laboratori sperimentali di produzione culturale: l’agevolazione dei rapporti amministrativi e finanziari tra le istituzioni e la Regione.

Tutto bello, tutto nobile, almeno sulla carta. Un magnifico libro dei sogni. Infatti si comprese ben presto che di autentiche sinergie non si sarebbe vista l’ombra e che ognuno avrebbe continuato a remare per conto proprio. Da allora (un quarto di secolo, ohibò) temiamo che nulla sia cambiato, e ne è un luminoso esempio il mancato dibattito a tutto campo e con l’interazione dei diversi soggetti con diritto di parola sul possibile futuro globale del Portovecchio: un futuro di cui s’intravvedono i pezzi e i bocconi, senza che vi sia l’opportunità di una riflessione complessiva, affidata non solo ai Pubblici Amministratori, ma altresì agli Operatori Culturali, che forse qualcosina da dire, da suggerire o da obiettare l’avrebbero.

Già, la cultura. Parola imbarazzante, parola scomoda: tanto più nei tempi bui che stiamo vivendo. “Ci salverà la cultura”: quante volte abbiamo letto queste parole nei mesi di passione che stiamo vivendo? Pronunciate (appunto) da uomini di cultura, dunque da una sparuta élite intellettuale, sono passate come acqua su marmo sulla faticosa, tormentata elaborazione dei vari DPCM, che hanno infierito proprio sui “rifugi” in cui si sarebbe potuta cercare la sospirata “salvezza”: mentale, spirituale, ma anche fisica, vista la sostanziale innocuità di cinema, teatri e musei rispetto a tanti altri habitat collettivi. “Non è chiaro come mai cinque persone in una stanza di museo rischino il contagio più di cinque persone in un negozio di alimentari di identica superficie” (Salvatore Settis, Corriere della Sera).

Come 26 anni fa, quando neppure una minima ipotesi di sinergia cittadina andò in porto, ma con i medesimi risultati e su ben più vasta scala, la cultura vien dunque posta in freezer, a tempo illimitato e in attesa di ipotetici tempi migliori, assieme alle idee, ai programmi, ai progetti elaborati o in fase di elaborazione dai molti coraggiosi/ostinati che al ricatto del virus non hanno voluto cedere.

Un disastro nel disastro. Con lo spettro di una generale atrofia (per sconforto, rassegnazione, sfinimento) nella produzione di quello che già Machiavelli definì, con parole lapidarie ed eterne,  “quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui”.