Tra scrittura e impegno politico

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Borgese (1882-1952): le opere, la politica, il nazionalismo, la questione adriatica

di Stefano Magni

 

Conosciuto soprattutto per il romanzo Rubè (1921), Giuseppe Antonio Borgese è stato anche uno dei critici letterari più acuti e più prolifici del primo Novecento italiano. Celebrato da Croce già per la sua tesi di laurea e le sue prime pubblicazioni – Storia della critica romantica in Italia (1905) e Gabriele D’Annunzio. Da «Primo vere» a «Fedra» (1909) – ha creato a inizio secolo l’etichetta che ha identificato i poeti «crepuscolari».

Il suo più importante successo letterario è stato il romanzo Rubè (1921), la storia, dagli accenti autobiografici, di un giovane che nel 1914 milita per l’interventismo italiano e si trova a fine conflitto a osservare la crisi del dopoguerra e l’acutizzarsi delle tensioni tra esponenti della sinistra e della destra radicale. Due anni dopo, con il romanzo I vivi e i morti (1923), cerca ancora di fare una sintesi della crisi del dopoguerra. Questo secondo libro non riscontra però il successo del primo. La sua produzione letteraria, anche se meno importante e abbondante di quella critica, comprende anche poesie, novelle e testi teatrali. Interessanti sono anche i libri di odeporica, soprattutto L’autunno di Costantinopoli (1929) e Atlante americano (1936). Molto meno conosciute sono l’attività di opinionista politico e la militanza in alcune fasi strategiche della storia italiana. Partito da posizioni conservatrici e nazionaliste, sostenitore della Triplice Alleanza, si è lanciato nell’esperienza della rivista Il Regno (1904-1905), al fianco di Corradini. I suoi articoli, con quelli di Papini, Pareto, Prezzolini, difendono le esigenze della classe borghese e soprattutto attaccano senza riserve il movimento socialista. Allontanatosi nel 1910 da quel gruppo, in seguito alla pubblicazione da parte di Corradini del romanzo La patria lontana, scatena una polemica tra intellettuali e testate giornalistiche attorno alla questione coloniale e alla nozione di nazionalismo. Così, dall’autunno del 1914 alla primavera del 1915, aderisce a quella corrente dell’interventismo democratico che si batteva per la partecipazione italiana a una guerra con la Triplice Intesa che aprisse le porte diplomatiche e commerciali all’Italia. La sua linea politica in fatto di espansionismo territoriale era ben più moderata di quella dei nazionalisti. Parallelamente, dal 1906, scrive per Il Mattino e La Stampa e, grazie ai suoi studi di germanistica, è per un periodo l’inviato speciale a Berlino per queste due testate. Le sue analisi del mondo teutonico e della situazione diplomatica internazionale allo scoppio della guerra sono raccolte nei due testi La nuova Germania (1909); Italia e Germania (1915), cui si affianca l’opuscolo Guerra di redenzione (1915), in cui riassume le sue posizioni interventiste. Questo impegno l’ha portato ad avere un ruolo di prim’ordine nel Corriere della Sera del periodo bellico, dove ha sostenuto la necessità di un’alleanza strategica con i popoli slavi. Fin dal 1910 ostile al recupero delle terre irredente dalmate, Borgese credeva così di poter smantellare l’impero Austro-ungarico e di poter garantire all’Italia commerci prosperi al di là dell’Adriatico. In questa fase egli vive un momento cruciale della sua vita. Nel 1916-1918, invitato dal direttore del Corriere, Luigi Albertini, insieme ad altri pubblicisti del giornale, come Amendola, Ojetti, Torre, a partecipare alle attività dell’Ufficio Propaganda, affiancato da autorità militari e diplomatiche, egli compie numerose missioni tese ad aprire un colloquio con i popoli slavi, quelle stesse genti che si battono sul fronte carsico contro l’Italia in nome di un impero che, in fondo, non li rappresenta. In questo periodo scrive memoriali ad Albertini e i suoi articoli come anche le sue lettere al direttore influenzano la politica del giornale. In tutti i documenti sostiene il carattere inutile e controproducente dell’interesse italiano in Dalmazia. Secondo lui i popoli slavi hanno una spiccata simpatia per la nazione italiana e questo potrebbe permettere all’Italia di sviluppare facilmente i commerci oltre l’Adriatico. Una posizione di stampo coloniale porterebbe a suo avviso a tensioni che possono solo nuocere agli interessi italiani. Il possesso di quelle terre, sofferto e contrastato dalle genti locali, non vale quanto i traffici che si possono avviare con i popoli slavi. Nell’aprile del 1918, nella speranza di arrivare ad un’implosione del grande nemico austro-ungarico, è tra gli organizzatori del Congresso di Roma che riunisce i popoli oppressi dall’impero degli Asburgo. I documenti di questo periodo attestano l’esistenza di un informale impegno italiano a rivalutare le pretese dalmate avanzate nel Patto di Londra del 1915. Nel 1919, i quattro giornalisti fautori dell’incontro romano, Amendola, Borgese, Ojetti, Torre, spiegano e giustificano il loro operato in un libro collettivo: Il patto di Roma.

Preso come capro espiatorio dalla base fascista per la «vittoria mutilata», minacciato all’uscita dalle lezioni, attaccato a più livelli, nel 1931 Borgese emigra negli Stati Uniti, prima come insegnante in missione all’estero, poi, dal 1934, come espatriato politico antifascista. Nel 1933 invia una lettera a Mussolini per spiegare che non intende sottostare al giuramento al partito fascista richiesto ai docenti universitari e che non può vivere in un paese in cui non c’è libertà d’espressione. Se il percorso sembra chiaramente antifascista, un suo lungo silenzio nei primi anni della dittatura, che lui spiega come rispetto cristianamente paoliniano delle leggi in vigore, ha sollevato dubbi da parte della critica sulla sua reale posizione di fronte al fascismo. Nel 1925 Borgese non compare tra i segnatari del manifesto crociano degli intellettuali antifascisti. Quando nel 1931 il regime esige il giuramento di fedeltà dei docenti universitari al partito fascista, Borgese ha la condizione privilegiata di docente in missione all’estero, il che gli permette di attendere due anni prima di fare una scelta chiara.

Solo dal 1933 la sua posizione è limpida. In America vive un nuovo momento militante come antifascista membro della Mazzini Society. Insieme a Salvemini, Pacciardi, Toscanini, La Piana, ed altri si batte per opporsi alla propaganda mussoliniana. Il gruppo di intellettuali anima giornali, scrive lettere pubbliche, partecipa a trasmissioni radiofoniche nell’intento di spiegare al popolo americano e soprattutto italo-americano quale sia il reale volto del fascismo. Le idee di questi anni di impegno sono raccolte in Golia. La marcia del fascismo (1937), una delle sue opere più conosciute.

L’esilio trasforma la sua vita. Borgese divorzia dalla moglie Maria Freschi che non lo segue in America, e si sposa con Elisabeth Mann, figlia di Thomas Mann, di trentadue anni più giovane. Insegna a Berkeley, New York e soprattutto a Chicago. In quest’ultima sede universitaria, dalla fine degli anni Trenta e soprattutto negli anni Quaranta, in collaborazione con la moglie, anima collettivi pacifisti e mondialisti con lo scopo di redigere il testo di una costituzione per un futuro governo federalista mondiale. È anche il direttore della rivista intorno a cui ruota questo universo pacifista: Common Cause (1947-1951). I suoi contatti sono sempre più internazionali. Per promuovere la causa federalista scrive a figure di spicco come Albert Einstein e Mahatma Gandhi. Sempre più interessato ad una riflessione spirituale, lascia incompiuto un progetto editoriale sulle religioni. Con l’intenzione di ristabilirsi in Italia, mentre ancora è nelle fasi iniziali di questo progetto, muore inaspettatamente nel sonno nel 1952.