La battaglia del grande postumo

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La battaglia di Templenizza, romanzo postumo di Stelio Mattioni

di Gabriella Ziani

 

è come se fosse ancora qui, col viso ossuto e i grandi occhiali, il sorriso scarno, la battuta freddina, una dolcezza malinconica che in punta di penna diventava anche brusca, come nel ritratto che fece di colleghi, artisti, personaggi del piccolo grande mondo triestino. Medaglioni di glaciale e sarcastica essenzialità, che non pubblicò personalmente, ma uscirono postumi (Interni con figure, Eut, 2011). Non solo quelli: per Stelio Mattioni si può ormai coniare la targa di Grande Postumo. Morto a 76 anni nel 1997, l’autore di Palla avvelenata, Il re ne comanda una, Il richiamo di Alma, dal 2002 – e cioè da ben 18 anni – continua a sfornare libri grazie alle cure affettuose della famiglia, e principalmente della figlia Chiara che firma anche note e biografie a corredo. Abbiamo così avuto, in quest’arco di anni, Tululù (Adelphi, 2002), un ritratto di donna mite che si lascia beatamente sfruttare e ingannare, Il testimone (Il ramo d’oro, 2003), Memorie di un fumatore (Mgs, 2009), cronaca della vita scandita dalle marche di tabacco sperimentate in pace e in guerra, Dolodi (Zandonai, 2010), che porta l’inquietudine in Carso a ridosso del confine, e appunto Interni con figure, e poi ancora Di sé e con gli altri (Vydia, 2018), il più autobiografico, e molti altri sono nel “Fondo” depositato all’Archivio di Stato di Trieste. Si nota quanto errabonde, editorialmente parlando, siano queste opere del “dopo”, quasi continuando il percorso del “prima”, quando incassato l’esordio con Einaudi (Il sosia) e il successo con Adelphi (patrocinati dal fiuto del geniale Bobi Bazlen) Mattioni lasciò la grande etichetta sentendosi a propria volta non più desiderato e approdò negli anni ’80 e ’90 – sempre per via di amicizia, come poi raccontò la vedova e cugina Maria – alla Spirali dell’allora discusso Armando Verdiglione. Con un’unica eccezione, la Storia di Umberto Saba, cui aveva lavorato per tutta la vita, uscito da Camunia nel 1989.

L’ultimo inedito è La battaglia di Templenizza (una fantasmatica Basovizza?), che ci riporta nel clima classico dei suoi romanzi, misteriosi e claustrofobici, in un’aura di surrealtà dove si tramano strane sfide di potere, e dove un’altra volta sono le donne (qui degradate a “femmine”) a essere giocate, più che a giocarsela come pare. Motore dell’azione, e chissà se il tempismo editoriale è stato casuale, è la paura per un virus misterioso che in quel borgo colpisce solo gli uomini, instillando il dubbio che fra loro accadano pratiche innominabili, specie se i poveretti sono scapoli. E magri, brutto segnale quanto a salute. Come l’albergatore, rimasto senza clienti, e un fidanzato che la futura suocera tratta da appestato. è in quel piccolo borgo che un ricercatore universitario di storia dell’arte (il protagonista narrante, Isadoro Berti) arriva per studiare un noto castelliere. Ma il virus di cui subito gli parlano non poteva essere Covid-19. Il libro fu composto tra il 1989 e il 1990: erano gli anni in cui il mondo affrontava con terrore la pandemia da Hiv, al tempo associata a omosessualità e droga. Da qui, senza nominare la “Cosa”, parte Mattioni mettendo addosso a un manipolo di donne del paese, piccole furie definite grasse, informi, bercianti, isteriche, fanatiche, molestatrici, “streghe” e razziste, il ruolo di protettrici, in sprezzo agli uomini incapaci di affrontare un’emergenza. Far verificare alla scienza lo stato di salute non si può, la notizia dilagherebbe portando vergogna. Accogliere i “foresti” è proibito. Ognuno che arriva alimenta una caccia alle streghe. In questo caso, da parte proprio di “streghe” che il narratore-professore, cui già pare di essere in un racconto di Poe, s’immagina come quelle del Macbeth shakespeariano. Quando con la sua sicumera da cittadino “colto” il Berti arriva una sera a bordo di una corriera, trova un paese deserto, urbanisticamente allestito “a gironi”, un albergo vuoto, con corridoi ciechi, un’ostilità che lo sorprende e lo irrita. La sua libertà è limitata, la sua dignità offesa. Assiste alla segregazione di donne dissidenti portate via su un carretto (stile Rivoluzione francese, ma lo scrittore vede “un rapimento tipico di paese del profondo Sud”), viene quasi sequestrato, e dulcis in fundo non trova nemmeno il castelliere, che forse non c’è.

Nell’introduzione Riccardo Cepach afferma che qui si ritrovano il «Mattioni che diciamo impropriamente ‘politico’, il Mattioni espressionista, il Mattioni surrealista, l’umorista e via via il favolista, lo storico, il cronista». Sente echi di Kafka e Orwell, ma anche di Aristofane (Lisistrata) a proposito del potere rivendicato dalle donne, ma si potrebbe ricordare su un altro registro perfino The Haploids di Jerry Sohl (tradotto nel 1954 dalla mondadoriana Urania col titolo Morbo orrendo). In definitiva Cepach vede un grande affresco «dai colori un po’ impastati» dove ognuno è colto nell’attimo dell’azione, ovviamente senza sviluppo. E così è questo libro: gran tronco, rami che crescono e si moltiplicano, ma gli ultimi germogli tremano al vento. Infatti il garbuglio finisce senza finire. Le donne son messe a tacere da una commissione nazionale di medici, che non riveleranno mai se una malattia c’era o no. Che ne sarà dei fidanzati non si sa. Se il castelliere esiste o è crollato resta un punto di domanda. Il professore riprende la corriera e torna a casa.

La favola a tema sociale semina tuttavia anche altro. La popolana furiosa che aizza il paese ha per nome Anita («la bocca simile a un bruco avvoltolato su se stesso»), sua figlia, l’unica autonoma e spedita di mente, è Aurelia (sarà un caso, ma vengono in mente Anita Pittoni e Aurelia Gruber Benco, icone femminili di Trieste). Queste donne che pretendono il ruolo degli uomini, dice però il Berti-Mattioni, “in realtà non avevano da apportare alla società organizzata niente di originale, pensavano solo di imitarli e male, con faziosità di parte, senza alti ideali”. Della presunta malattia erano perfino gelose, per timore «di vedersi estromesse da un’eventuale epidemia, dopo aver saputo […] che il contagio poteva avvenire soltanto da uomo a uomo». Non solo, esse vedrebbero «anche il rischio di vedersi pareggiare in quell’unica che la natura aveva loro concesso, quella di far figli, su cui da sempre avevano fondato il loro impero, sotto la copertura dell’uomo». Non basta: «Aver ottenuto la “parità legale”, unitamente alla supremazia familiare, le aveva elevate a un ruolo dall’importanza spropositata». A questa spiacevole materia umana di maschi ridicolmente fiacchi e donne sgradevolmente potenti si oppone la nervosa sveltezza del “professore di città”, cui Mattioni riserva il privilegio di potersi esprimere con la potenza della realtà fatta di carne e sangue. Il professore, se va in bagno, “spande acqua”, gli sudano tanto i piedi, dorme senza pigiama e va in giro per l’albergo nudo – anche la cronaca marcia e comanda, quasi quanto le “femmine”.

Postilla.

Scherzi coi misteri, con le donne, e questi si mettono a scherzare per conto loro e giocano un brutto tiro allo scrittore che ne fa uso. Ecco un episodio vero. Primi anni Ottanta, una domenica mattina. Arriva per caso al Piccolo una notizia terribile: è morto Stelio Mattioni. L’ha riferito a un’amica una signora, ricoverata all’ospedale, e quella aveva confidato ad altri. I redattori delle pagine culturali entrano in forte agitazione. Emozione, dispiacere, e un servizio giornalistico all’altezza da allestire in poche ore (non esistevano Internet e cellulari). Frenetica ricerca di commenti e testimonianze, a Trieste e in tutt’Italia: critici, editori, intellettuali, ma anche amici, e fraterni. Il lutto sgomenta tutti. E tutti si affrettano a scrivere il “coccodrillo”. Poi viene sera, il giornale sta per andare in stampa.

«Che cos’è questa storia che io sarei morto?». Stelio Mattioni al telefono. Voleva notizie. Anche per, si capisce, confutarle di persona. La voce girando girando aveva in extremis raggiunto pure lui, le fake news ancora andavano a piedi. Si ebbe evidenza del fatto che era felicemente in salute, e che tutti gli amici – intenti a commemorare – avevano evitato di condolersi di persona. Una telefonata alla famiglia? «Non era momento di disturbare». Le pagine di necrologio finirono scaramanticamente in archivio, e Mattioni forse fece gli scongiuri ma non lo si vide. Non c’era neanche skype.

 

Stelio Mattioni

La battaglia di Templenizza

Vydia Editore, Montecassiano (Mc), 2020

prefazione di Riccardo Cepach

cura e biobibliografia di Chiara Mattioni

  1. 161, euro 13,00