Gabriele Basilico a Trieste
fotografia | giugno 2021 | Il Ponte rosso N° 70 | Paolo Cartagine
di Paolo Cartagine
Il lavoro primario del cordaio comporta l’intreccio di tanti fili sottili che vengono utilizzati per dar luogo a un nuovo prodotto, la corda, capace di assolvere a più complesse funzioni.
Se sostituiamo la parola “fili” con fotografie, la “corda” si chiama mostra.
Al Magazzino delle Idee a Trieste – promossa dall’ERPAC FVG – fino al 5 settembre 2021 è visitabile “Nelle città”, rassegna antologica su Gabriele Basilico (1944-2013), uno dei più grandi fotografi internazionali di architettura, paesaggio urbano, archeologia industriale, porti e infrastrutture.
Modalità dell’abitare, trasformazioni del territorio, sovrapposizioni storia-contemporaneità, centri economico-direzionali e aree defilate delle periferie-dormitorio, insensatezze delle guerre e frenesia delle megalopoli sono il riassunto del lavoro in giro per il mondo del fotografo milanese. Un centinaio di immagini (di cui sei su Trieste inedite o poco conosciute) bianconero e colori, tratte dall’Archivio Basilico curato dalla moglie Giovanna Calvenzi, nota photo-editor.
“Nelle città”è un contenitore che offre una preziosa occasione per unificare tre piani di lettura: ripercorrere la ricchissima carriera professionale dell’Autore; entrare nel multiforme assetto del territorio sospeso fra spazio e tempo, tra schemi ripetuti e peculiarità specifiche; addentrarsi nelle caratteristiche comunicative della “fotografia lenta”, che Basilico ha sempre praticato per rendere visibile il suo pensiero.
Una profonda riflessione critica sull’inarrestabile antropizzazione che l’Autore ha compiuto grazie a “fotografie descrittive”, rappresentazioni di una “visione soggettiva”, in quanto convinto assertore che “la fotografia di testimonianza oggettiva” è un’utopia scivolosa e fuorviante.
È esperienza comune che nel visitare un’esposizione (di per sé già atto narrativo in quanto individuazione e impaginazione delle foto) si venga automaticamente attratti dalle opere ivi contenute, mentre è più raro soffermarsi sulle connesse possibilità di fruizione.
L’appropriazione da parte del visitatore dei contenuti di questa mostra è agevolata dal filo rosso che lega saldamente l’inerente allestimento con la configurazione del Magazzino, fatta di spazi aperti senza corridoi privilegiati. Ciò permette di attuare un numero a piacere di percorsi andata-ritorno non vincolati e, dunque, passare e ripassare in direzioni volutamente diverse. Ne consegue che una determinata immagine non è preceduta e seguita sempre dalle stesse dell’itinerario precedente. Allora, nella mente dell’osservatore mutano percezione e impatto visivo, si originano riletture diversificate e dotate di senso. Come se, prima di far partire un brano musicale, l’ascoltatore potesse ridistribuire le note scritte dal compositore.
Il risultato concreto? Essere immersi nell’imprevedibilità del mondo pur partendo da configurazioni statiche, delimitazioni tagliate dai bordi dell’inquadratura che lo sguardo di Basilico aveva incorniciato in ripresa con il suo banco ottico (una macchina fotografica voluminosa e pesante, dotata di comandi manuali che le altre non hanno e che sono gestiti dal fotografo. Ospita pellicole piane di almeno 13×18 cm per lo scatto singolo, non la bobina continua dei più piccoli fotogrammi in serie).
Perciò operazioni preliminari lunghe. A iniziare dal posizionare il banco ottico sul cavalletto di sostegno a un’altezza di circa un metro e mezzo da terra per avere l’asse ottico orizzontale. A seguire, l’individuazione di uno specifico punto di ripresa per tener conto del fuggevole rapporto luce-ombra e per non aggiungere l’estetico al sostanziale. E ancora – sotto il panno che lo proteggeva dalla luce ambiente consentendogli di appropriarsi delle esili figure che comparivano sul vetro smerigliato, rovesciate sotto-sopra e invertite destra-sinistra – Basilico regolava la messa a fuoco e l’ortogonalità delle linee orizzontali e verticali dei manufatti inquadrati. Dunque, il rigore fisico della forza di gravità era per lui un fattore espressivo ineludibile per replicare la prospettiva pittorica rinascimentale, un’esattezza dietro cui ha celato i misteri del suo animo. Poi l’inserimento dello chassis con la pellicola vergine e, infine, la posa paziente con l’otturatore aperto per catturare la scena fatta di dettagli finissimi grazie alla nitidezza dei costosi obiettivi e alla grande superficie sensibile della pellicola. Insomma, per ogni immagine, non meno di venti-trenta minuti.
Tutte queste – prima di essere manovre tecniche e scelte tecnologiche – erano operazioni culturali di applicazione del linguaggio fotografico, di strutturazione di un messaggio composito, di mediazione di un modo di sentire, di condensazione di esperienze, ricordi e sensazioni che si materializzavano “in macchina”.
Chi lo ha visto al lavoro racconta che in quei momenti cruciali Basilico era particolarmente concentrato, mentre prima e dopo interloquiva volentieri con coloro che, incuriositi, gli stavano attorno.
All’originario corpus delle accuratissime stampe bianconero analogiche, si era affiancata la stampa digitale (da scansione di negativi colore su pellicola piana) connotata da verosimiglianza cromatica irraggiungibile in camera oscura.
Il suo era un raffinato progetto di individuazione di uno spazio visivo, senza artifici di spettacolarizzazione per superare l’inafferrabilità del tempo e per condurre il fruitore attento oltre il visibile.
La potenza delle sue fotografie non è la semplice forma ma le domande che esse ci pongono. Infatti, l’immagine immobile di Basilico riflette la razionalità di un processo di raffigurazione del mondo, un pensare incastonato nell’osservare gli artefatti umani tra le pieghe della quotidianità, un’attività interpretativa mai neutrale centrata sui punti significativi della sua selezione individuale.
Basilico si era laureato in architettura e poi aveva intrapreso la professione di fotografo, quindi ben conosceva i suoi soggetti, i relativi processi ideativi e costruttivi, le problematiche di inserimento nel tessuto territoriale preesistente, le conseguenze dell’incontro/scontro fra eterogeneità funzionali e stilistiche, nonché l’importanza delle opportunità storiche del passato immerse nella modernizzazione.
Un grande appagamento per il lettore esplorare le sue foto e oltrepassare la barriera delle ripetitività apparenti di fabbriche, grattacieli, edifici dismessi, aree marginali, tipologie e situazioni presenti in tutto il mondo.
Nelle città, tanti capitoli di un unico romanzo lungo oltre quarant’anni, una rete di connessioni non cronologiche valorizzate dal contesto in cui a Trieste le foto sono proposte.
Quello di Basilico è stato lo sguardo indagatore di chi – “scrivendo con la luce” lontano dagli stereotipi e al di sopra del brusio di fondo – ha sempre avuto qualcosa di personale da dire, di chi sapeva aspettare il momento opportuno e non si accontentava di un risultato qualsiasi. E lo si vede.