La Dalmazia di Giacomo Scotti

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Una raccolta di saggi dell’intellettuale fiumano (e campano)

Anche da noi vi è chi avalla un’idea della Dalmazia da sempre terra italianissima, come a est chi la vuole “croatissima” fin dalle origini

Scotti non ha mai esitato a farsi portavoce dei valori di convivenza e di solidale europeismo

di Fulvio Senardi

 

Sarebbe auspicabile che, nonostante certe svantaggiose premesse, il volume di Giacomo Scotti, Dalmazia – Regione europea, edito dalla Scuola dalmata dei Santi Giorgio e Trifone di Venezia, nella collana di ricerche storiche «Jolanda Maria Treviri», Venezia, 2014, potesse godere di un’ampia circolazione. E le premesse sono, in primo luogo, un limitato numero di copie, distribuite certamente più nelle biblioteche pubbliche che in libreria e, in secondo, tematiche la cui portata sfugge a gran parte dei nostri connazionali in via di avanzata “analfabetizzazione”, in difficoltà già solamente con la storia e la geografia dell’Est italiano (Trieste non è spesso ricordata come la capitale del Frìuli?), e per i quali la Dalmazia, come l’Istria del resto, è semplicemente «Croazia». Eppure tutti i capitoli del volume, che riprendono saggi apparsi in varie sedi sulla stampa periodica, meriterebbero una lettura particolarmente attenta e una larga diffusione, tanto per il ricco contenuto informativo quanto per il loro impegno di corretta messa a punto storiografica, relativamente a un contesto – quello adriatico – che, in quanto zona di frizione di opposti nazionalismi, ha visto le più azzardate manipolazioni interpretative.

Prima di accennare al libro sarà giusto però, a beneficio dei lettori non giuliani, dire qualcosa della figura di un autore che, dalle nostre parti, è personaggio noto e apprezzato. Campano di nascita, accorso nel secondo dopoguerra nella giovane repubblica jugoslava per partecipare alla grande utopia che lì sembrava prendere forma, di un socialismo dal volto umano capace di girar pagina nel grande libro degli orrori aperto dalla guerra mondiale inaugurando un’epoca di pace, Giacomo Scotti è uomo dalla schiena dritta, agli antipodi di quel tipo “guicciardiniano” che sembra invece prevalere nell’eterno (e tragi-comico) carnevale della vita pubblica e (in)civile del nostro Paese. Rimasto al di là del confine, a Fiume per la precisione, anche dopo la guerra di Jugoslavia, Scotti non ha mai esitato a farsi portavoce di quei valori di convivenza e di solidale europeismo – che si coniugano, storiograficamente, con una messa a fuoco corretta e mai boriosa del dare e dell’avere nel millenario interscambio delle culture – che sembrano invece latitare nell’Europa dei 28, un continente non ancora purtroppo post-nazionale e che fatica a riempire di contenuti di civiltà la peraltro sfibrata unione monetaria. Quanto al soggetto del libro, esso è implicito nell’astuto titolo scelto dall’autore. “Astuto” perché sembra lusingare una piccola vanità del Paese che insieme con l’Italia esercita il condominio sull’Adriatico (quante volte mi sono sentito ripetere dagli amici croati, negli anni della guerra, «ma noi siamo europei!»: verità indiscutibile tanto per ragioni culturali che geografiche, ma altrettanto vera anche per quel popolo serbo contro il quale l’esclamazione intendeva valere), mentre invece tende a dimostrare che la partecipazione della Dalmazia ai più vivaci movimenti spirituali europei (già a partire dal monachesimo benedettino) è stata garantita – prima che la rinascita otto-novecentesca dei cosiddetti “popoli senza storia” facesse uscire gli Slavi del Sud da una mortificante condizione tardo-feudale, varando, in quelle regioni di cultura contadina, la “modernità” – dal rapporto intimo che la costa orientale dell’Adriatico seppe intrattenere con un’Italia (per indicare con una sola parola, per ragioni di comodo, quel mosaico di centri di elaborazione artistico-culturale, tradizioni, idiomi che è stata, in passato, la penisola appenninica), maestra di civiltà e di cultura almeno fino al Barocco (e più avanti ancora, almeno entro limiti definiti e in precisi contesti). Cosa che non significa, come giustamente sostiene Scotti, che le positive relazioni tra costa occidentale e orientale della Dalmazia siano semplicemente il risultato della politica “coloniale” dell’”occupatore” veneziano, a diverso titolo e a geografia variabile padrone di gran parte della Dalmazia già a partire dagli inizi del primo millennio, e della sua totalità dopo la pace di Carlowitz alla fine del ‘600. No: se è indiscutibile che la presenza veneziana favorisce il passaggio oltremare di professionisti specializzati (medici, speziali, giureconsulti, ecc.), intellettuali e artisti italiani (ma ciò avviene anche nella Repubblica indipendente di Ragusa), come peraltro l’immigrazione da oriente di popolazioni slave in fuga dai territori in possesso della Sublime Porta, ed esercita, per ragioni di opportunità e di prestigio, uno specifico “imprinting” politico-culturale sui patriziati e le borghesie urbane, esiste anche una “latinità” autoctona che va con il procedere degli anni venezianizzandosi, e dei cui idiomi originari (il dalmatico, studiato da Matteo Bartoli e più recentemente da Žarko Muljačiċ, ancora fiorente nel basso Medioevo e nel primo Rinascimento) rimangono tracce di substrato negli idiomi slavi e romanzi della Dalmazia moderna. E qui Scotti si scontra con un sentire comune diffuso nella Croazia di oggi, corroborato dai centri di potere politico e favorito da una spregiudicata produzione storiografica che confina strettamente con la propaganda. In questi ambienti – cediamo la parola a Luciano Monzali, il migliore e più equilibrato tra gli storici italiani della Dalmazia (perché anche da noi, attenzione, vi è chi avalla un’idea della Dalmazia da sempre terra italianissima, come a est chi la vuole “croatissima” fin dalle origini) – si sostiene «la presunta esistenza di un’entità giuridica e politico nazionale croata fin dall’Alto Medioevo e la visione del dominio veneziano come causa della decadenza economica e culturale e della parziale italianizzazione della regione dalmata» (L. Monzali, Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, p. 139), con la conseguenza di negare autoctonia a quelle comunità italofone che, fino a Novecento inoltrato, hanno garantito alla Dalmazia, insieme ai serbi, il suo specifico e inconfondibile carattere multi-etnico. Concezioni che hanno la loro origine, anche nelle forme estreme di integralismo e xenofobia, nel poderoso moto di indipendenza croato, destinato in un primo momento a confluire nello jugoslavismo, e affermaosi nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento soprattutto nello scontro con le autorità ungheresi, nello sforzo di resistere ai tentativi di magiarizzazione condotti, con assai poca diplomazia, dalla Corona di Santo Stefano. Poco male se si trattasse di un dibattito semplicemente storiografico; posizioni meno innocue invece se determinano strategie politiche, come già fecero, lo mette in rilievo Monzali, nel corso delle trattative di Rapallo, che pure, per merito di politici lungimiranti, andarono felicemente in porto. Discende sostanzialmente da qui, dall’idea che italiani e serbi siano “stranieri” sulla costa e sulle isole dalmate entro i confini autodeterminati della Croazia (concepiti cioè a partire dalla “leggenda” di un regno medievale di Croazia retto dalla dinastia dei Trpimirović cui si attribuiscono, qui l’ingenuità, le caratteristiche socio-politiche e istituzionali di un moderno stato-nazione), l’espulsione degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia alla fine della II guerra mondiale (il tema è ovviamente complesso, e per una messa a fuoco corretta che consenta di comprendere il valore della dura espressione virgolettata rimandiamo al dibattito storiografico e in particolare alle ricerche di Raoul Pupo) e la cacciata dei serbi dalla Krajna, nel corso dell’“operazione Tempesta” dei primi anni Novanta del secolo scorso. Le frange storiografiche a livello di cultura locale di una tale ideologia – ed è di questo che si occupano, con fini approfondimenti, equilibrati giudizi e limpida scrittura, molti saggi di Scotti – sono rappresentate dalla croatizzazione a posteriori di illustri figli della simbiosi italo (veneto)-slava che ha caratterizzato la Dalmazia nella fase più luminosa della sua storia, per piegarli ad una visione nazionale se non nazionalistica del tutto anacronistica, nel suo estremismo “Blut und Boden” (sangue e suolo), se consideriamo il contesto pre-moderno di fedeltà municipali e identità multiple che contraddistingue, fino a tempi recenti, le terre sulla sponda orientale dell’Adriatico. Tipico il caso del raguseo Ruggero Boscovich (noto generalmente in Croazia come Ruđer Bošković) che sarebbe egualmente assurdo considerare croato quanto italiano, dal momento che è il prodotto dell’incontro di stirpi e di culture slavo-latine, ancorché scrittore in latino e in italiano; in questo caso è merito dello Scotti produrre la poco nota missiva che lo scienziato invia nel 1768 al conte Firmian governatore di Milano in cui rivendica, contro un’avvenuta storpiatura, il nome in cui “mi sono sempre sottoscritto: Rogerius Josephus Boscovich”. Non troppo diverso il caso del filosofo neo-platonico della Cherso veneziana Francesco Patrizi, ribattezzato, nel clima rovente dell’ultimo episodio del Risorgimento croato Frane Petrić: anche qui aspro il dibattito, che dura ancora (e di cui Scotti in realtà non si occupa nel libro di cui parliamo) tra coloro che ricollegano intellettuale dalmata al complesso clima pluri-etnico e schiettamente veneto-italiano dal punto di vista culturale della Dalmazia del nord in epoca rinascimentale, e chi invece opera una spregiudicata croatizzazione. Con il risultato di contraffare perfino il nome del Patrizi, in contrapposizione a ciò che lo stesso Patrizi affermava di sé. A tale proposito si deve all’Università di Stanford di aver posto on line la lettera autobiografica a Baccio Valori, datata Ferrara 1587 e rinvenuta nel 1886, dove Patrizi parla di se stesso: «L’anno 1529, a’ 25 d’Aprile, nacque Fran.co Patricio in Cherso terra d’una delle antiche Absinidi in Liburnia, nel Quarnaro, la qual terra o isola Plinio chiama Crexa, Tolomeo Crepsa: di padre Stefano Fabricio, huom primo tra la nobiltà. Certo è che un Stefanello venne di Bosina, con quanto poté portare da quella ruina, e comperò gran parte de’pascoli dell’isola, che sono poi state le ricchezze e il sostegno della casa […]». Quindi semmai si potrebbe parlare per il filosofo veneto-italiano di lontane origini bosniache. Eppure, facendo parte l’isola di Cherso degli attuali confini della Croazia è risultato logico, a settori autorevoli e ascoltati dell’intelligenza croata, considerarlo croato, come, ab aeterno, tutti i chersini. Caso analogo, un tema che Scotti approfondisce, è quello di Andrea Meldola o Meldolla, esaltato dagli storici dell’arte croati come il “loro” Andrija Medulić, ma il cui “unico legame con la Croazia consiste nell’essere nato a Zara oppure a Nona tra il 1500 e il 1510 e di avervi trascorso la prima infanzia. Ancora bambino egli fu portato dalla famiglia in Italia, patria di suo padre, ‘da Meldolla’, nativo di Meldola. Quel Simone, in qualità di ‘conestabilis’ vale a dire ‘ufficiale proposto alle stalle’ si trovava al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia a Nadin (Nedinum)”. Per questa fattispecie la contraffazione è di lunga data. Come ha spiegato in un saggio compreso nell’ampio catalogo dedicato al Meldola, detto Schiavone (Schiavone – Tra Parmigianino, Tintoretto e Tiziano, catalogo della mostra al Museo Correr, Venezia, novembre 2015 – aprile 2016, a cura di E. M. Dal Pozzolo e L. Puppi) Ljerka Dulibić, esperta di arte italiana attiva presso la Galleria Strossmayer di Zagabria, «la ricerca dei ‘nostri’ che servivano come testimonianza della continuità storica e dell’identità di un popolo, fu un filo rosso per l’intellighenzia croata dell’Ottocento […] e in questo contesto non deve sorprendere l’uso del nome croatizzato di Andrea Meldola, pur essendo un caso di intervento arbitrale, senza alcun appoggio nelle fonti storiche». Ma ciò che non può indignarci se scaturisce dalla penna di un intellettuale dal fervido patriottismo come Ivan Kukuljević Sakcinski (1816-1889) in anni in cui la nazione croata lottava per affermare la propria identità, fa invece sorridere se ripetuto dagli storici di oggi. Eppure nulla di veramente stupefacente. Scrive Egidio Ivetic (Un confine nel Mediterraneo. L’Adriatico orientale tra Italia e Slavia 1300-1900, p. 263): «il nation building croato in Dalmazia era coinciso con la de-italianizzazione delle sue élites», ed è in fondo nella logica della storia che ogni popolo giovane – lo erano per eccellenza quei “popoli senza storia”, come si usava dire, che si affacciarono alla civiltà moderna nel corso Ottocento – volesse, come auspicio di futuri destini, innalzare un medagliere ricco come quello delle nazioni di antica civiltà, anche a costo di carpire qualche foglia di lauro dal serto altrui. «I missionari della cultura», ha suggerito Giani Stuparich in uno dei suoi saggi vociani in riferimento al rapporto tra i tedeschi dominatori e i giovani popoli dell’Impero, «sono come i missionari della religione; accesa la favilla devono aspettar che infiammi il campo tutto, e magari tirarsi da parte a godere del calor suscitato; non portare in seno desideri di prepotenza e calcar sulle fiamme appena tendono all’alto, per paura di veder offuscata la fede propria». Da qui però a rassegnarsi al falso, come sembra concedere il citato Ivetic («in virtù di che cosa possiamo chiedere alla cultura croata di rivedere la propria narrazione storica nazionale?»), ne passa. Soprattutto se la voce che si alza, come appunto quella di Scotti, non lascia trapelare né nostalgie sciovinistiche né velleità revisionistiche, ma risuona limpida e pacata dei semplici accenti della verità.

 

Copertina:

 

Giacomo Scotti

Dalmazia regione europea

Scuola dalmata dei ss. Giorgio e Trifone

Venezia, 2014

  1. 228, senza indicazione del prezzo