La cavalcata di Napoleone

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L’imperatore visto e raccontato da Ernesto Ferrero

di Luisa Crismani

 

C’è una poesia di Giovanni Prati, come suol dirsi “un minore” e comunque poco conosciuto, che mio padre ci recitava a memoria quando eravamo bambini, scatenando il nostro entusiasmo ben più dei Sepolcri o del X canto dell’Inferno, anche questi recitati a memoria.

Si tratta di Galoppo notturno.

Era il cavallo che ci faceva vibrare: «Ruello, Ruello, divora la via […] Galoppa galoppa galoppa, Ruel […]» e quando il cavaliere cade ecco che il cavallo «Vola vola e non galoppa».

Il Napoleone che ho appena finito di leggere – Napoleone in venti parole, di Ernesto Ferrero – è così: una cavalcata a perdifiato, quasi fossimo noi Napoleone sul suo cavallo bianco. Non è, come ha scritto qualcuno “un saggio che si legge come un romanzo”, del romanzo non ha proprio niente, i romanzi di Ferrero sono altra cosa, a cominciare da N., proseguendo per tutti gli altri, con la vetta di quel capolavoro che è Disegnare il vento.

I suoi romanzi sono diversi da quello che va per la maggiore oggi, quello che si scrive e quello che (ahinoi) leggiamo. Sono vera e propria letteratura, consapevole, giusta, possiamo leggerli contenti, sentendo che la mano, la testa, il cuore di chi li ha scritti stanno in un luogo dove sono stati e stanno ancora molti degli autori “grandi” che ci hanno formato, educato, insegnato a leggere.

Napoleone in venti parole non è un romanzo e nemmeno un saggio. Accidenti quante cose sa, mi dicevo durante la lettura e, ignorante di storia come sono, volevo prendere un Saitta o uno Spini e riguardarmi quello che avevo studiato a scuola e poi dimenticato. Bisognerebbe farlo, prima di cominciare a leggere il libro. Perché il galoppo non ammette interruzioni, le redini non si possono tirare mai, altrimenti cessa il divertimento, e l’incanto. L’incanto per Napoleone (e per un mondo che non c’è più… il che non è poi un gran bene), che non riesce a sbigottirsi nemmeno di fronte ai morti… quelli che avrebbero mosso la mano di Martino Acquabona, voce narrante di N, se avesse avuto il coraggio di premere il grilletto. Ma no, in fondo anche Martino era incantato.

Lo siamo tutti. Ferrero, certamente, insieme a noi. E, come i contadini di Majakovski al funerale di Lenin, che si vergognano di piangere ma li tradisce «l’impronta terrosa della mano sulla guancia», così non possiamo non essere partecipi di un’emozione  che diventa subito nostra, la riconosciamo, quando leggiamo «La costruzione del nuovo è dunque un’angosciosa battaglia contro il Tempo: gestire l’oggi con il materiale umano che ci si ritrova, inventare un futuro sapendo di non poter aspettare» (p. 242).

«Waterloo si è subito caricata di una fortissima carica simbolica: una quasi vittoria che si rovescia in catastrofe, un evento di proporzioni immani che chiude un’epoca, i vent’anni che avevano sconvolto l’Europa, imprimendole un’accelerazione, un cambio generazionale mai visti prima. è la montagna contro cui, dopo il “folle volo, fa naufragio la navicella di N.-Ulisse.» (p.210).

«Dà l’impressione di una macchina sempre sotto pressione. Il suo rendimento aumenta con il crescere degli ostacoli e con il rarefarsi del tempo a disposizione» (p.43).

Nel libro c’è anche il ritratto di un’epoca. Bastino ad esempio le pagine 202-209 che raccontano il Congresso di Vienna: «nell’estate e autunno del 1814 l’Europa conosce nella capitale austriaca una stagione in cui nessuno sperava più, quella di una ritrovata dolcezza del vivere», descrivendo persino i congressisti a tavola che discutono sulla bontà dei vari formaggi nazionali e vengono messi a tacere da Talleyrand che fa arrivare da Parigi il Brie, all’unanimità proclamato il Re dei Formaggi… «Dopo estenuanti maneggi […] il Congresso si chiude il 3 giugno con un senso diffuso di frustrazione e di aleatorietà. La pace si era rivelata più difficile degli stessi anni di guerra, in cui si faceva fronte a un nemico comune. Nella Vienna tornata alle dimensioni abituali si respira l’aria pesante delle feste appena terminate, tra tovaglie macchiate di vino, fiori appassiti e avanzi di cibo che si decompongono».

E ci sono, durante tutto il trascorrere della narrazione, gli sguardi degli altri, Chateaubriand su tutti, e Goethe, Hugo, Tolstoj, Faure, Madame da Staël. Naturalmente Stendhal. E Foscolo, e Manzoni, che sembrano intervenire ciascuno come nostri vecchi amici, tutti intorno a lui: N., quel piccolo corso, quel parvenu che affermava: «Sento l’infinito, in me» (p.7).

Le citazioni non sono citazioni, fanno parte del narrare, ne costituiscono il substrato profondo, quella che una volta si chiamava cultura e chi sa più dov’è, dov’è finita: non c’è più tempo per queste cose, abbiamo altre gatte da pelare. Non è forse così?

Il libro  non si legge neanche come un saggio. Dei saggi non ha l’assertività, che si accompagna volentieri alla spregiudicatezza. è pervaso invece dalla gentile atmosfera del colloquio, la riflessiva interlocuzione del dialogo, della ricerca, della memoria condivisa con chi legge. Non sono piccole cose.

Una noticina personale. A Trieste, città dove come è noto l’unica lingua universalmente praticata è il dialetto triestino, Napoleone ha lasciato almeno due tracce indelebili. Visavì (di fronte) , dal francese vis à vis e remitùr (confusione, disordine) da demi tour (mezzo giro) che  i cavalleggeri erano comandati a fare durante le esercitazioni in Piazza Grande (oggi piazza Unità) e che ai triestini che assistevano pareva una baraonda.

Grazie, Ernesto Ferrero.

 

 

Ernesto Ferrero

Napoleone in venti parole

Einaudi, Torino 2021

  1. 280, euro 13,50