Il re ne comanda una

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di Luisella Pacco

 

 

Quando, in occasione della recentissima nuova edizione de Il re ne comanda una, il direttore mi ha proposto di scrivere questa recensione e ho iniziato a pensarci, mi sono sentita in imbarazzo. Sapevo che cose molto belle già erano state scritte su Mattioni proprio da un acuto e colto collaboratore del Ponte rosso, Gianfranco Franchi. Sul suo sito Porto Franco (gianfrancofranchi.com) potete leggere un articolo del 2007 proprio sullo stesso romanzo, e un altro, dello scorso gennaio, dedicato a una “guida ragionata al Mattioni postumo”.

Cosa mai potevo aggiungere io?, mi chiedevo.

L’unica via d’uscita era tenere a mente che la mia rubrica si chiama “In altre parole” perché spesso lascio che un’interpretazione tutta personale e piena di confidenze avvolga, quasi spudoratamente, i miei articoli. E così farò anche questa volta.

Inizio col raccontarvi che la lettura incide spesso, come un graffio, la mia vita di ogni giorno, accompagnandomi, modificando il mio fare, suggerendomi un gesto, una scelta, una direzione. Talvolta, ad esempio, si tratta di andare sui luoghi degli autori che ho amato, ripercorrendone le strade (dei romanzi o della vita). Girare la Milano di Buzzati, la Roma di Moravia, l’Ungheria di Agota Kristof… Ebbene, trattandosi di uno scrittore triestino, Stelio Mattioni è intervenuto spesso e assai comodamente nei miei percorsi, senza nemmeno bisogno di organizzare un viaggio. Mattioni è qui, a casa.

Ricordo che, fresca de Il richiamo di Alma, non potevo passare in Via San Michele senza guardare quella casa con la torretta. Per non dire degli altri luoghi (la scala dei Giganti, via Capitolina, via Risorta, l’Orto Lapidario…) di un romanzo che sembrava fatto apposta per far innamorare, tormentosamente, di questa città. Alzavo gli occhi continuamente, con quello sguardo nostalgico e perduto di chi indica a un amico l’abitazione di qualcuno che gli era caro. Sai, qui abitava…

C’è di più, una coincidenza che ha il sapore degli affetti. La tomba di Mattioni, al Cimitero di Sant’Anna, è molto vicina a quella di alcuni miei familiari. Quando vado in visita, non posso non sostare anche da lui. Vi chiederete perché. Non lo so. Non l’ho conosciuto di persona. Ma che importa? La lettura crea un legame particolare e intimo. Perciò mi fermo e rifletto su quella citazione (tratta da Il richiamo di Alma) che è diventata epitaffio sulla lapide. Se ti ami, amami.

Con Il re ne comanda una (che ho letto ora per la prima volta), stessa storia: sono andata subito in Via Valdirivo 16, l’indirizzo verso cui la protagonista è diretta nelle prime pagine del romanzo. Me ne sono stata lì un po’, ad immaginare Tina che arriva con le sue due figlie, confuse e stanche, e si presenta al portone sotto il volto aspro del panduro.

Il romanzo, che risale al 1968, è stato il primo di Stelio Mattioni. L’autore si era fatto conoscere in precedenza per un volume di poesie, La città perduta (Schwarz, 1956) e per la superba raccolta di racconti Il sosia (Einaudi, 1962). Non starò a darvi indicazioni (che potete trovare dovunque, anche negli articoli che ho citato) sulla sua successiva, vivace ampia e splendida, produzione. Vi dirò, però, che Mattioni è stato uno scrittore molto apprezzato in vita, poi totalmente dimenticato da tutti.

Inizia con questa considerazione (amara ma, disgraziatamente, piuttosto oggettiva), la prefazione alla nuova edizione che esce ora per l’editore romano Cliquot, firmata da Alcide Pierantozzi, il quale ricorda anche come gli sia capitato spesso di consigliare i testi di Mattioni agli allievi dei corsi di scrittura creativa e a molti amici sceneggiatori di cinema. Volete imparare come si organizza il setting di una scena? – scrive Pierantozzi – Volete imparare a raccontare cose che spaventino davvero? Leggete Il re ne comanda una.

Spaventoso, come può esserlo una favola; ed è ironico, grottesco. In una parola, perturbante. Il re ne comanda una ci prende per mano (o di più, ci afferra violentemente per un braccio) trascinandoci nella storia di Tina.

Torniamo a questa donna, dunque, e a me che la guardo entrare in Via Valdirivo 16, in una casa bassa con al primo piano un poggiuolo in ferro battuto, e sopra il portone una testa […] Una testa d’uomo coi baffi.

Che uomo?, chiedono scioccamente le figlie, Pupetta e Millina, e Tina quasi le detesta. Per loro ha sacrificato tutta la sua vita, per loro adesso è in strada con una valigia, per loro, per loro. E lei? D’ora in poi voleva avere anche lei la sua parte.

Parte di che cosa? Di una vita migliore, un poco più degna, più tranquilla. Scappa da un marito violento e ubriacone. La prima disavventura è prendersi una multa sul tram (Millina al controllore non sembra poi così piccola da poter viaggiare gratis). Fin da questo primissimo episodio, Trieste è presente prepotentemente: il tram passa da Sant’Anna, in Via dell’Istria, giunge in piazza Goldoni…

I luoghi di Mattioni sono veri, quotidiani; il suo bisogno di dirli – elencandoli precisi precisi – è perentorio fin dal primo romanzo.

In via Valdirivo, Tina è attesa da Orlando, un individuo misterioso con cui – pare di capire – il marito di Tina ha contratto dei debiti. “Venga da me quando vuole. Anche di notte, se vuole. Troveremo il modo di risolvere questa faccenda” le aveva detto, andando a trovarla più volte, sempre quando il marito non c’era.

La casa di Orlando è un posto strano, che dentro è molto diverso da come appariva da fuori. Pareva piccola e compatta. E invece […] chi avrebbe potuto supporre – se non lo sapeva – che all’interno era tutta bucherellata, tenera, sgretolabile persino da un anello di vento? Aveva un giardino, quattro o cinque chiostrine da cui era circondata, come sfogatoi, tutto il corpo suddiviso in tante stanze e stanzette, intersecate da stretti corridoi, così da assomigliare a un alveare, da fare pensare che un giorno dovesse venir invasa da qualcosa di liquido e di vischioso.

Varcato quel portone, un labirinto anche umano di molti e ambigui personaggi scagliano Tina (e il lettore) in un universo parallelo e inquietante. È un meccanismo, un’azienda, un laboratorio, una famiglia, una corte? E Orlando ne è il re, con moglie, amanti, figli, parenti, dipendenti, tutti da comandare a bacchetta.

Tina dovrà lavorare in cucina e occuparsi delle pulizie. Ma è lecito pensare che da lei (e più in là, forse anche dalla figlia maggiore) Orlando si aspetti anche dell’altro…

Una vicenda drammatica, di una donna che cerca di liberarsi da un marito odioso finendo inguaiata ancor peggio. Ma allo stesso tempo, è anche una situazione stravagante, surreale, farsesca. Scrive ancora Pierantozzi: “Mattioni è in grado di aumentare il carico dell’ironia, che a volte diventa comicità sguaiata”.

Del resto, già la bandella della prima edizione Einaudi de Il sosia (libro che vi invito a leggere assolutamente, anche se vi sarà difficile reperirlo) parlava di humour, per l’esattezza di uno humour grottesco e straziato, che si condensa in figure e situazioni sempre molto concrete e visibili [che] affiora sul flusso di un rendiconto psicologico meticoloso, redatto con una sintassi e un lessico quasi da verbale”.

E ancora: “quando meno ce lo si aspetta, dalla prosa più grigia salta fuori un’immagine folgorante per intensità e pregnanza poetica […] oppure succede qualcosa che ha la pura forza comica dell’imprevedibile e dell’ingiustificabile. […] Ci accorgiamo allora che il potere di farci entrare in un mondo tutto suo, questo potere che è il segno dello scrittore vero, è la forza di Mattioni”.

Ecco, per bizzarro possa sembrare, trovo queste parole ideali e aderenti anche per Il re ne comanda una. Come se in fondo, il libro di Stelio Mattioni fosse uno solo, un “mondo tutto suo” che pezzo dopo pezzo, opera dopo opera, si forma e si disfa e si rinsalda…

Per Tina la fine sarà poco consolatoria, dolceamara, con un prezzo (come sempre) da pagare. Lo paga anche il lettore, rimasto invischiato nell’alveare, con una storia che lo lascia senza terreno sotto i piedi. Franchi, nel suo articolo scriveva “Mattioni racconta la fine della libertà, e dell’illusione della libertà: la favola si sgretola, si disintegra, si incenerisce.”