La città di Corrado Premuda
Gianni Cimador | Il Ponte rosso N° 71 | luglio-agosto 2021 | narrativa
Trieste senza bora è la nostra metà
di Gianni Cimador
La città di Trieste senza bora di Corrado Premuda (Watson Edizioni, 2021) è distante da luoghi comuni e stereotipi: nei tre racconti del libro, il primo della collana “Luci”, i protagonisti, tutti artisti che si trovano in un momento delicato della loro vita, si confrontano con un non luogo che sembra metterli di fronte a nodi irrisolti, destini mancati, fantasmi che riaffiorano dal Passato.
Se la città di Diego Marani è “celeste”, quella di Premuda è grigia, opprimente, provinciale e infelice. Non c’è più neppure il vento a darle un tono, o, se c’è, è altrove, a Parigi, registrato, irreale: è una città che ci fa pensare alla Trieste di Renzo Rosso, soprattutto quello di La dura spina, dove c’è tanto vento, ma anche, come nei racconti di Premuda, un artista perseguitato dai suoi fantasmi, da ciò che la sua vita avrebbe potuto essere e non è stata, da un’inquietudine che si materializza nei luoghi di questo mondo fuori dalla Storia, vischiosa, palpabile.
Questa inquietudine diventa destino e si ripete soprattutto in chi non ha ancora trovato la quadratura di sé stesso e forse non la troverà mai.
«È come se ogni tanto il vento si esaurisse e in quei momenti anche noi ci esauriamo con lui»: i tre artisti sperano tutti, in fondo, che la Bora ritorni e possa dare uno scossone a un meccanismo inceppato, a un’aria ferma e opaca, che ripulisca polvere e ossessioni da cui non è facile liberarsi, che renda possibile, di nuovo, respirare.
Si va a Trieste, fisicamente o mentalmente, per ritrovare sé stessi, ma ci si scopre altri, spaesati, senza senso, ci si sente codardi: come i reduci del secondo racconto, il più ‘letterario’, in una città piena di nebbia, irriconoscibile.
La protagonista di Il sesto rigo è una cantante pop che avrebbe voluto diventare una grande pianista: nella città in cui torna dopo molti anni, ogni cosa, ogni luogo, ogni persona la mettono di fronte alla fine delle illusioni, al terrore degli anni che passano e non portano da nessuna parte. Trieste rappresenta per la musicista una pausa dalla realtà e dalla malattia che la affligge: «Immagini e rumori sono assemblati confusamente. Manca una logica. E io mi sento bene».
In realtà, il senso che noi vogliamo a tutti i costi dare alle cose, non c’è: il Presente è l’unica dimensione in cui valga la pena vivere. Un Presente ovattato, anestetico che sospende la sofferenza e le ferite lasciate dai rapporti familiari e da una madre assente. Sospende la sofferenza, non la elimina. È un tempo ambiguo, bifronte, come tutta la città, «un labirinto lineare di simboli in cui si può andare in cerca di ciò che più si desidera oppure si può vagare indisturbati fino a smarrirsi». Una città caleidoscopio che riflette gli umori di coloro che in essa si specchiano, e che «quando è senza vento permette agli artisti di ritrovare sé stessi»: ritrovarsi dopo essersi persi, dopo aver capito che, per rinascere e liberarsi dai fantasmi, è meglio andarsene, tagliare il cordone ombelicale.
Il vecchio drammaturgo polacco del racconto I reduci è a Trieste per realizzare un progetto teatrale sui reduci delle due guerre mondiali. Tutti si aspettano grandi cose da lui, ma il Maestro li delude, perché quello che cerca è la sua anima, nella quale però finirà per perdersi: l’insolita nebbia che grava sulla città lo inghiotte e, quando arriva finalmente la Bora, è troppo tardi, l’opera non si può più fare.
I reduci è un racconto quasi ‘felliniano’, per certi versi onirico e metatestuale come Otto e mezzo: il processo della creazione artistica è una lotta con sé stessi, è «Quel mistero che allestiamo sforzandoci di guardare più in là, dall’altra parte, nel mondo delle ombre. L’obiettivo è fabbricare un’opera illusoria, dal potere immenso. […] Qualcosa che parli della verità evitando di essere reale». Una macchina che, forse, è Trieste stessa: una costruzione illusoria che però genera storie e cresce continuamente, nella mente più che nella realtà.
In questo caso, è l’incontro con il fantasma del padre a siglare una cesura, un cortocircuito, in uno spazio inanimato e indecifrabile dove si continua a respirare il clima della Guerra Fredda, che però è stimolante, perché «La distruzione è più vicina, rispetto alla costruzione, a quella che lui considera la verità. La guerra distrugge la realtà a tal punto da costringere l’uomo a cercarne un’altra, altrove». E quindi anche il fallimento dell’opera può aprire nuove prospettive, come essere andati a fondo di sé stessi, essersi messi completamente in discussione.
Nel terzo racconto siamo a Parigi, ma i fantasmi di Trieste perseguitano la protagonista anche lontano dalla città: questa volta riguardano un giovane affascinante, simile a un soggetto dei suoi quadri, che si presenta a casa della pittrice e sostiene di essere suo figlio, anche se lei non ha mai pensato alla maternità.
Pur lontana, Trieste costringe a fare i conti con sé stessi in modo impietoso e, nello stesso tempo, si rivela per quello che è: irrisolta, «sempre accerchiata da minacce inopinate sul punto di scoppiare», finita, putrefatta. Una città dove ormai dominano i colombi rapacissimi e ubiqui, e dove il vento è soltanto qualcosa di simbolico, di letterario.
Al di là delle rappresentazioni letterarie, di tutti i discorsi che si fanno sulla città, Trieste delude, non corrisponde alle aspettative che crea, non ha una vera e propria anima, è indefinita, vive nell’immaginazione più che nella realtà.
Anche in Premuda, come in molti altri scrittori triestini, questa carenza di identità, in cui si risolvono una varietà e una diversità ‘eccessive’ che non si possono mai sintetizzare, determina una fissazione sui luoghi, sulla loro icasticità, sul loro mistero: l’autore ricorda Stelio Mattioni e un certo realismo magico che trasfigura gli spazi, proiettando in essi il mondo interiore e la ricerca del senso dell’esistenza.
Nello stesso tempo, Premuda ci invita ad andare oltre le apparenze, a mettere in discussione i luoghi comuni e a guardare in faccia la realtà: cos’è davvero Trieste? Esiste davvero? È la nostra metà oscura che non accettiamo e che vogliamo rimuovere, quella con cui dovremmo fare finalmente i conti per vivere una vita più autentica?
Anche se irrisolta, condannata alla decadenza, moribonda, ‘intransitiva’, Trieste resta comunque un personaggio e la sua forza sta proprio nella sua evanescenza, nel suo lento e interminabile morire che sprigiona storie e materializza fantasmi: proprio come il Porto Vecchio nel secondo racconto. La distruzione quindi potrebbe essere più vicina alla verità rispetto alla costruzione, perché ci costringe a cercare un’altra realtà, altrove.
Corrado Premuda
Trieste senza bora
Watson Edizioni, Roma 2021
- 118, euro 15,00