Radiografie dell’ultimo Saba
Fulvio Senardi | Il Ponte rosso N° 50 | ottobre 2019 | saggi
Gli ultimi anni di una vicenda umana e letteraria
di Fulvio Senardi
Introdotta da una Prefazione di Arnaldo Soldani esce, per i tipi della Società editrice fiorentina, una raccolta di saggi dedicati all’ultimo Saba, L’ultimo Umberto Saba: poesie e prose. Con la luminosità accesa e malinconica di un sole che si spegne il poeta triestino dà, specie nella prosa, il meglio di sé negli anni che vanno dalla fine della guerra alla morte nel 1957, ed è su questa fase che gli studiosi convenuti a Verona nel dicembre del 2017 (in un convegno che ha costituito il palinsesto della miscellanea) hanno voluto concentrare la loro attenzione, approfondendo l’analisi della poesia e della prosa, a testimonianza, così Soldani, “della vitalità inesauribile di Saba , della sua singolarità quasi proverbiale di classico tanto incontestabile quanto irriducibile a ogni schematismo. Quasi che l’inattualità che, storicamente, ha reso difficile riconoscere la reale statura del poeta continui a manifestarsi ora nella complessità pluriprospettica che la sua opera esige dall’indagine critica”. Complessità su cui insiste Antonio Girardi, nel primo dei contributi (Lo stile dell’ultimo Saba), invitando a “parlare non di stile, bensì, al plurale, di stili dell’ultimo Saba”. Nel mirino dell’analisi il terzo volume del Canzoniere, segnato dall’esperienza di Parole, che ha valore fondativo rispetto a Ultime cose, 1944, Varie, tutte nel segno di una modernità d’accento, quasi a sfida di coloro che stigmatizzavano il tradizionalismo del triestino; e, tuttavia, di una “modernità” si tratta che va stemperandosi dopo Parole, per il prevalere di un’intonazione più propria e personale, quasi che Saba “dopo aver dimostrato di saper fare della poesia dichiaratamente moderna, smettesse di interessarsene”. A partire da Mediterranee il poeta batte invece una strada nuova, di spirito “in qualche modo neoclassico”, con acuti di impronta para-diaristica ed aforistica in Epigrafe, Uccelli e Quasi un racconto, raccolte caratterizzate tanto dalla novità dei contenuti quanto dall’assenza di “ogni visibile impianto d’insieme”. Elegante affabulazione in limine mortis, ultima chiamata alla poesia prima del grande nulla. Se qui si osa, e con felici risultati, uno sguardo di insieme, più circoscritti e concentrati, almeno nel loro assunto di partenza, i saggi che seguono, di Jacopo Galavotti (Saba tra Orfeo e Pery: l’”ultimo bellissimo verso” di “Ceneri”) e di Gianfranca Lavezzi (Oltre “Mediterranee”: una conclusione provvisoria). Galavotti mette il dito – avvalendosi di una fine metodologia di impronta mista: psicanalitica e filologica – su una delle non rare dimenticanza o bugie di Saba, come dir si voglia. Una questione che, visti i condizionamenti del “sottosuolo” cui va soggetto il triestino, non è affatto questione di lana caprina. Ma veniamo al dunque: l’ultimo verso di Ceneri non proviene, come si premura di spiegare il poeta in Storia e cronistoria del Canzoniere, dal libretto d’opera del Guarany ma dal libretto di Striggio per l’Orfeo di Monteverdi. Un dato di fatto sul quale Galavotti articola una serrata analisi che si allarga ad ampi cerchi sull’intero Canzoniere anzi sull’intera opera di Saba, “densissimo macrotesto” di “ramificazione sotterranea e allusiva dei significati”. Lavezzi si concentra invece su Epigrafe e, in essa, su Uccelli in particolare di cui, sventando l’abile operazione di mascheramento condotta da Saba, fa emergere l’ombra dell’amore proibito degli anni senili, quello per Federico Almansi (una relazione complessa, tormentata eppure, o forse per questo, fortemente produttiva quanto ai risultati poetici e di cui la stessa Lavezzi ha offerto, qualche anno or sono, importanti contributi di chiarificazione, per es. in Occhi di cielo aperti sull’abisso. Nuovi dati biografici e critici su Federico Almansi). Come risultati collaterali di un contributo filologicamente ineccepibile, una nuova proposta di seriazione delle poesie di Epigrafe e la messa in valore di alcune varianti che fanno emergere oscillazioni e pentimenti, scoperchiando, a beneficio di una migliore comprensione, quella costruzione di scatole cinesi ed elusivi doppi fondi in cui consiste, oltre a tante altre cose, la poesia del triestino. Densa e diramata come la figura di un arazzo la successiva lettura di Uccelli e di Quasi un racconto di Enrico Tatasciore (L’ornitologo pietoso. Per una lettura di “Uccelli” e di “Quasi un racconto”). Il progetto interpretativo mira a “chiarire, per linee e per scorci, il particolarissimo rapporto che in Uccelli e Quasi un racconto” si istituisce tra il “libro vivo” degli uccelli e l’esistenza soffocata nell’”antro sofferto” del poeta che si approssima alla morte. Un discorso che, oltre all’ovvio rimando a Bacchi della Lega, l’autore del libro che fece scattare in Saba la passione ornitologica, coinvolge Pascoli, Leopardi, Nietzsche, Freud, san Francesco: soggetti di una interlocuzione che ha come suo primo referente gli uccelli, attanti di un “discorso multiprospettico che tocca il dato naturale dell’istinto, la simbologia della purezza e della creaturalità, la significazione allegorica di situazioni psichiche”. In ultima analisi Uccelli (dove l’antropocentrismo ancora resiste, a differenza di Quasi un racconto in cui “Saba è osservato dagli uccelli, […] diventa più propriamente personaggio”), “oltre che un ‘miracolo’ sono una prova, un saggio di vita, un esercizio di pensiero e di visione, in un’epoca in cui lo stesso compiacersi della loro leggerezza appare quasi un peccato”. Delle Scorciatoie si occupa invece Thomas Mazzucco (“Di mio ci ho messo lo stile”. La forma delle “Scorciatoie”), che rivendica a Saba, anche nel confronto con i modelli tipologici dell’aforistica studiati da Werner Helmich, la capacità di elaborare una forma personale e fuori schema: il poeta triestino, conclude Mazzucco, “ha adottato il genere letterario [dell’aforistica] e lo ha modulato a suo modo, seguendo l’etica di una scrittura della necessità che aveva già postulato nel famoso Quello che resta da fare ai poeti e […] in alcuni brani di Storia e cronistoria del Canzoniere, […] ovvero la coesione interna delle singoli parti e la narratività”. Quasi a completamento di quest’ultimo contributo, Veronica Albi (L’epistolario di Umberto Saba come officina di “Scorciatoie”) rintraccia nell’epistolario sabiano, nella sua parte accessibile agli studiosi, “una miniera di spunti in seguito recuperati dall’autore proprio sub specie aforistica”. Messa a fuoco che si dimostra altrettanto propizia dell’altra, che si muove potremmo dire in direzione opposta, ovvero mirata a evidenziare “la sopravvivenza di alcuni nuclei concettuali fortemente radicati nel pensiero di Saba e da lui espressi a mo’ di scorciatoia […] nella comunicazione privata posteriore alla pubblicazione del volume mondadoriano del 1946”. Impegno di Ilara Cavallin invece (Citare per commentare. Autocitazione e citazione in “Storia e cronistoria del Canzoniere”) è di sondare le citazioni e le autocitazioni presenti in Storia e cronistoria, artifici tanto frequenti nel testo da rappresentarne un elemento specifico e costitutivo, in un quadro di scelte retoriche e soluzioni argomentative ampio e sofisticato, e la cui finalità conclusiva è di rivendicare, in forma di auto-encomio, il valore del poeta e della sua opera. Da parte sua Stefano Carrai propone un’elegante esercizio di lettura di Ernesto (“Ernesto” o il ritorno del rimosso) mettendo in evidenza il nucleo centrale del romanzo, che non consiste tanto nell’esperienza omoerotica, quanto piuttosto, sorgente prima di tutte le azioni e i pensieri del protagonista, nell’“assenza psichica della figura paterna”. In questo senso a Ernesto si può quasi riconoscere “il valore di una ripresa della cura psicanalitica” interrotta per la partenza di Weiss per Roma: un’autoanalisi di spietata e affettuosa sincerità che “trascinava con sé più in generale la memoria di un mondo sommerso”, quel “meraviglioso milleottocento” verso cui non cessa di fluire la nostalgia del poeta. Nella carrellata attraverso L’ultimo Saba ho lasciato l’ultima parola a Federica Massia (La poesia di Saba in lingua inglese: analisi comparata di alcune traduzioni “Ulisse”) non perché il suo saggio sia qualitativamente inferiore agli altri (anzi, lo dico una volta per tutte, colpisce nella miscellanea, ed è cosa rara se la confrontiamo ad altre opere analoghe, l’alta professionalità che si evince da tutti i contributi) ma per il suo particolare taglio “traduttologico”. Sul piano generale Massia osserva il doppio ritardo che ha ostacolato la diffusione della poesia di Saba nel mondo anglosassone (ma potremmo dire lo stesso per l’universo francofono ed austro-tedesco): ritardo tanto relativo alla conoscenza della sua opera quanto, più complessivamente, alla traduzione della poesia italiana del Novecento in lingua inglese. Se aggiungiamo a tutto ciò la difficoltà con cui Saba si è imposto all’attenzione nel panorama poetico e, in termini valoriali, nel canone letterario del nostro stesso paese potremmo dunque parlare di un svantaggio elevato alla terza potenza. Ci sarebbe di cui demoralizzare anche un ipocondriaco meno estremo del nostro poeta, che si è sempre lamentato dell’ostilità dei critici e dell’incomprensione dei lettori (“la mia voce”, scrive a Linuccia, riferendosi nella fattispecie all’insuccesso delle Scorciatoie, “non poteva avere una sorta diversa”). Dopo una rapida escussione delle principali antologie (che sembrano mostrare, ed è un fatto emblematico e in fondo comprensibile, una predilezione per le ultime sezioni del Canzoniere, laddove cioè è in opera, da parte di Saba, una sfida appropriativa alla più moderna poesia italiana), Massia dedica la sua attenzione alle traduzioni inglesi di Ulisse, di cui riporta cinque campioni, operando fini confronti sul piano contenutistico e formale. “Rispetto alle versioni degli anni Cinquanta e Sessanta”, riassume, “le traduzioni più recenti dimostrano una chiara preferenza per una lingua più comune, meno connotata in senso letterario”; e se ciò rende giustizia al “colloquialismo” sabiano, tradisce invece il gusto del poeta triestino per gli arcaismi e le costruzioni letterarie (in Ulisse il sostantivo “giovinezza” del primo verso, e l’inversione dell’ultimo: “e della vita il doloroso amore”, improponibile in questa forma in lingua inglese): proprio quelle “due anime della lingua di Saba” che ne spiegano lo straordinario fascino. Chiudo il discorso, sicuro di fare cosa grata ai lettori del Ponte rosso, riportando dal saggio di Massia la traduzione di Ulisse nella versione, datata 2008, di George Hochfield e Leonard Nathan, docente universitario l’uno, poeta l’altro.
Riquadro:
In my youth I sailed
the Dalmatian coast. Tiny islands
rose from the surface of the waves, covered
with algae, slippery, beautiful as emerald in the sun,
where an occasional bird paused searching for prey.
When the high tide and night submerged them,
sails under wind dispersed offshore
to escape their peril. Today my kingdom
is that no man’s land. The port
lights its lamps for others; still driving me on
to the open sea, my unbroken spirit
and the aching love of life.
Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d’onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d’alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l’alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano più al largo, per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore.
Jacopo Galavotti,Antonio Girardi
Arnaldo Soldani (a cura di)
L’ultimo Umberto Saba:
poesie e prose
Società editrice fiorentina, Firenze 2019
- 164, euro 18,00