Le lucciole

| | |

di Giuseppe O. Longo

 

 

Era poco prima di mezzanotte quando uscimmo dalla trattoria e ci avventurammo per le stradine afose del centro verso la Piazza Grande. Per le abbondanti libagioni, alcuni del gruppo sbandavano leggermente da un lato all’altro del vicolo come battelli ebbri, altri ciarlavano per poi tendere l’orecchio all’eco alterata delle loro voci rinviata dai lunghi tratti di muri ciechi di quegli edifici alti contro il cielo estivo, simili a carceri o a conventi. Qualcuno si avventurò in un pungente commento sulla sessione pomeridiana del convegno, ma nessuno raccolse la provocazione, che perciò cadde nel vuoto. Ogni tanto, la serie di quegli edifici conventuali s’interrompeva a destra o a sinistra per dare spazio a una viuzza che subito si perdeva nell’oscurità a stento temperata dal rossastro riverbero dei lampioni e dal pallore di una luna calante velata da nubi sfilacciate. Io ero stanco e assonnato, la mattina avevo tenuto la mia relazione, poi il pranzo abbondante, il vino rosso, corposo e torpido, la sessione pomeridiana, interminabile e sonnacchiosa, e infine la cena in trattoria con una decina di colleghi. A tratti mi coglieva una vampata di sonno e per qualche secondo camminavo come un automa, appoggiandomi al muro. Alla fine di quel vicolo lunghissimo ci addentrammo in una zona della città molto diversa. Cessarono i muri monastici, la strada si allargò e si aprirono squarci di fiabesca luce lunare su giardinetti addormentati a custodia di villette gelose. Qua e là una finestra mandava un fioco chiarore di lampade accese, ma il buio era quasi unanime. Le ville erano circondate da muri alti, di mattoni o di pietra, sormontati da cocci di vetro, in cui si aprivano cancelli di ferro battuto. Nessuno parlava più, come se il silenzio notturno fosse sacro. In cielo la luna avanzava con noi attraverso pallide velature generate dal residuo calore diurno, e vegliava il nostro cammino. A un tratto le scorsi, dietro un cancello che difendeva un giardino abbandonato, invaso dai rovi: erano centomila anni che non vedevo quello spettacolo, che da bambino aveva riempito le mie serate con il formicolio delle lucine magiche, che si lasciavano mitemente catturare e impallidivano e si spegnevano nella mia mano, lasciandomi in preda a una delusione cocente e a un vago senso di colpa… Ed eccole qui, ancora, venute a sciami dalle lontane rive del tempo, pullulanti e instancabili, le mie lucciole, come uscite da un mondo altro, collegato al nostro da corridoi segreti che si erano aperti per l’incantesimo della luna sospesa, del silenzio notturno e delle villette. Lasciai che i miei compagni andassero avanti, feci loro cenno che intendevo restare lì, davanti a quel cancello, a contemplare lo zigzagare delle lucine sotto la chioma delle due palme e dei quattro cipressi. Pareva che da un momento all’altro la porta della villa dovesse aprirsi per lasciar passare la Fata dai capelli turchini. E la Fata mi avrebbe sussurrato ancora una volta la filastrocca che mi aveva insegnato mia nonna quand’ero piccolo e il mio cuore traboccava di non so quale dolcezza, di non so quale emozione da cui mi lasciavo sommergere fino a sciogliermi. E questa emozione mi sommerse di nuovo davanti al cancello serrato, davanti alla villa deserta, davanti al giardino abbandonato… fu così che la vecchia filastrocca, per qualche misterioso fenomeno, riemerse dagli alveoli della memoria per ripresentarsi intatta, nitida, precisa:

 

La gaia luccioletta

presa dal calabrone

fu messa per lampione

sopra la bicicletta.

 

Ma il rospo pizzardone

che stava alla vedetta

gli fece in fretta in fretta

questa contravvenzione:

 

“È scritto a chiare lettere

che per ragioni interne

non si possono ammettere

lucciole per lanterne!”

 

Non so quanto tempo restai davanti al cancello, afferrate le mani alle sbarre, gli occhi pieni dell’erratico aggirarsi di quelle creaturine di luce. Quando mi riscossi, faticai a ritrovare la strada dell’albergo, ma alla fine potei coricarmi in un letto morbido e accogliente, sperando di sognare le lucciole. Invece feci altri sogni, che la mattina dopo avevo dimenticato. Mi consolai pensando che le lucciole, messaggere della mia infanzia, continuavano ad abitare quel giardino secluso, pronte ad abbandonarsi ogni sera alle loro danze d’amore.