La storia, che passione!

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Il rogo della Repubblica, romanzo storico di Andrea Molesini, narra di una vicenda di ordinario antisemitismo nella Serenissima, accaduta realmente nel 1480

di Fulvio Senardi

 

È da un po’ che va di moda la storia. Non credo sia merito di Paolo Mieli, ormai in onda, a raccontarci il passato, ininterrottamente e a reti unificate. Si tratta invece di un’esigenza più ambigua e più profonda. Che non risponde al noto aforisma di George Orwell, “chi controlla il passato controlla il futuro”, perché del nostro futuro, almeno quello prossimo, sappiamo già tutto. Sta scritto sulle tavole della legge di un neo-liberismo divenuto senso comune e che, stagione dopo stagione, non fa che spostare decimali nell’assioma del profitto e dello sfruttamento. È piuttosto in opera una manipolazione della storia a fini revisionistici e identitari; qualcuno si è stancato del dogma della Repubblica nata dalla Resistenza, si adopera per smontarne colpo dopo colpo la narrazione, che regge e legittima, cosa non secondaria, l’assetto democratico dello Stato, e sogna un ritorno indietro, a vecchi miti e lontane vergogne, mettendone intanto in opera la scenografia. Non sazia del mausoleo a Graziani e di via Almirante, la fantasia toponomastica di chi si sente erede del Ventennio, vagheggia il giorno fausto in cui qualche Consiglio comunale battezzerà il viale dei giardini con il nome di Benito Mussolini, o almeno di Bottai, il fascista amico della cultura (non tanto degli ebrei, però). In fondo, ha spiegato Bruno Vespa, il Duce fece tante cose buone; e a chi ha tanti meriti, qualche scivolatina (l’instaurazione della dittatura negli incendi e nel sangue, le leggi razziali, la guerra al fianco del nazismo) si può ben perdonare, no?

Quel che resta della sinistra abbozza; ha preso per buoni, come principi di strategia politica, gli insegnamenti del Vangelo, e porge l’altra guancia. Presto dovrà porgere il collo. Gli storici, quelli seri, non si stancano di controbattere, ma l’infosfera del popolo d’Europa meno amante dei libri è satura di troppi veleni, e non basta qualche pagina a fare da antidoto. La contagiosa passione trabocca anche in letteratura; pare di essere ritornati a due secoli fa quando, nei decenni che precedettero la Primavera dei popoli, la borghesia italiana educò il suo patriottismo sulle pagine di Manzoni, Tommaseo, Guerrazzi, D’Azeglio, Grossi, Capranica, cultori tutti, anche se non in modo esclusivo, di quell’ircocervo che era il romanzo, il genere moderno per eccellenza, con la sua umanità comune, il suo sentimentalismo senza pudori, la sua prosa, modellata, spesso, sull’italiano delle classi colte (esigua minoranza, a quei tempi). E così, nuovamente, nutre di romanzi il suo modesto appetito l’Italia che legge del terzo Millennio; mentre gli intellettuali più agguerriti distolgono infastiditi gli occhi, disgustati dall’“idioletto planetario, indefinitamente traducibile e deducibile, dall’informazione” (Giorgio Ficara), la scrittura-merce della merce libro. Al paradigma romanzesco, nella sua declinazione “storica”, guardano anche i sostenitori di una nuova forma “epica”, “new” e per giunta “italian” (Wu Ming, New italian epic); si loda il ritorno dell’etica, «un forte senso di responsabilità da parte di narratori stanchi di “passioni tristi” e/o giochetti post-moderni», cosa che fa pensare, aggiunge il prefatore di New italian epic, «che stia accadendo qualcosa di importante»; aggiungendo, qualche pagina dopo, che «molti di questi libri sono o sembrano romanzi storici»: «l’Italia, il paese ricco di storia e di storie, è stata terreno fertile per questa forma di narrazione, sviluppando una tradizione a cui il New italian epic rende omaggio». Nessun ritorno a Manzoni, comunque; stiano dunque sereni gli eredi delle Avanguardie alle quali, come si sa, don Lisander non piaceva affatto. Il nuovo romanzo storico cui guardano con simpatia gli “epici” Wu Ming prevede l’ originalità del punto di vista (preferibilmente una soggettività dimenticata, trascurata oppure oppressa), la complessità intesa come rimando a un reale esso stesso complesso e frammentato (e non il citazionismo parodico del post-moderno), un allegorismo aperto e sempre ricodificabile.

Siamo dunque ben oltre la letteratura post-modernista; forse nell’ipermodernità o semplicemente nel modernismo? (francamente non saprei dire, si chieda a Luperini o a Donnarumma, due sapienti che si trastullano con queste cose, in odio ad Ockham ed ai rasoi). A leggerli poi, i romanzi storici dell’officina NIE, si ricava la sensazione – penso per esempio a Manituana (2007) – che, pur fedeli ai pimenti più consueti del genere, la scelta del tema derivi appunto dall’esigenza “morale” di mettere a fuoco qualche snodo cruciale dell’era moderna, in questo caso il genocidio degli indiani d’America e il colonialismo, nello spirito appunto di quell’allegorismo di cui si è detto.

Una strada diversa, insomma, da quella incoronata di successo del premio Strega del 2019, ovvero M. – Il figlio del secolo. Lì il “misto” di storia ed invenzione si esercita su un personaggio noto, anzi notissimo, con una resa narrativa alla quale ho già dedicato qualche osservazione sul Ponte rosso n. 61, dell’ottobre 2020. Ribadisco che prendere la “pelle” di un uomo famoso, in questo caso un grande criminale della scena storica, per riempirla, che più zeppo non si può, di parole e di pensieri pur probabili e verosimili, fa un po’ l’effetto di quel Loreto impagliato nel salotto in cui irrompe nonna Speranza (as a young girl) con l’amica Carlotta nella poesia di Gozzano. L’approccio consigliato da Lukács impareggiabile studioso del romanzo storico mi sembra assolutamente preferibile. Un personaggio mediano, l’Ivanhoe di turno, introduce meglio al contesto di fatti e di idee che costituisce la storia: i Grandi vengono visti solo da lontano mentre il personaggio-sonda attraversa la propria epoca facendone emergere caratteri e  contraddizioni.

In questo senso un esempio di un approccio narrativo di impronta non-scuratiana alla tematica storica, mi pare ottimamente rappresentato da Il rogo della Repubblica di Andrea Molesini. La vicenda si svolge nei domini della Repubblica veneta nell’anno del Signore 1480 e si richiama, come il lettore scoprirà nella breve appendice che completa il libro, a fatti realmente accaduti, rievocati dalla ricerca storica con «impeccabile acribia». Un capitolo dell’eterna discriminazione e persecuzione subita dagli ebrei in terra cristiana, da quando ha trionfato la religione della croce; nella fattispecie un processo per omicidio rituale, che dà sostanza giuridica a una diffusa credenza – ovvero che i giudei impastassero il loro pane col sangue di fanciulli cristiani, in spregio e per vendetta contro la fede di Cristo – tanto presente nel basso Medioevo da trovare una supposta conferma in un famoso “caso” criminale, conclusosi con la condanna a Trento, nel 1475, dei quindici ebrei presenti in città e con la beatificazione (1588) di Simonino, l’infante trucidato, così la sentenza, per mano giudea (bisognerà poi attendere il 1965 perché la Chiesa decida di cancellare il culto del beato Simonino, con tutte le ritualità ad esso collegate). In questo caso l’accusa è portata da una città intera, il borgo di Portobuffolé, sul fiume Livenza, a una ventina di chilometri da Conegliano, ai tempi della Serenissima importante centro amministrativo e commerciale. La responsabilità del delitto, in una comunità messa in fibrillazione dalle infuocate prediche anti-giudaiche di Fra’ Bernardino da Feltre, il religioso cui si deve l’istituzione dei Monti di Pietà per contrastare la pratica dell’usura, viene confermata non solo da numerosi testimoni, ma anche dagli accusati stessi, che dopo ripetute sessioni di tortura confessano l’omicidio. Le autorità di Venezia, cui Portobuffolé appartiene dalla metà del Trecento, e a cui gli ebrei hanno fatto appello ritrattando la confessione, vuole vederci più chiaro e incarica di un’indagine informale Boris di Candia, un agente segreto diremmo oggi, agli ordini della Repubblica, oltre che protagonista e narratore del libro di cui parliamo: «Boris è il mio nome. Vivo d’inganno e di rapina. Scaltro, ricco, temuto, sono nato dall’altra parte del mare, a Candia, da madre bulgara. A tratti un lupo ringhia nel mio sangue». Non manca di fascino il personaggio inventato da Molesini: Boris è uomo d’azione, ma anche di cultura, ama e frequenta i classici, come del resto la buona tavola e le donne, è scettico di fronte alle credenze diffuse e diffidente verso il potere, che pure ha deciso di servire, mascherando con una sorta di “dissimulazione onesta” (che a tratti pericolosamente si incrina) il suo più schietto sentire. Comprenderà la dirittura d’animo degli ebrei ingiustamente accusati, e di uno in particolare, al quale lo avvicina un crescente sentimento di stima; d’altra parte capisce che la Repubblica non può che confermare la condanna emessa a Buffolé, oro colato per i notabili e gli abitanti del borgo liventino, perché cassarla porterebbe a conseguenze imprevedibili sul piano giuridico e dell’ordine pubblico. La falsità, la doppiezza e l’ipocrisia, strumenti necessari per l’esercizio del potere, finiscono così per apparirgli il lato oscuro e inevitabile dell’uomo in quanto animale sociale, un essere che accetta l’inganno di considerare coincidenti la forza ed il diritto: «da quando Adamo ed Eva, con il loro gesto arrogante, ci hanno consegnato alla macina della storia, non riuscendo a fare forte il giusto, noi mortali diciamo giusto il forte». Una dura lezione cui Boris reagisce facendo propria l’antica saggezza epicurea, che scivola dentro il romanzo nella forma dell’oraziano «Tu ne quaesieris […]», con cui si apre il capitolo del Commiato. Ripiegando nel “privato” Boris è consapevole della necessità di «adattarsi al viscido assalto del quotidiano», ma qualcosa si è spento dentro di lui, nell’abrasivo contatto con la virtù perseguitata; tanto l’illusione di un bene che possa indirizzare la società tutta, quanto il miraggio di una felicità a portata dell’individuo nonostante l’imperversare del male intorno a lui. Inizia infatti a sorgere anche nella sua coscienza di uomo disincantato l’amara certezza che ogni diga eretta nell’intimo è destinata a franare, perché, così Solone chiamato a darci in sintesi il sugo della storia: «il male pubblico giunge alla casa di ognuno».

Ecco dunque il piccolo “eroe” di questo libro finire intrappolato in un vicolo cieco etico e psicologico di sapore tragico: non c’è redenzione per la società condannata al male, ma nemmeno per il singolo, ancorché, protettivamente, metta in opera tutti i “farmakoi” consigliati dalla filosofia post-classica. Chi conosce le regole del gioco non può che imboccare la strada della disillusione e della rinuncia. E non manca di fascino nemmeno l’universo veneziano modellato da Molesini, che è guidato da una solida cultura e dall’affetto per la sua città, e che contempera, sull’orizzonte di una ricostruzione storicamente plausibile del mondo tardo-quattrocentesco, la seduzione dell’avventuroso con il gusto dello scavo psicologico che semina tracce di letture e riflessioni non banali, e con la cura, puntigliosa ma non pedantesca, dei registri espressivi: la scrittura, pur nello svariare dei toni, è sempre fluida ed elegante, comunicativa ma ricca di colore e sfumature. Coinvolgente, quanto alla materia, riposante, quanto ai velluti dello stile.

Chi poi avesse il piacere di leggere più a fondo e probabilmente, ma è d’obbligo la clausola dubitativa, secondo l’intenzione dell’autore (e siamo all’“allegorismo” propugnato dalla NIE), troverebbe nella storia di Servadio, il giusto sacrificato al fanatismo delle masse e all’opportunismo della classe dirigente, cui sta a cuore il potere e non l’elevazione civile, morale ed il benessere dei propri sudditi, più che qualche allusione alla realtà di oggi, nella quale – sullo sfondo di un’“infosfera” inquinata da interessi e menzogne, e modellata da un potere “morbido” ma capillare, abilissimo nell’orchestrare l’ingegneria del consenso – sperimentiamo la deriva demagogica di una democrazia scarsa di contenuti valoriali e amministrata da élite politiche indegne di tal nome: «succede che gli uomini, facendo e dicendo quello che sembra buono ai vicini, a poco a poco si convincano di essere nel giusto, l’animo del gregge è sempre assetato di conforto e rassicurazione».

Forte dunque la tentazione di sfumare il volto di Boris su quello dello scrittore al quale deve la nascita, leggendovi il disincanto collettivo di chi ha ormai assistito a troppi “roghi della Repubblica” durante gli scarsi 80 anni di ritrovata democrazia. Prima la tolleranza verso gli ex-fascisti, spesso mantenuti nelle posizioni chiave all’interno della macchina del nuovo stato repubblicano, poi le lentezze e le contraddizioni di una democratizzazione quasi controvoglia, per la resistenza delle élite, quindi una industrializzazione selvaggia, che ha spostato al nord, quasi come deportati in terra ostile, milioni di meridionali; poi, la strategia della tensione per bloccare, a colpi di bombe, l’avanzata del progresso civile; quindi, con l’opulenza, la corruzione, culminata con l’ascesa del Cavaliere, che «libito fe’ licito in sua legge», abbassando così tanto l’asticella della morale pubblica che oggi, tanti cittadini e molti eletti, scambiano per diritto il privilegio; infine l’invenzione tutta italiana di una nuova figura istituzionale particolare e specifica, il “banchiere della provvidenza”, espressione dei signori del capitale, in barba al popolo-elettore, ogniqualvolta ci sia il rischio di veder ridotta l’entità dei profitti. E il futuro? Forse meglio volgere sguardo e pensieri altrove e rassegnarsi ad alzare i remi, come Boris, per un piccolo, inutile omaggio, dalla barca alla fonda di fronte alla Piazzetta, all’innocenza che brucia nel rogo: «le fiamme del rogo si alzano nel buio del cielo che cancella il mondo alla vista. Il rumore del fuoco tutto sovrasta».

 

Andrea Molesini

Il rogo della Repubblica

Sellerio, Palermo 2021

  1. 344, euro 15,00