I caduti dimenticati delle vecchie province

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Trento e Trieste nel centenario dalla fine della Grande Guerra

di Marina Silvestri

 

L’11 novembre 1918 alle ore 11 e 11 minuti dell’undicesimo mese dell’anno, venne firmato tra la Germania e le potenze Alleate l’armistizio che pose fine alla Prima guerra mondiale a Compiègne. Qualche giorno prima, il 4 novembre, a Villa Giusti era stato siglato l’armistizio fra l’Impero austroungarico e il Regno l’Italia. La guerra vide contrapposti gli Imperi Centrali e i rispettivi alleati, coinvolse 28 Paesi, si combatté sui mari, nelle colonie e su cinque fronti: quello occidentale lungo la Marna e la Somme, quello orientale russo, il meridionale al confine con la Serbia, quello greco, e quello lungo il crinale delle Alpi orientali, in Carnia e sul Carso. In molte delle nazioni che allora presero parte al conflitto l’11 di novembre è considerato festa nazionale e si onorano i Caduti. In Italia, il 4 novembre già festa della Vittoria è divenuto Giorno dell’unità nazionale e delle Forze Armate. Quattro anni di guerra 65milioni di uomini mobilitati, sul terreno rimasero 8 milioni e mezzo di morti, 20 milioni di feriti, 7 milioni e mezzo fra prigionieri e dispersi. I morti fra i combattenti italiani furono 680 mila. Questi i grandi numeri della Grande Storia che ha lasciato nell’ombra, se non volutamente oscurato per ragioni politiche e ideologiche le storie locali e l’incidenza che la Prima guerra ebbe per le società di terre che erano state sovranazionali, minandone l’identità secolare, come Trieste, Gorizia, i territori dell’ex Litorale austriaco e il Trentino: le Vecchie Province. Studiate e celebrate sono state le vicende dei volontari giuliani e trentini che avevano passato il fronte per combattere con il Regio esercito, il loro valore e la memoria delle battaglie che videro impegnati i soldati italiani. La retorica nazionale se n’è appropriata, mentre la pietas è mancata nei confronti di fanti e marinai nelle fila dell’esercito asburgico, l’armata dei ‘vinti’. La loro memoria è rimasta un fatto privato, nel chiuso delle famiglie. Oggi a cent’anni di distanza le iniziative non mancano, ma, se la Provincia autonoma di Trento ha istituito per legge una giornata del ricordo, in Friuli Venezia Giulia, l’obiettivo di ricordare coloro che sono morti ‘dalla parte sbagliata’ con studi storici e momenti pubblici che portino ad una consapevolezza civile è ancora lontano da raggiungere.

I militari austroungarici provenienti dal Trentino, 60mila unità, vennero inquadrati in quattro reggimenti Kaiserjäger, tre reggimenti di montagna Landesschützen e due reggimenti di milizia territoriale, i Tiroler Landstürmer. Combatterono sul fronte russo subendo gravi perdite: 12 mila caduti, 15mila fatti prigionieri dei Russi impiegati come forza lavoro. Travagliate furono le vicende della popolazione dopo l’entrata in guerra dell’Italia, evacuate dalla linea del fronte e trasferite nei campi di internamento, le cosiddette città di legno, in Austria, Boemia e Moravia o dispersi in numerose località italiane dalle Prefetture del Regno. Stessa sorte toccò agli abitanti del Litorale sospettati di sentimenti italiani e ai regnicoli. Wagna è uno dei campi rimasti nella memoria. Dal Litorale Austriaco partirono più di 50mila uomini, triestini, friulani, sloveni, istriani, croati. Furono inquadrati nel 97° Reggimento, nel V Reggimento di Fanteria Landwehr, nella Marina da Guerra, in Artiglieria da campagna e da fortezza oltre che in ogni tipo di servizio dalla sanità ai trasporti. Nella battaglia davanti a Leopoli in Galizia il 97° perse il 75% degli effettivi e dovette essere ricostituito. Le leve successive inclusero gli uomini dai 18 ai 49 anni. Il numero dei caduti, non ancora definitivo, è prossimo alle 11 mila unità. Fino agli anni Novanta non esistevano ricerche in merito.

Il cinquantesimo anniversario era coinciso con il ’68, l’anno della contestazione studentesca. Dominava il mondo la contrapposizione fra Usa e Urss, fra capitalismo e comunismo, incombeva il pericolo atomico, mentre il conflitto del Vietnam mobilitava le piazze pacifiste. Commemorazioni si svolsero in tutta Italia e culminarono con la visita a Trento e a Trieste del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. È interessante sfogliare le edizioni speciali di domenica 3 novembre 1968 dei quotidiani Il Piccolo e L’Adige. Maggiormente celebrativo Il Piccolo con titoli quali: Fondamenti storici e ideali della nostra unità nazionale, Una felice coincidenza di spiritualità e di eventi favorì la resurrezione dell’Italia, o Dal Piave a Vittorio Veneto, mentre l’Adige guarda più agli uomini che agli eroi: accanto a titoli come Folla emozionata e bandiere accolgono le truppe italiane troviamo un pezzo intitolato Faccia a faccia in un casolare isolato si divisero fraternamente la polenta e un altro su La deputazione trentina al Parlamento austriaco durante la guerra. Due storie parallele quelle di Trento e di Trieste che a cent’anni di distanza affrontano diversamente l’anniversario.

Per il 4 novembre è atteso a Trieste il Presidente della Repubblica, mentre ci saranno incontri dedicati ai soldati che vestirono la divisa asburgica a partire da ottobre; anche nell’Isontino si terranno numerose manifestazioni, la principale sempre a Redipuglia, organizzata per il giorno 11 novembre dalla Pro Loco – Sentieri di Pace: qui ragazzi di tutte le nazionalità dei Paesi belligeranti formeranno un catena umana dal Sacrario al Cimitero austroungarico. In Trentino invece il centenario ha portato a una legge, proposta dal consigliere Lorenzo Baratter, autonomista, ma condivisa da tutte le forze politiche (la legge provinciale n.11, 22.9.2017, Interventi per valorizzare la memoria del popolo trentino durante la Prima Guerra mondiale) che istituisce la Giornata del ricordo dei caduti e delle vittime il 14 ottobre, giorno dello scontro più duro con l’esercito zarista in Galizia lungo il fiume San. Un mausoleo in costruzione porterà scritti i nomi dei caduti trentini con la divisa austroungarica accanto a quelli del regio esercito italiano e ci saranno due manifestazioni pubbliche, una al Museo della Guerra di Rovereto e l’altra nella stazione ferroviaria di Trento. Contribuirà all’organizzazione il Circolo Gaismayr, nato nel 1994 per studiare le radici storiche e culturali e la specificità dell’autonomia trentina, che promuove da anni il 3 di novembre una marcia di carattere unicamente civile. Nel 2006, su proposta del Circolo, e votata dal consiglio comunale, è stata apposta sul Comune una Lapide in memoria dei mille caduti della città di Trento che vestirono la divisa asburgica. “Il ricordo si era conservato anche in virtù di una tragedia ulteriore, quella dei profughi della prima linea dell’allora Tirolo meridionale “ – spiega il professor Alberto Sommadossi presidente del Circolo Gaismayr – “nel ’15 le popolazioni furono spostate all’interno della monarchia. C’è un ricordo civile, congiuntamente al ricordo dei caduti, l’esodo, il rientro nei paesi abbandonati, il bestiame perso, si è dovuto ripartire da zero”. “I miei nonni che avevano combattuto con l’esercito austroungarico” – racconta il giornalista Massimo Baldi, del direttivo del Gaismayr, autore del libro Trentini d’Austria – “un prozio è morto sul fronte orientale, ma queste vicende sono state tenute nascoste. Quando ero piccolo volevo capire cosa faceva un soldato in guerra. E ricordo che mio nonno diceva semplicemente “la guerra è brutta” e quando gli ho chiesto “ma tu hai ucciso qualcuno?” la sua risposta è stata “bisognava sparare e io non guardavo dove sparavo”. Diciamo che c’è sempre stato un silenzio assoluto su questa esperienza perché non c’era il clima giusto per parlare di queste cose. I reduci avevano tutti la stessa caratteristica, rimuovere un’esperienza drammatica. E poi c’era vergogna e paura di essere trattati da cittadini poco animati da spirito nazionale, c’era il rischio di antipatriottismo nei confronti della nuova patria”. Sotto il fascismo tutti i Comuni che volevano ricordare i caduti dovevano adottare un testo standard in cui si parlava di ‘vittime della barbarie austriaca’ ed era approvato da un’apposita commissione e le cerimonie erano affidate agli alpini. “Sebbene con il fascismo il ricordo ufficiale fosse proibito, i monumenti erano permessi solo all’interno dei cimiteri, il ricordo è rimasto vivo nelle famiglie – spiega Sommadossi. Qualche anno fa come Circolo abbiamo raccolto questi cippi, un’iniziativa chiamata Le pietre dell’odio. Dopo i nostri interventi si è iniziato nei vari comuni a proporre che accanto ad ogni stele sia messo un cartello esplicativo che spieghi il contesto. Alcuni lo hanno già fatto, ma il lavoro è lungo e prosegue”. Cinquant’anni fa, a novembre del ’68 le cerimonie vennero contestate, ma solo negli anni Novanta è iniziata la presa di coscienza del passato asburgico. “Sì nel 68 c’era stata una durissima contestazione degli studenti di Sociologia – racconta Baldi – una studentessa aveva impedito alla macchina di Saragat di proseguire e ne erano nati dei tafferugli con le forze dell’ordine e gli alpini in congedo, ma la contestazione era ascrivibile al clima pacifista di quegli anni”. “È stato un periodo di grandissimo stravolgimento e ciò nonostante, trasversalmente – aggiunge Sommadossi la percezione di una storia e di un’ identità complessa e diversa, plurilingue, appartenente al mondo mitteleuropeo, non è mai stata messa in crisi, anzi, certa parte del Sessantotto l’ha anche recuperata”. “La coscienza di un’identità diversa si è liberata intorno agli anni Novanta. Buona parte del risveglio è dovuto all’emergere in campo politico di forze poco disposte alle autonomie speciali – afferma Baldi – e di conseguenza si è riflettuto sulle ragioni dell’autonomia che è una conquista secolare non una concessione dello Stato. Singoli cittadini sono andati negli archivi e grazie a questi storici di paese, che non sono né dilettanti, né improvvisati, il Trentino ha appreso di avere una storia diversa da quella che viene raccontata a scuola. Mentre gli storici professionisti hanno lavorato al Landesarkiv di Innsbruk, al Kriegsarkiv di Vienna e parallelamente all’Università, al Museo della Guerra di Rovereto, al Museo storico del Trentino.” “Negli anni Settanta era nata una rete di biblioteche in tutti i Comuni del Trentino, che è ancor oggi un eccellenza, – puntualizza Sommadossi – e ciò ha permesso ad appassionati locali di trovare un terreno di incontro, e anche un supporto tecnico da parte di personale qualificato. È cresciuta così una leva di storici locali e appassionati che hanno prodotto una messe di nuovi lavori che hanno portato ad un confronto non sempre agevole, non sempre pacato con l’accademia, ma il combinato disposto di questi due filoni dà buoni frutti. Il confronto porta a maggiore chiarezza, arricchisce qualitativamente la ricerca”.

“La sensibilità non manca a Trieste” dice Roberto Todero, autore di libri fra i quali Dalla Galizia all’Isonzo e I fanti del Litorale, collezionista, presidente dell’Associazione Culturale Zenobi di Trieste, promotrice assieme ad altre associazioni di un monumento inaugurato nel 2014 nella stazione ferroviaria, accanto al binario dal quale partirono i soldati per lontani campi di battaglia”, non ancora segnalato sulle guide, come poco visibile è la lapide apposta dall’Associazione Mitteleuropa nel 1996 sugli spalti del Castello di San Giusto. “Il Piccolo ha pubblicato fra novembre del 2012 e l’inverno del 2013 – dice Todero – una serie di articoli a cura di Livio Missio e Paolo Rumiz, con lettere, fotografie, testimonianze, poi di punto in bianco l’iniziativa si è interrotta. Alcuni storici e ricercatori stanno lavorando da anni, purtroppo senza il supporto delle istituzioni. Marina Rossi, Giorgio Milocco, Bruno Scaramuzza, Giovanni Battista Panzera, Lucio Fabi e lo scomparso Sergio Ranchi oltre al sottoscritto. Sono stati ricostruiti alcuni episodi attraverso diari, lettere, elenchi, alcuni trovati negli archivi, altri venuti alla luce grazie ai discendenti desiderosi di comprendere quale era stata l’esperienza dei propri congiunti al fronte. Eventi difficilmente ricostruibili attraverso le relazioni ufficiali austriache, ungheresi e italiane. Un documento ricco di informazioni si è rivelato il discorso tenuto negli anni Trenta da un ex ufficiale del 97° Reggimento del Krain e del Litorale, il capitano Alois Radeglia negli anni Trenta, in cui l’ufficiale afferma, parole testuali, che “non esistono documenti né del Reggimento al campo, né del battaglione della Riserva, tranne un breve documento contenente il rapporto su alcuni combattimenti del 1914 e dell’inizio del 1915. Non mi rimane quindi – dice – altra possibilità se non quella di cercare e trascrivere i documenti riguardanti il Reggimento da quelli dei Corpi, Brigate e Divisioni dove esso fu presente”. Todero ha rintracciato nell’Archivio di Vienna un documento da cui risulta che al Reggimento furono concesse medaglie al valor militare e croci al merito, mentre l’immagine popolare è legata alla canzone conosciuta come ‘demoghela’, all’ambivalenza fra ‘battiamocela’ o ‘diamogliele’. “Una storia drammatica quella del 97° – conferma Todero – chi fece ritornò a Trieste subì l’insulto della prigione da parte del Regno. Sul Reggimento dei triestini, pesava la fama di inaffidabilità anche prima dello scoppio della guerra, tanto è vero che i suoi battaglioni erano stati dislocati nelle lontane Bjelovar e Karlovac; nell’autunno del ’14 ben 615 soldati, secondo Radeglia vennero destinati a lavori di complemento; una chiave di lettura potrebbe essere quella dello storico Lawrence Sondhaus, secondo il quale i cittadini sono più propensi a discutere gli ordini e a non obbedire a ufficiali che non godano la loro fiducia”.

Nei locali dell’Associazione Zenobi di Bagnoli della Rosandra/Boljunec, a conclusione della mostra “Uno sguardo sul Litorale”, Todero coordinerà un convegno internazionale di studi presenti relatori di Austria, Slovenia e Italia. A ottobre sarà presentato il film documentario Maledetta sia la sveglia: viaggio in Galizia, produzione Cassiopea/BisiacFilm con il sostegno di Zenobi, mentre il Circolo della Stampa ha in calendario la proiezione del film I boschi sono ancora verdi del regista sloveno Marko Naberšnik, e una serie di presentazioni di libri fra i quali Cento anni di grande guerra di Quinto Antonelli, Tra due divise di Andrea Di Michele e Fiume di Raul Pupo.

La maggior parte dei caduti austroungarici giace in lontani cimiteri o in ossari comuni, spesso sotto croci ormai anonime. La memoria è affidata ai nomi che anche a Trieste e nei territori dell’ex Litorale sono stati raccolti e desunti, da giornali, liste di caduti, parrocchie e collaborazioni diverse. Un lavoro fatto in prima persona da volontari e ricercatori storici. Alessandro Sgambati presidente del Club Touristi Triestini ne farà oggetto di una lettura pubblica il 10 di novembre a Trieste in piazza Verdi. All’iniziativa aderiscono oltre ai Circoli della Stampa, Maria Theresia e Grad, l’Unione dei Circoli culturali sloveni ZSKD, le Associazioni Italia-Austria, Italo-Rumena, Isonzo fiume d’Europa/Soča evropska reka, e l’associazione archeologica Natiso cum Turro, la Comunità Croata di Trieste, la Burton Society, la Fameia Mujesana, le Società “Austria” di Cormons e la Società Histria, l’Istituto Mitteleuropeo di Storia e Cultura J.Pangerc. Parteciperanno bande e cori.

La cancellazione della memoria non riguarda solo l’Italia. “Sono evidenti le ragioni dell’Italia fascista – spiega Todero – ma anche l’Austria repubblicana non si è mai fatta carico dell’eredità storica dell’Impero. La grande armata del Paese sovranazionale è finita nell’oblio. I nuovi stati nazionali nati dalla dissoluzione della Mitteleuropa non hanno avuto alcun interesse a scriverne la storia; anzi venne creata una nuova storiografia, imperniata sull’irredentismo, i comitati all’estero, ecc. Nuovi miti da celebrare. Per ragioni diverse uno stesso processo di cancellazione si ebbe nella Jugoslavia, nella Russia comunista e nella Germania hitleriana. Il nostro era un territorio complesso nel quale si incrociavano come lingue autoctone l’italiano, lo sloveno ed il croato senza dimenticare le commistioni tra slavo e tedesco nella parte più settentrionale che solo un paese sovrannazionale è riuscito a gestire e controllare, almeno fino ad un certo punto. Le guerre del ‘900 hanno esasperato i nazionalismi, e ancor oggi, il problema etnico è per il Friuli Venezia Giulia un problema parzialmente irrisolto”.

Intraprendere degli studi comparati su questa pagina di storia sarebbe un doveroso atto di riconciliazione della città con le proprie radici.