Istanbul tra immagine e scrittura

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Orhan Pamuk celebra la sua Istanbul, con la scrittura e con le immagini

di Paolo Cartagine

 

Era un sabato il 7 giugno 1952 quando, sulla riva europea di Istanbul, a casa della ricca famiglia Pamuk arrivò Orhan.

Personalità riflessiva e in parte introversa, da ragazzo aspirava a diventare pittore perché gli era congeniale il linguaggio per immagini. Vicino ai trent’anni, approdò invece stabilmente alla scrittura – Premio Nobel per la Letteratura nel 2006 – non trascurando l’abbinamento delle due arti, come egli stesso ribadisce in Istanbul, i ricordi e la città, uscito nel 2014 (in Italia, da Einaudi, nel 2017).

In quasi 700 pagine, nel tempo della Storia e nello spazio della Città, l’Autore sessantenne chiarisce a se stesso e al lettore il senso della sua vita accompagnandoci fra testo scritto e 350 fotografie bianconero (oltre a 90 riproduzioni varie), che ha selezionato in una trentina di archivi fra cui il suo e quello dell’amico Ara Güler, fotoreporter della Magnum di origine armena nato e vissuto nella città sul Bosforo.

Istanbul è l’inseguimento di un’idea autobiografica, un’interazione tra visualità e apparato narrativo da attraversare “osservando con amore ogni minimo dettaglio” (ci suggerirebbe Robert Walser) per individuare il non detto facendo attenzione a tono, pause e silenzi, per entrare con empatia nei risvolti che vi sono disseminati e che si allargano rivelando progressivamente una ragnatela nascosta di affetti, sentimenti, rimpianti, disincanti e speranze.

L’Autore fornisce più prospettive complementari di analisi, inserite tra racconto lungo, saggio storico e album fotografico, una fusione fra eventi e memorie personali dell’Autore e la storia collettiva della sua città. Nel suo testo concepito unitariamente, in modo innovativo Pamuk ha inserito, come co-autori, fotografi e illustratori con immagini relative a tempi, esigenze e obiettivi specifici.

Compimento di un preciso e originale disegno ordinatore, Istanbul è una consonanza testo-immagini di grande fluidità piacevole da assaporare, che al lettore di cultura occidentale fa conoscere materiali, irreperibili o sconosciuti, collocati in una sorta di “museo su carta”, crocevia cronologico delle trasformazioni dell’urbs (il territorio urbanizzato) e della civitas (gli abitanti e il loro agire).

Ha inoltre una qualità di rilievo non secondaria derivante dal “come” è stato concepito e costruito. Oltre all’intrinseco piacere di apprezzare il “cosa” viene raccontato, offre infatti spontaneamente al fruitore spunti di riflessione sull’intero percorso di avvicinamento, ingresso, appropriazione e interpretazione del contenuto.

Innanzitutto, la modalità narrativa è una sorta di tecnica mista che, valorizzando l’aspetto multimediale del bagaglio dei reperti di supporto, fa di Istanbul il quadro di una stagione in cui, rispetto all’ieri, risaltano aspetti di affinità ma anche e soprattutto marcate diversità.

In termini di strutturazione, risulta esplicito e chiaro il codice comunicativo a due vie mutuamente dialoganti, dove parole e immagini si rincorrono senza ripetizioni. La forma è dunque data dall’intersezione fra il linguaggio delle parole e il linguaggio delle foto. Il primo è fatto di elementi che, per convenzione, esprimono concetti collegabili in continuità tra loro; il secondo di elementi, non sostenuti da convenzioni, che mostrano i contorni visibili delle cose senza la riproduzione del “prima” e del “dopo” della figurazione riprodotta.

Per quanto estesa sia la circonferenza tematica di partenza, la traiettoria converge sempre al centro, Istanbul quale materia prima. Similmente a Dublino per Joyce, Praga per Kafka, Trieste per Svevo, la Città è il “personaggio” fondamentale ma, parafrasando Gillo Dorfles, l’effettivo baricentro narrativo è Pamuk perché sono le scelte autoriali che portano a una visione del mondo.

Le fotografie sono catalizzatrici di memorie visuali. Ne discende sùbito una considerazione sulla “visibilità” del tempo: quello lineare che avanza e tutto muta (edifici e quartieri, vie e piazze, porto e traghetti, mezzi di trasporto pubblico e privato, abbigliamento e atteggiamenti), e quello circolare che tende a essere ricorsivo (condizioni climatiche, ordinaria quotidianità, scansioni ritmiche della vita cittadina).

Altro punto significativo attiene alla lettura dello spazio perimetrato di una fotografia. È, in primis, un percorso pendolare andata-ritorno dal centro alla periferia, dalla visione d’assieme agli angoli oscuri, dal primo piano allo sfondo. Ma è anche intravedere i legami (presenti ma otticamente recisi dalla cornice, limite per lo sguardo) con le assenze del fuori-quadro. Il “non tutto della foto” di Georges Didi-Huberman, con la sensazione che la fotografia possa raccontarci di più di quello che porge l’osservazione frettolosa del visivo riprodotto. Dato che le cose vengono più facilmente a noi se accordiamo loro il tempo che richiedono, la lettura di una foto è una dilatazione della durata dell’accadimento fermato sul fotogramma.

«Per secoli il volto della città si era ridisegnato per accumulo. Oggi non è più così, sventramenti e nuove edificazioni hanno eliminato la profondità della memoria», chiarisce l’Autore, e infatti la sequenza delle immagini mostra le cancellazioni delle impronte non monumentali dei periodi antecedenti, e la scomparsa delle consuetudini della vita di tutti i giorni delle classi meno abbienti.

Determinanti al riguardo le foto di Güler che – con dolcezza, rispetto e umanità sempre al di là del mero atto fotografico – metteva in vetrina piccole biografie delle persone che incontrava, indimenticabili segmenti di una anonima storia plurima variamente intrecciata, di cui lui e loro ne erano parte.

Un’esperienza inaspettata scrivere Istanbul, ha precisato Pamuk, perché il connubio parole-immagini ha evocato in lui associazione di idee e significati che né le une né le altre separatamente evidenziavano, ha eliminato presunte certezze del passato e ha fatto riemergere altre versioni di ricordi che reputava indelebili.

È dunque intimista la chiave interpretativa per entrare in Istanbul, collezione di reminiscenze personali dell’Autore connotate da inevitabili accenni di nostalgia.

Allora il tempo retrodatato si colora, non resta uguale né seminascosto o indifferenziato: talvolta sbiadito, in altri frangenti più nitido e vivace. O forse occultato e difficile da ripescare dal di sotto della linea d’orizzonte cui è naturalmente destinato?

 

 

 

Orhan Pamuk

Istanbul, i ricordi e la città

Einaudi, Torino 2017

  1. 704, euro 45,00