La La Land di Damien Chazelle

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Rinnovamento del musical d’oltreoceano

di Gianfranco Sodomaco

 

La La Land è un modo americano di definire un luogo dove tutti cantano, come nei vecchi musical, quindi ‘il sito’ di artisti e sognatori, ma è anche, due volte, Los Angeles, di cui Hollywood è un quartiere… Che cosa ha di tanto straordinario questo La La Land, questo film che si è portato a casa innumerevoli premi (a partire dalla Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile al Festival di Venezia ai sei Oscar per migliore attrice, regia, colonna sonora, fotografia, scenografia, canzone originale, oltre a sette Golden Globe).

Vediamo di capire. Il giovane regista Damien Chazelle (il nome è di chiara origine francese) si era già cimentato in una storia del genere, due anni fa, con Whiplash, ottenendo tre Oscar: per l’attore non protagonista, J.K. Simmons, il miglior montaggio e il miglior suono. E a che storia il regista si è affezionato? A quella dell’artista (qui Sebastian/Ryan Gosling un pianista jazz, lì un batterista jazz) un po’ sfigato che vuole eccellere a tutti i costi senza firmare compromessi. Scontato che ce la farà: con l’aiuto di una donna? Ma certo, lì con l’aiuto di Nicole, che vende pop corn in un cinema, qui con quello di Mia (Emma Stone) che sogna di fare l’attrice, ma intanto serve cappuccini nel bar dei Warner Bros Studios. Quindi già visto? Beh, in un certo senso sì! E allora? Evidentemente la risposta sta, deve stare, nel modo, con cui questo giovanissimo (32 anni), intelligente regista sa lavorare con le immagini e la musica, aggiungendovi stavolta il ballo secondo i canoni classici della commedia musicale all’americana. E come ci lavora? Da professionista! Questo gli va riconosciuto.

A cominciare dall’inizio corale, plateale, di massa, dove, letteralmente, un mucchio di automobili si bloccano per il solito ingorgo ma da lì nasce subito, con uno spirito creativo notevole, l’occasione per iniziare a cantare e ballare e per offrire ai nostri due ‘eroi’ la possibilità di vedersi, di sfuggita ma comunque di incontrarsi. Sì, è la classica commedia musicale americana (e ti possono venire a mente tanti titoli, tra i tanti West Side Story del 1961) ma da subito ti accorgi che c’è qualche novità, soprattutto nel prosieguo della storia, quando i due giovani, dopo l’incantevole, fantasiosa, fase dell’innamoramento, che va avanti almeno per la prima parte del film, cominciano a ‘scricchiolare’, ad avvertire la dissonanza. Perché? Perché Sebastian ha trovato lavoro con un gruppo di colore che fa jazz ‘caldo’ ma non è soddisfatto: il suo modello è un altro tipo di jazz, più freddo, più classico e vuole trovarlo a tutti costi. Da una parte: dall’altra, Mia inizia a fare qualche provino ma gli inizi, come tutti gli inizi, si presentano difficili. Insomma nasce il fatidico dilemma: amore/lavoro. Lo spettatore medio si chiede: perché il regista, ad un certo punto, drammatizza la scena? La risposta è nella biografia filmica del ‘francese’ Damien Chazelle che ha tra i suoi maestri Jacques Demy. E chi è Jacques Demy? Chi ha qualche anno di più ricorderà certamente il suo capolavoro e cioè Les parapluies de Cherbourg (1964): un film cantato, non ballato, che racconta la tragica storia d’amore di due giovani (interpretati dalla giovanissima Catherine Deneuve/Geneviève e dal nostro Nino Castelnuovo/Guy, qualcuno se lo ricorda?) sullo sfondo della guerra d’Algeria. Guy parte soldato, ma quando tornerà tutto sarà cambiato e i due convoleranno ad altre nozze. C’è chi ha visto dunque nel film di Chazelle, in questo omaggio al cinema francese (tanto per cambiare), una operazione ‘vintage’, una dedica nostalgico-malinconica al cinema del passato, più che una memoria della commedia musicale americana (da Cantando sotto la pioggia, 1952, Un americano a Parigi, 1951 a My fair lady, 1964 ecc.) una riscoperta del cinema europeo. Sono più che d’accordo ma c’è anche qualcosa di più, rintracciabile in molti degli interventi giornalistici che sono stati scritti sul film. C’è chi ha visto (non faccio nomi) nel film anche un altro tipo di nostalgia e cioè quella dello splendore perduto della “Great America”, espressione di quell’atteggiamento espresso da subito negli ultimi mesi dal nuovo arrivato alla Casa Bianca, il signor Donald Trump, con le parole: “Faremo di nuovo grande l’America”! Possibile? Probabile. Se pensiamo alla sfilza di premi che il film ha già ottenuto (sette nomination ai ‘Golden Globe’), tutti di origine yankee, qualche conto comincia a tornare. Però Chazelle è troppo astuto per farsi prendere dal gioco delle meraviglie hollywoodiane e va a chiudere con un colpo di genio alla Demy. La coppia va in crisi, si scioglie, fino al punto che i due si sposano con altri due compagni addirittura figliando. Ma il regista vuole far sognare lo spettatore e così immagina come sarebbero andate le cose se tutto fosse filato liscio. Così costruisce un altro finale, un contro-finale in linea con quanto abbiamo visto nella prima parte del film, dunque un happy end che non dà fastidio ma è coerente con la poetica del regista: la realtà è quella che è ma abbiamo tutti il diritto di sognare.

Vale la pena allora sentire dalla viva voce le parole di Chazelle: “Io pensavo ad un accordo incerto, che combinasse il maggiore e il minore. Devo citare ancora una volta Jacques Demy, perché questo fanno i suoi film: la vita vera è piena di malinconia e c’è qualcosa di bello anche nella malinconia”.

A quel punto eravamo già sicuri che un certo numero di Oscar, in un modo o nell’altro, era assicurato.