TJ, doppia negazione tra fotografia e letteratura

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di Paolo Cartagine

 

Tutto, o quasi, è duplice in TJ – Doppia negazione, a cominciare del titolo e dagli Autori.

TJ, sigla di “Transvaal Johannesburg”, è la denominazione della raccolta di fotografie che ha dato lo spunto al romanzo Doppia negazione (edizione italiana in cofanetto, Contrasto 2010); due linguaggi, immagini per il fotoreportage realistico, e parole per la fiction. Il romanzo, che non commenta le singole foto, con la sua trama porta progressivamente il lettore a sviluppare interpretazioni personali sulla Fotografia e sui legami con lo scrivere.

Alter ego dei rispettivi Autori sono i due protagonisti del romanzo.

Neville Lister, narratore in prima persona, è un ragazzo ventenne della borghesia benestante di Johannesburg dietro il quale si cela lo scrittore sudafricano di origine croata Ivan Vladislavić. Nato a Pretoria nel 1957, Vladislavić è stato in particolare redattore e saggista esperto di scienze sociali presso la casa editrice anti-apartheid Ravan Pres; vari suoi lavori hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali.

Il secondo protagonista, Saul Auerbach – uomo maturo, fotografo riservato ma aperto al prossimo – è la raffigurazione letteraria di David Goldblatt (Randfontein 1930, Johannesburg 2018). Figlio di profughi ebrei dalla Lituania, Goldblatt è stato il primo fotografo sudafricano chiamato al MoMa di New York con una mostra personale nel 1998. Aveva iniziato a fotografare nel ’48, anno della promulgazione delle leggi sull’apartheid, tema che resterà il fulcro dei suoi settant’anni di lavoro a Johannesburg, con foto sempre in bianco-nero alla luce naturale.

Sono due personalità contrapposte, perché Neville è più precipitoso del meditativo Saul. E anche due sono le vie non tracciate a priori lungo cui agisce Neville: una alla ricerca dei significati dell’esplorazione del proprio io e del mondo, l’altra del come il perdersi e imboccare una strada imprevista sia un buon modo per crescere e rinnovarsi. Le costruisce da sé giorno per giorno, fra sentimenti di perdita e di ritrovamento, di spaesamento e di certezza, fra deviazioni o apparenti errori che si rivelano richiami imperscrutabili che legano il cammino alla vita.

Le peregrinazioni di Saul (accompagnato da Neville) ci conducono tra la gente più emarginata di Johannesburg alla ricerca di persone “anonime” ma significative. Lo scopo? Fotografarle per mostrare che c’è umanità anche in un territorio frammentato, permeato di conflittualità e diffidenze, di parti disconnesse dovute alla discriminazione razziale e di incongruenze nell’assetto sociale e urbano della città. Basti pensare alla toponomastica e ai nomi, un complesso equilibrio fra infinite diversità: oggi il Sudafrica ha tre capitali e cinque lingue ufficiali.

Sono due anche gli snodi che sorreggono la narrazione. Neville si rifugerà a Londra per evitare il servizio militare negli anni più cruenti dell’apartheid, ma rientrerà nel ’94 dopo l’elezione di Mandela a Presidente, e riallaccerà il dialogo con Saul che, al contrario, con perseveranza e dedizione aveva proseguito il suo lavoro di documentazione nei sobborghi di Johannesburg.

In ultima analisi, il romanzo è, anche, la metafora di un Neville in perenne contrasto con se stesso e con la realtà circostante, in quanto vuole vivere “nel mondo vero” rifuggendo la superficialità dei privilegi del “suo mondo” di uomo bianco progressista, di cui però usa appieno tutte le prerogative a lui favorevoli. Dunque, una “doppia negazione”.

Da dove nasce TJ – Doppia negazione?

Dall’esigenza di rappresentare un particolare momento storico e di farlo attraverso scene di vita comune di apparente normalità.

Golblatt, con il suo sguardo lento e selettivo, aveva instillato il germe della Fotografia nel più giovane Vladislavi, scrittore.

Dotato di forte empatia, Goldblatt avvicinava con delicatezza le persone che intendeva fotografare, attendeva il loro consenso, instaurava contatti non superficiali al fine di conoscere bene i suoi soggetti, di essere accolto nelle loro case e di poterli ritrarre nei loro ambienti consueti senza alterare la scena. Grazie a questo suo costante e rispettoso modus operandi, le immagini di TJ sono straordinari brevi racconti di piccole-grandi storie al di fuori dalla Storia, e proprio per questo indimenticabili. Ci mostrano periferie (fra cui Soweto) al limite della vivibilità abitate da persone che la Storia non ha mai ritenuto importanti. Sono reportage pervasi dal “senso del margine”, la puntuale rappresentazione visiva dell’insuperata bipartizione della società sudafricana: indigenza, soprusi e crimini prima del ’94, subito dopo modificatisi in consumismo, sete di soldi e di potere delle classi emergenti. È la prova d’amore di Goldblatt verso il suo Paese.

La fotografia è l’ossatura di Doppia negazione che – partendo da un’esplorazione attenta sull’arte di testimoniare e sul potere di incantare insito nelle immagini fotografiche – si impernia su più ampie considerazioni riguardanti come e cosa ricordiamo o decidiamo di ricordare, sulla coscienza e sulla memoria. Ed esplora altresì la capacità di comunicare a livello emotivo, osservando come le persone cambiano le proprie opinioni per convenienza adeguandosi al mutare dei tempi, e in che maniera poche altre (come Saul, ad esempio) mantengono salde le proprie convinzioni in quanto derivanti da un lungo processo fatto di consapevolezza e coerenza.

Neville pone spesso domande a Saul sul modo di vedere e di cogliere la realtà attraverso l’operazione fotografica condotta nel rispetto dell’altro in modo da costruire un ponte tra soggetto, autore e spettatori in grado di trasmettere sensazioni non effimere.

Dice Neville: «Se cerco di immaginare la vita che si svolge nelle case che abbiamo visto a Johannesburg, i drammi domestici, le saghe familiari, mi sembra impossibile e troppo complicato. Anche se la fotografia – con la sua capacità di congelare l’istante – svela alla fine le contraddizioni degli accadimenti, come fai, Saul, a dare conto di tutti quei particolari? Non è possibile in un romanzo, figurati in una fotografia».

E più avanti, «mi interessa in che modo i fotografi riescono a condensare nel breve tempo dello scatto una tale quantità di informazioni, cioè come questa “finestra” spazio-tempo riesca a rappresentare così tanto. E come – man mano che ci si allontana – quell’immagine, ormai scissa dal passato, si carichi nel corso degli anni di ulteriori significati».

«Le foto fermano i momenti, ma la nostra memoria tende a diventare sempre più corta e la coscienza degli eventi accaduti è sostituita dall’ininterrotto rincorrersi di nuovi dati. Chi si ricorda com’era il mondo solo qualche decennio fa? Allora, Saul ti chiedo: come si impara a catturare le storie senza tradirle?»

Con la franchezza che lo contraddistingueva, Goldblatt ci risponderebbe che «ogni foto, per essere efficace, deve semplicemente raccontare un storia che tutti possano cogliere».