Quell’anno, in America

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Un Sessantotto plurale, quello dei bianchi e quello dei neri, dei maschi e delle donne, dei gay e degli etero, dei borghesi e degli operai, degli studenti e dei militari

La guerra del Vietnam era cominciata più di dieci anni prima, nel 1955, ma le reazioni americane alle ostilità presero quota soltanto negli anni Sessanta con proteste e manifestazioni durante tutto il decennio

La musica degli anni Sessanta fu una musica non tanto o non soltanto di intrattenimento ma di contestazione e protesta

Per molti giovani e giovanissimi ascoltatori fu più la musica che i libri stampati che stava alla base dei loro atteggiamenti politici, culturali, e poi si capisce anche sessuali

Erano più i neri che i bianchi, più i poveri che i ricchi che finivano costretti a fare la guerra e magari morire in un paese lontano

di Charles Klopp

 

Negli Stati Uniti la svolta politica e culturale del 1968 fu veramente molte svolte diverse. Invece di parlare di un unico sessantotto, bisogna però considerare tanti “sessantotti” individuali e distinti: un sessantotto dei bianchi e un altro dei neri; un sessantotto vissuto da maschi e un altro da donne, da gay e da etero, da borghesi e da operai, da studenti e da soldati, da sostenitori e da avversari della guerra del Vietnam; e specialmente e più drammaticamente, un sessantotto vissuto da giovani e un altro vissuto e in molti casi aspramente contestato da anziani. Oltre ad essere un anno di conflitti come quello fra le generazioni, il sessantotto era un anno di entusiasmi e di sogni, di utopie per le cui realizzazioni militavano e si sacrificavano tanti americani e americane sostenitori di programmi politici e culturali diversi ma anche collegati fra di loro e sempre sostenuti con grande passione. Nei primi momenti le proteste in favore di queste utopie avevano come bersaglio la guerra del Vietnam. Grandi manifestazioni contro la guerra dalla parte di studenti, professori, e altri accademici ebbero luogo sui campus universitari in tutto il paese, da Columbia in riva all’Atlantico a Berkeley sul Pacifico, da Madison ad Ann Arbor a Chicago a Columbus, Ohio, dove sto scrivendo in questo momento.

La guerra del Vietnam era cominciata più di dieci anni prima, nel 1955, ma le reazioni americane alle ostilità presero quota soltanto negli anni Sessanta con proteste e manifestazioni durante tutto il decennio. Nel 1968, in seguito all’assassinio di Martin Luther King, ci furono nuove proteste, questa volta non contro la guerra ma in sincronia con quelle anti-belliche. Queste manifestazioni di disagio e furore furono portate avanti da bianchi e da neri e da bianchi e neri insieme, ma dominate e controllate da cittadini americani di colore. Avevano come oggetto immediato non tanto la guerra quanto la politica interna del paese, in particolare l’oppressione dei tanti afro-americani costretti a vivere in zone pericolose e degradate delle grandi città del Nord e del Sud e esclusi dai più ambiti posti di lavoro ovunque. Già nel 1967 c’erano state proteste contro la polizia a Newark nel New Jersey, a Detroit e a Cincinnati fra altre città. Poi, dopo l’assassinio del Dottor King nel aprile dell’anno successivo, ce ne furono centinaia (172 secondo alcune fonti) in città americane in tutte le parti della nazione. Finalmente, come climax drammatico della grande tragedia di queste agitazioni, ci furono gli eventi di Chicago durante la convenzione nazionale del Partito Democratico per la scelta del candidato nelle elezioni presidenziale al novembre successivo. Durante gli otto giorni di proteste e arresti dalla parte dei partecipanti, e sorpresa e sgomento dalla parte degli spettatori – quelli televisivi a casa loro e i delegati dello stesso Partito Democratico riuniti a Chicago come rappresentanti di uno schieramento politico che si considerava di sinistra – ci fu il “police riot,” un tumulto pubblico non controllato e sedato dalla polizia, ma istigato e portato avanti brutalmente dalle forze dell’ordine. La violenza poliziesca e perciò statale a Chicago ed ad altre città inclusa quella da dove scrivo, era diretta a manifestanti che ormai contestavano non solo una guerra all’estero ai loro occhi crudele e ingiusta e il razzismo a casa, ma tutto un sistema di potere, tutto l’establishment compresi tutti i partiti politici che quelli consideravano inadeguati ad affrontare la situazione di crisi dell’epoca. Fra gli arrestati di Chicago ci fu un amico mio, che per l’occasione portava la giacca militare che aveva indossato durante il suo servizio militare; era forse per via di questa giubba trasformata in un’icona di protesta che l’ex-soldato mio amico fu non solo arrestato ma anche malmenato duramente dalla polizia.

I fatti di Chicago indicarono quanti giovani a quel punto abbracciassero l’attivismo politico dopo un periodo di indifferenza. Il decennio precedente in America fu caratterizzato come quello della “silent generation,” la generazione silenziosa. Questa era costituita da individui contenti di non occuparsi della politica e di rimanere, nelle parole di un amico attivista qui in quegli anni “fat, dumb, and happy” (grassi, ignoranti, e felici). Il risveglio di questi e altri ex-apatici fu alimentato dai loro contatti con giovani che tornavano dal servizio militare cambiati dalle loro esperienze nelle giungle asiatiche e radicalizzati politicamente. Le storie di queste vittime americane della guerra del Vietnam divennero note a un vasto pubblico negli SU e all’estero in film come The Deer Hunter (“Il cacciatore”) di Michael Cimino del 1978 e Born on the Fourth of July (“Nato il quattro luglio”) di Oliver Stone del 1989. Accanto ai reduci che figurarono in questi film, fra i manifestanti ci furono giovani tornati da servizio nel Peace Corps. Questi uomini e anche donne tornarono dalle loro esperienze con un nuovo senso delle ingiustizie nei paesi del terzo mondo dove avevano fatto i volontari. Reduci anche loro da esperienza drammatiche, avevano capito che le miserie e le ingiustizie che avevano viste durante i loro servizi nel Peace Corps erano i risultati di quello stesso imperialismo che a moltissimi sembrava la causa non solo della guerra del Vietnam ma anche dell’oppressione degli afro-americani in giungle questa volta di asfalto.

Si trattava di eventi inediti per gente cresciuta durante un lungo periodo di pace e di calma in un continente distante da una politica più vivace come quella europea. Questi eventi, in più, furono portati davanti agli occhi dei telespettatori in tutta la loro intensità e problematicità. Anche se i canali televisivi dell’epoca erano soltanto le tre nazionali con la tv via cavo ancora da arrivare, gli orrori della guerra e le proteste locali e nazionali contro questi orrori erano trasmessi da vecchi mezzi di comunicazione che appunto perché mezzi di lunga durata sembravano degni di fiducia. Di particolare importanza nelle trasmissioni televisive di questi anni era la presenza di Walter Cronkite, personalità televisiva considerato da molti “the most trusted man in America” (l’uomo più degno di fiducia in America). Ma in questi anni Cronkite diventò il portatore di notizie sconcertanti e di difficile comprensione. In questi stessi anni fu pubblicato la foto scattata di Eddie Adams del Viet Cong Nguyen Van Lem ucciso dal capo della polizia sudvietnamita Nguyen Ngoc Loan. Anche se ripudiato più tardi da Adams, nel 1969 la foto vinse un Premio Pulitzer che aggiunse più prestigio e credibilità al suo disturbante reportage fotografico.

Accanto e in molti casi contrario alla media tradizionale di Walter Cronkite e dei giornali di New York e Washington, negli anni Sessanta apparve per la prima volta una stampa nuova, alternativa, e di gestione giovanile. Nel 1965 s’iniziò la pubblicazione di The Berkeley Barb (“Il Pungente di Berkeley”), seguito nel 1968 da The Whole Earth Catalog (“Il Catalogo del Pianeta Intero”) che aveva come sottotitolo “Access to Tools” (Accesso agli strumenti) e che nel 1972 vinse un National Book Award, una cosa nuova per una pubblicazione di quel tipo e un’altra indicazione, come cantava Bob Dylan, che “i tempi stavano cambiando.” Entrambi queste pubblicazioni videro la luce per la prima volta in California nella penisola a sud di San Francisco. Ma simili pubblicazioni furono fondate anche altrove, fra queste la nostra Columbus Free Press che continua a uscire ancora oggi.

La California del Berkeley Barb e The Whole Earth Catalog vide anche l’arrivo dei pc e della nuova cultura informatica ad essi associata. I nuovi strumenti mediatici furono creati da individui che provenivano in molti casi da una nuova cultura pacifista e rivoluzionaria, una cultura che presto cominciava a chiamarsi controculturale. I creatori dei pc e di internet erano individui che, come spiega Marco Revelli nel suo Oltre il Novecento (Einaudi, Torino 2001), operavano “fuori dell’establishment industriale, accademico e politico – dal sistema dei grandi apparati – ma in numero consistente dichiaratamente «contro» di esso.”I nuovi intellettuali dell’informatica, continua Revelli, erano uomini e donne che “provenivano dai movimenti di rivolta nelle università degli anni Sessanta, o per lo meno ne avevano respirato l’aria e ne conservavano il radicalismo, il culto dell’azione, l’odio anti-burocratico e lo stesso ‘moralismo’.” The Whole Earth Catalog con il suo “accesso agli strumenti” è stato chiamato l’internet prima dell’internet ma ora, in gran parte grazie a questi “hippies” californiani la vera internet stava arrivando portatore di tutta una galassia di cambiamenti che influenzano tantissimo le nostre esistenze anche oggi.

Parte essenziale e atta a definire le culture e le controculture di questi anni fu la musica che serviva da specchio delle loro coscienze ma anche stimolo all’azione. La musica degli anni Sessanta fu una musica non tanto o non soltanto di intrattenimento ma di contestazione e protesta, una musica celebrata al grande festival di Woodstock nell’agosto del 1969 e sparsa in tutto il mondo da gruppi come Jefferson Airplane, Country Joe and the Fish, Bob Dylan, e the Beatles. Per molti giovani e giovanissimi ascoltatori fu più la musica che i libri stampati che stava alla base dei loro atteggiamenti politici, culturali, e poi si capisce anche sessuali. Gli anni Sessanta erano anni di sconvolgimenti in tutti i settori umani e la musica e la cultura di cui faceva parte essenziale proponevano una nuova maniera di vivere, una nuova visione di come comportarsi con gli altri compresi quelli dell’altro (o forse dello stesso) sesso con l’invito a tutti di fare l’amore invece della guerra, impegnarsi nella contestazione invece di nei lavori accademici o economici. La rivoluzione sessuale di questi anni andava a braccetto con la rivoluzione politica con slogan come “Girls say yes to men who say no” (Le ragazze dicono di sì agli uomini che dicono di no) che voleva incoraggiare i maschi che rifiutavano o avrebbero rifiutato il servizio militare. La rivoluzione sessuale fu forse più importante agli occhi della media che non altri cambiamenti meno sensazionali che si facessero in questo periodo. Ma senza dubbio fu questa rivoluzione da dare grandissima pubblicità ai vari movimenti politici del periodo favorito in questo da festival come quello di Woodstock. Una parte integrale della rivoluzione sessuale e della nuova musica fu un altro elemento trovato molto preoccupante dai benestanti: l’uso delle droghe. Erano in questi anni che le droghe, leggere o pesanti che fossero, ma specialmente la marijuana e l’LSD, diventarono parte dell’esistenza non tanto dei disoccupati e emarginati dei ghetti, ma dei borghesi bianchi e bianche dei sobborghi che agli occhi allibiti dei loro genitori e degli anziani in generale sembravano tutti discepoli fanatici e scatenati della triade tanto denigrata di “sesso, droghe, e rock and roll”.

Mentre la musica e gli slogan, le droghe e la nudità in pubblico scandalizzavano i settori tradizionali della società, in mezzo ai fiori e alle canzoni ci furono dei dibattiti su argomenti più seri. Principale fra questi fu quello sulla violenza. Martin Luther King, Gandhi prima di lui, e prima di entrambi – come mi fa ricordare un altro amico di grande coerenza morale che militava in quegli anni – i quaccheri da secoli tranquilli residenti negli SU specialmente nell’Est ma anche qui nell’Ohio. Insieme ad altri obiettori di coscienza di visioni politiche diverse e spesso contrastanti, i quaccheri erano miti ma fermi difensori della non-violenza e della non-resistenza in circostanze tali che la loro opposizione morale non poteva non parere a chi li osservasse ammirabile e perfino eroica. Non erano gli unici a partecipare nei dibattiti sull’idoneità della violenza in tempi d’urgenza. Era lecito contrapporre sempre la non violenza alla violenza, specialmente quando la violenza era una violenza statale? Quando la polizia continuava ad uccidere soci dei Black Panthers (non quelli del film uscito recentemente, ma i militanti afroamericani che lottavano aspramente e soffrivano parecchio nel periodo), la questione diventava più che mai di un’attualità bruciante. Mentre la nonviolenza andava bene per Martin Luther King e per i borghesi bianchi delle università, per gli abitanti dei ghetti neri era più difficile accettarla come tattica. Loro, perciò, cominciavano a considerare i messaggi di mussulmani come Malcolm X e Mohammed Alì invece di seguire docilmente le direttive dei pastori protestanti e i preti cattolici di una volta.

Per capire quest’epoca tanto turbolenta, è essenziale tener presente la massiccia presenza nella mentalità di tutta questa generazione della coscrizione obbligatoria nazionale. In questi anni la coscrizione condizionava fortissimamente tutte le decisione di tutti i maschi fra 18 e 25 anni: sposarsi o non sposarsi, studiare o non studiare all’università, magari dichiararsi o non dichiararsi obiettori di coscienza. La situazione fu particolarmente critica per gli scapoli non studenti perché studenti e padri regolarmente sposati avevano l’esonero. A molti americani, che avessero o non un’età che li faceva soggetti alla leva, la coscrizione risultava ingiusta perché erano più i neri che i bianchi, più i poveri che i ricchi che finivano costretti a fare la guerra e magari morire in un paese lontano. Una delle ragioni per cui le università divennero focolari per le contestazione era la fortissima tensione causata dalla coscrizione nella popolazione universitaria. Quando la leva cominciò a funzionare tramite una lotteria invece di un sistema complicato che teneva conto della situazione civile dei giovani come aggiudicata da commissioni apposite di cittadini più anziani, le tensioni non diminuivano perché chi avesse un numero basso nella lotteria e non facesse lo studente e non fosse padre e sposato si considerava perso mentre quelli con i numeri più alti si consideravano liberi ma forse soltanto per il momento. Alcuni, George W. Bush, ad esempio, cercarono rifugio nella Guardia Nazionale i cui soldati non erano nei primi tempi mandati a far la guerra nel Vietnam. Altri della generazione di Bush preferirono trasferirsi in Canada. In generale, la coscrizione obbligatoria causò risentimento fra soldati che servivano malvolentieri e guardavano con disprezzo quelli che, in una maniera o un’altra, evitano di esporsi al pericolo di morire lontano da casa in una guerra che ormai pochi o nessun voleva continuasse.

Le bombe di marca USA che esplodevano in questi anni, però, esplodevano esclusivamente nel Sudest asiatico e non nelle banche o sui treni americani. Diversamente dalla situazione in Italia, negli SU degli anni Sessanta non esisteva un serio movimento terroristico di destra. C’era (e c’è ancora ma ormai molto indebolito) il Ku Klux Klan ma altri gruppi organizzati di destra non ci furono fra le masse dove il risentimenti ai confronti delle posizioni estreme dei militanti di sinistra era molto forte. Le reazioni in Italia ai militanti italiani di sinistra dalla parte di una destra organizzata e pericolosa non aveva un equivalente negli SU dove le risposte all’attivismo di sinistra erano più spontanee e senza programmi, ideologie, e magari fondi. Agli occhi dei militanti di sinistra l’avversario rimase non tanto dei gruppi fascisti o neofascisti quanto una polizia in cui non mancavano elementi estremisti fortemente contrari a loro e ai loro ideali. Dall’altro canto, in America non c’era un partito comunista di grande rilievo. Ciò che esisteva, invece, era una grandissima e irrazionale paura della classe media e benestante del comunismo. La loro bestia nera e avversario immaginario non era un partito sovversivo locale ma il comunismo dei comunisti che lottavano altrove, non solo nel Vietnam e nella Cina ma anche in Europa, con l’Italia forse al primo posto fra i paesi del vecchio continente.

Se i giovani americani di questi anni dicevano, invece, che i loro genitori erano “fascisti,” tutti capivano che il termine era metaforico e frutto della loro esasperazione e non di una meditata analisi politica. Diversamente dai giovani italiani dagli anni Sessanta, gli americani non avevano padri o nonni ex-fascisti magari ora sostenitori di un partito del centro o addirittura di sinistra. Un’altra differenza fra gli studenti universitari italiani e americani era che quelli americani provenivano dalle stesse classi sociali di sempre. Negli SU non ci fu un grande cambiamento della popolazione universitario come fu il caso in Italia con l’arrivo per la prima volta all’università di studenti e studentesse figli di operai o di contadini. Se consideriamo gli studenti delle scuole secondarie americane, si vede che nel nuovo continente mancò la mobilitazione che accadeva invece in Italia con occupazioni non solo dell’università ma anche di licei e altre scuole secondarie. Forse si potrebbe dire che la militanza americana studentesca fu più epidermica e meno letteraria di quella in Italia con convegni, dibattiti, pubblicazioni di opuscoli e scritti murali in cui gli studenti e altri esprimevano le loro opinioni politiche. La lotta, inoltre, contro il razzismo era un fenomeno americano e non, in quegli anni almeno, italiano.

Quali sono stati gli effetti, i risultati, delle grandi svolte del 1968 e degli anni Sessanta in generale in America? La mobilitazione appassionata di quegli anni si è spenta oggi fra giovani americani che adesso danno la caccia esclusivamente al dollaro invece di alla giustizia politica? Potrebbe anche darsi, ma allo stesso tempo i fatti di Florida in qualche mese fa con i liceali scesi nelle strade non solo del loro stato ma anche di Washington e altrove al sostegno di più controlli sulle armi superpotenti e supermicidiali suggeriscono che il risveglio politico di cinquant’anni fa non abbia dato luogo a un torpore completo. I giovani floridiani si sono organizzati grazie ad un social media, frutto anch’essa di quegli anni e che continua ad essere una fonte di notizie e di opinioni privilegiata rispetto alle notizie promulgate dalla stampa e dai canali televisivi tradizionali. Le rivoluzioni degli anni Sessanta che hanno vinto, almeno in parte, sono quelle sociali, non politiche. Nel 2018 c’è più parità dei sessi alle istituzioni e ai posti di lavoro anche se la lotta per la totale uguaglianza fra i sessi continua. L’aborto è legale ovunque com’è pure il matrimonio fra due individui dello stesso sesso. Le università americane insieme alle scuole secondarie sono più flessibili e più aperte a delle innovazioni che non nel ’68. Alle università esistono adesso dei centri o dipartimenti di Black Studies, di Women’s Studies (ora spesso chiamati “Sex and Gender Studies”), e di Latino Studies. In moltissime grandi città il capo della polizia può benissimo essere afroamericano o, nel caso di Columbus, donna e lesbica. Ma è anche evidente a chi guardi i vari telegiornali che gli afroamericani continuano ad essere vittime quasi giornaliere dalla violenza poliziesca, e le guerre, adesso in altre zone dell’Asia e non più nel Sudest, persistono, combattute adesso da soldati volontari insieme a mercenari dichiarati apertamente tali. Tanti altri aspetti della nostra vita oggi: i rapporti sociali, la moda, perfino la cucina, magari il movimento ecologico (la prima giornata di “Earth Day” era nel 1970) possono trovare le loro radici ideologiche nelle contestazioni degli anni Sessanta. Allo stesso tempo la rivoluzione politica sognata da tanti non ha avuto luogo negli anni successivi e il sistema capitalistico non solo rimane forte e le divisioni attuate dal nostro sistema economico fra poverissimi e ricchissimi sono più profonde che mai.

 

Con ringraziamenti a Bill a John ed a Jerry che ci furono, ad Harvey e a Clark che non potevano, e a Michael che era troppo giovane. Columbus, Ohio, aprile 2018.