Il mio Carso, edizione critica

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Pubblicato il frutto di un importante appassionato lavoro di Roberto Norbedo

di Luca Zorzenon

 

 

Nella «Collezione di opere inedite e rare» pubblicate dalla «Commissione per i testi di Lingua», Bologna, è uscita l’edizione critica del Mio Carso di Scipio Slataper. La Commissione accoglie per la prima volta la redazione di un’edizione critica di un’opera del ’900.

Frutto di un lungo, paziente, appassionato lavoro di Roberto Norbedo, docente all’Università di Udine, si può tranquillamente affermare che d’ora in avanti gli studiosi non potranno prescindere da questo testo nello studio dell’opera e della personalità intellettuale di Slataper.

Norbedo lavora alla raccolta e all’analisi di tutti i documenti (testimoni) oggi disponibili, manoscritti e a stampa, che configurano il percorso di ideazione e di scrittura del Mio Carso lungo il biennio 1910-1912. Si tratta di abbozzi contenuti in pagine di diario e taccuini, di stesure preliminari parziali, lettere, frammenti manoscritti, materiale edito e largamente inedito, riprodotto in Appendice. Tra questi, anche testi di “incubazione” risalenti al settembre del 1909 e soprattutto il manoscritto del Mio Carso pressoché completο, la redazione α, stesα tra l’agosto e il settembre del 1911 a Ocisla, con probabili correzioni che prolungano il lavoro anche nell’autunno, durante il viaggio di Slataper a Vienna, Praga, Dresda, Berlino, che Norbedo ci offre in immediata comparazione con l’edizione definitiva a stampa del maggio del 1912.

Norbedo mette giustamente in rilievo, all’inizio della sua Introduzione, quanto Il mio Carso sia «opera assolutamente originale rispetto agli schemi tradizionali della narrativa», caratterizzata da «uno sperimentalismo per molti aspetti radicale». Il mio Carso nasce entro un orizzonte storico-generazionale ben preciso, quello dei giovani colti nati negli anni ’80 del secolo XIX che si muovono insoddisfatti e irrequieti (Slataper avrebbe aggiunto di se stesso: «impersuaso e contraddittorio») dentro l’egemonia culturale crociana e marcando ancor più la distanza dagli estremi tentativi dannunziani di reinventare nella modernità la figura del poeta-vate: giovani protagonisti di quell’urgenza storica di svecchiamento e di riforma della cultura italiana che trova nelle importanti riviste fiorentine di inizio secolo la tribuna delle proprie battaglie, e più importante fra esse proprio La Voce.

E in Slataper la sperimentazione di nuove forme narrative è radicalmente legata al processo di formazione della personalità sentita come urgenza esistenziale e storica di una radicale riforma intellettuale e morale.

Scrive Slataper in un appunto di diario: «Bisogna costruire la propria vita: come il tagliapietra, seduto sulla strada, tien con le gambe ricurve il mucchio di breccia. E tutte le immagini diventano insieme dure come un’incudine su cui si picchia. Le immagini che non illimpidiscono: perché non si fondono come in un’unica soluzione. E scrivo di ciò, con ciò».

La parola da cercare e lavorare per «costruire la propria vita» diviene dura e resistente come la pietra, la scrittura è lavoro di martello (forse Nietzsche, qui, ma quanto diverso da quello dannunziano), l’immagine da produrre rischia sempre l’opacità, il mucchio di breccia pietrosa fra le mani è un cumulo di frammenti senza ordine e senso che rischia di non “fondersi” in «un’unica soluzione». Il tagliapietra è forse il più umile dei mestieri proletari che Slataper poteva scorgere nella sua città che lastricava le sue borghesissime vie con la pietra carsica tagliata e lavorata in prevalenza, all’epoca, da contadini sloveni inurbati. Per l’intreccio tra vita e scrittura, per gli echi, le allusioni, i riferimenti molteplici al complesso mondo slataperiano che si esprime nel Mio Carso, l’appunto è fondamentale.

È, dunque, con la consapevolezza che «la letteratura [può essere] un triste e secco mestiere» (come del resto anche la vita) e che perciò le occorre una parola nuova e una nuova verità, quella che «supera la parola, l’annienta, che dà la cosa direttamente» (e non si trattava più davvero di intenderla alla maniera naturalista-verista), che Slataper lavora alla creazione della sua scrittura e della sua opera. E Il mio Carso, appunto, nella lucida coscienza del suo giovanissimo autore, vuol essere una «cosa nuova», ci ricorda in primis Norbedo, citando una lettera di Slataper dell’ottobre 1912 a Emilio Cecchi, che peraltro aveva mal definito l’autore del libro un «Sigfrido dilettante».

Il mio Carso è il racconto di questa urgenza di trovare un principio di formazione. Racconto di una preparazione: altra parola ben slataperiana. Preparazione incerta, dubbiosa, sempre a rischio di scacco, condizionale e ottativa (come è del memorabile incipit), faticosa, travagliata e dolorosa nel suo percorso durante il quale il fantasma di un fallimento mortale (le pagine dello strazio per il suicidio di Anna) si affaccia tragico e inquietante fin sul buio dell’insensato nulla, prima di approdare alla volontaristica fiducia finale nell’ «amare» e nel «lavorare». Slataper nel Carso non poteva che sondare una nuova forma del narrare, sperimentare un’architettura strutturale inedita, sorvegliare un impasto linguistico estremamente variegato, e procedere così alla ricerca del senso e dello stile dell’opera, per tappe e ed elaborazioni successive. Racconto o diario? Autobiografia o mito? Impressionismo o espressionismo? Frammentismo o ricerca di una nuova organicità? Prosa o tensione alla poesia? O tutte queste cose assieme: in snodi interni e passaggi di continuità e di frattura dall’una all’altra, e fino a disorientare il riconoscimento di una sicura identità di genere.

È su questo denso scenario “sperimentale” che Norbedo interviene con il suo lavoro critico e filologico a illuminarne le diverse fasi, gli snodi, il percorso complessivo, in un’opera sì giovanile («un grido» la definì lo stesso Slataper) ma che in questa edizione critica si rivela in tutta la sua meditata densità di elaborazione in fieri delle sue micro- e macro-strutture. Il mio Carso appare, così, come un grumo iniziale di tensioni e di intenzioni d’autore che si irraggia dal nucleo originario di ispirazione e che progressivamente nel tempo deve ridurre il suo moto centrifugo e talora caotico e convertirsi nella spinta opposta, centripeta e di reductio ad unum. Un progressivo farsi e illimpidirsi di idee e immagini che deve trovare una forma che sia un ordine di senso. La storia, la fenomenologia di quel fascio di intenzioni che inizialmente circonda il nucleo poetico originario, che è il sentiero che l’autore percorre per rendere progressivamente chiara prima di tutto a se stesso la direttrice di senso della propria opera, è ciò che il lavoro di Norbedo pazientemente sdipana e ci squaderna. In questa preziosa edizione critica del Mio Carso abbiamo così sotto gli occhi quasi tre anni di lavoro slataperiano per approdare alla versione definitiva dell’opera. Edizione importante anche perché schiude a nuovi approfondimenti interpretativi che in questa sede non si possono neanche accennare.

Ma certo, anche solo a un primo sondaggio, a una prima lettura di questa edizione critica, l’interesse si concentra su alcune zone del testo e delle sue varianti, dei suoi abbozzi, delle sue correzioni (anche di rotta complessiva dell’asse ideologico), più lavorate, più ardue, più difficili.

La Calata ad esempio, da lavorare anche col «martello», che impegna Slataper intensamente e strenuamente in radicali disfacimenti e travagliosi rifacimenti, tanto dal punto di vista della struttura della narrazione quanto da quello linguistico (sintattico e lessicale); o anche la clausola finale dell’opera. Qui evidentissimo risulta lo spostamento dall’io particolare al noi collettivo (dall’ «Io voglio viaggiare e amare» della redazione α al «Noi vogliamo amare e lavorare» del testo definitivo) e tanto da suggerire l’ipotesi che lo straordinario e famoso incipit del Mio Carso (il quadruplice Vorrei…) sia intuizione narrativa tarda da cui solo all’ultimo poi scaturisca in Slataper l’idea di una chiusa dell’opera che vi risponda in forma circolare. Inizio e fine che così si corrispondono in quella chiamata in causa attiva del lettore che solo nel testo a stampa diviene addirittura fratello a colui che scrive.

Ma una rilettura del Mio Carso alla luce dell’importante lavoro di Roberto Norbedo deve appena iniziare.

 

 

Scipio Slataper

Il mio Carso

edizione critica

a cura di Roberto Norbedo

Pátron editore, Bologna 2019

  1. 160, euro 40,00