LA MEGLIO GIOVENTÙ DI PASOLINI

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Testimonianze sull’intellettuale a Casarsa

di Graziella Atzori

 

Il 1943, con il ritorno a Casarsa dopo le tragedie della guerra, per Pasolini ragazzo è uno degli anni più belli della sua vita. Così dichiara. Si cala in una realtà rurale pre industriale ormai scomparsa. Oggi l’omologazione degli stili di comportamento e la massificazione del pensiero rendono identica la gioventù in ogni parte della penisola. Allora no, la campagna poteva ancora rappresentare un paradiso, dove la terra ti accoglie e abbraccia e se ne impari il linguaggio, che è simile a un ‘utero linguistico’, come lo definisce Giuseppe Mariuz, è come se nascessi di nuovo.

Pasolini ebbe una tale rinascita, tanto che la presenza del Friuli resta un elemento mitico ed essenziale nella sua produzione letteraria. Le poesie in friulano sono forse le sue più belle.

Significativo e doveroso quindi l’omaggio tributatogli nel quarantennale della sua morte tragica e tuttora misteriosa all’idroscalo di Ostia, con la ristampa di un bel libro rieditato di recente, La meglio gioventù di Pasolini, curato da Giuseppe Mariuz.

La prima edizione del volume risale a ventidue anni fa. Questa seconda del 2015 è stata arricchita in appendice da un book fotografico, un ‘album’ per dirla alla maniera di Grisancich, in cui il ‘come eravamo’ risalta alla luce della tenerezza. Tutti quei volti sono intercambiabili, vivide presenze di una comunità che si esprime coralmente e proprio perciò, per la coesione, l’amicizia e gli ideali condivisi, testimonia la felicità.

Parlare di felicità in tempo di guerra può sembrare un’esagerazione o una forma d’insensibilità, eppure, paradossalmente, la forza incoercibile della gioventù operava questo miracolo.

Pasolini nel ’43 si fa complice delle lotte contadine della sua terra, di braccianti e mezzadri. Li ritroviamo, nel libro, i ragazzi cresciuti a dire ciò che fu, a rievocare un’esaltazione e un’utopia.

Pier Paolo s’incunea profondamente in una cultura che non tradirà mai.

Anche lui vuole essere parte dei ‘semplici’, degli ‘ultimi’, come David Maria Turoldo li ha chiamati e accolti.

Riguardo alle tradizioni popolari, detto per inciso, si tratta di un patrimonio vivo e sempre autogenerantesi, in quanto basato principalmente sulla lingua parlata e sul canto; corpus che per Croce non è degno di essere definito arte, non essendo – per lui – all’altezza della cultura cosiddetta alta, in lingua, prodotta secondo canoni che tendono sempre a fossilizzarsi.

Pasolini che sposa il dialetto è un innovatore, l’anima della comunità, in un’Italia culturalmente arretrata.

A guerra finita e negli anni immediatamente successivi a Casarsa cresce il fermento culturale, insieme alla voglia di rinascere, comune e diffuso sentimento, questo, in tutto il Paese. La bicicletta è una presenza magica, come pure la fisarmonica nelle feste popolari. Indimenticabili le recite carnascialesche, le gite sul fiume e le nuotate nel Tagliamento, le partite di calcio, i balli che potevano durare persino 48 ore con Pasolini formidabile ballerino. Indimenticabile anche la mortadella tagliata spessa, una prelibatezza in quei tempi di miseria, che l’artista offriva generosamente agli amici, sebbene le sue entrate fossero meno che modeste.

È del 1945 la prima rappresentazione della compagnia teatrale ‘Academiuta’ di ‘lenga furlana’. Lo spettacolo si tiene a Casarsa nel locale dell’asilo, il 15 luglio di quell’anno. In cartellone Canto Corale di Villotte e a seguire una favola drammatica in atto unico, I fanciulli e gli elfi di Pasolini. È una scelta coraggiosa.

Ha ragione Mariuz ad affermare che tutto nasce a Casarsa. Tutto il Pasolini successivo: il discorso cinematografico legato al mito che sempre si contrappone al potere; il sostegno al proletariato, gli scritti corsari, il suo essere privo di rispetto umano, mai ossequiente, sincero fino all’estremo limite, nascono qui. PPP scrive in Al lettore nuovo pubblicato da Garzanti nel 1970:’Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci’.

E male ne ebbe, nel ’49, allorché dovette fuggire definitivamente dal Friuli con la madre, come un delinquente, per quello scandalo omosessuale, gonfiato ad arte dai suoi oppositori,  che gli costò la radiazione dal Partito comunista ‘per indegnità politica e morale’. Ne soffrì in modo indicibile.

Non rinnegò mai quella stagione unica di lotte e di amore, di amicizia, tanto da scriverne all’amico Archimede Bortolùs, in una lettera ancora inedita: ‘Io mi ricordo sempre di voi tutti. Compagni così cari non ne troverò neanche a girare tutto il mondo’.

Le esperienze della lotta agraria confluiranno poi ne Il sogno di una cosa, pubblicato nel ’62.

Un sogno, appunto. Casarsa, il Friuli, una terra vissuta, attraversata, ma soprattutto sognata. È l’Heimat, la ‘piccola patria’ cara a Hesse, celebrata incessantemente da Biagio Marin, per niente campanilistica, niente in assoluto razzista, ma aperta a ogni possibile avvenire, che dà radice, sostegno e senso a tutta l’opera pasoliniana. Patria, scrive Neruda, ‘parola triste / come termometro o ascensore’ ma di cui il poeta, dolorosamente, non può, nessuno potrà mai fare a meno.

Ma cosa nasce di definitivo nell’anima di Pasolini, a Casarsa? Mariuz lo individua con sguardo sicuro, è la lotta contro l’omologazione. È ‘la necessità di salvaguardare le culture e gli idiomi locali, il messaggio cristiano dei vangeli, la spontaneità e il candore delle persone semplici’. Certo, tale candore è pericoloso, possiede il potere eversivo di tutte le realtà in stato nascente, la forza della gioventù, di quella dimensione psichica indipendente dai documenti anagrafici, che mal digerisce l’oppressione. Casarsa e il Friuli sono l’eterna gioventù.

Risulta patetico, ma nobilmente patetico, constatare che le testimonianze contenute in questo libro-epopea, siano di persone in gran parte scomparse. Ombre, ormai non più qui. Sono le ombre più preziose, come quella del padre di Amleto, che può, essa sola, suggerire la verità. Le parole dei personaggi di allora, schiette, s’imprimono nella mente per dirci che cosa sia il valore, quello oggi quasi perduto. Ne riporto alcune, di un muratore, Dino Peresson di Lugugnana (1930-2014): ‘Di Pier Paolo, voglio dire ancora che ha capito il mio soffrire. Gli altri avevano un padre, avevano sempre più di me. Per questo io ero aggressivo, pirata, una belva. Aveva un grande affetto per me, perché sentiva che ero fra i più disgraziati. […] Pasolini ci ha messo a disposizione la sua intelligenza. Ti aiutava mettendoti sempre a tuo agio, senza farti mai capire che eri un ignorante. Il suo valore l’ho capito dopo.’

Capire. Forse dopo quarant’anni iniziamo lentamente a capire che cosa abbia rappresentato e ancora rappresenti un uomo così, per tutti, quanto sia attuale la sua lezione d’arte e di vita. Pasolini ha insegnato a resistere, a lottare contro ogni sudditanza, per la libertà dello spirito, necessaria almeno quanto il pane, forse anche più. Perché ‘Non di solo pane vive l’uomo’.

L’insegnante che fu, vediamolo nei vari paesi, a Casarsa, a Versutta, Ligugnana. Spesso scuole di guerra, di ripiego, allestite in locali disparati, anche all’aperto. I ragazzi pagavano in natura con un cotechino, un po’ di polenta, radicchio, e Dio sa se l’insegnante e sua madre ne avessero bisogno, anzi necessità assoluta. Anche nei momenti peggiori, mai fecero trapelare la loro indigenza. Sua madre Susanna, maestra, aveva insegnato a leggere e a scrivere a gran parte di quei ragazzini con i calzoni corti rattoppati, con l’odore di stalla e di sterco appiccicato addosso. Pasolini restituì loro la dignità di quell’odore. I ‘pasoliniani’ si ritrovarono per decenni, poi, una volta all’anno, per una pizza per un riepilogo dell’esistenza, per la dolcezza delle memorie. Uniti a ricordare chi non poteva essere dimenticato: quel professore giovane e magro, con pantaloni alla zuava, che oltre all’italiano, al latino, e storia e geografia, insegnava tanto altro, raccontava i film, Ladri di bicilette, poneva domande incalzanti, sul lavoro dei loro padri, su cosa avessero cenato e se avessero cenato, costringendoli a pensare. Quel professore diverso, e la sua frase ripetuta incessantemente: ‘Andate a scuola, studiate, altrimenti non potrete difendervi’.

La felicità, dicevo. Ma pure la tragedia. Dimenticarla sarebbe un’omissione imperdonabile. Come tacere sull’eccidio di Porzus, perpetrato nel febbraio del ’45, in cui diciassette partigiani osovani vennero trucidati per mano di partigiani comunisti, un fratricidio. Nel bosco Romagno trovò la morte anche Guido Pasolini, nome di battaglia Ermes, fratello di Pier Paolo. La notizia raggiunse lui e sua madre a Versutta, dove si erano rifugiati durante i bombardamenti su Casarsa. Il ricordo, straziante, spetta a Ernesta Pivetta vedova Bazzana, la giovane madre che per ragranellare qualche lira dava in affitto una stanza fatiscente agli sfollati. Le sue parole restano incancellabili, il tono è scabro, asciutto, esprime con potenza lo schianto che fa urlare perché il dolore è insostenibile: ‘[…] non abbiamo saputo più niente fin dopo la guerra, quando hanno riferito che era stato ucciso. Allora, è stato tremendo con la signora. Quanto ha urlato! Spalancava di notte gli scuri della finestra, col chiarore della luna si vedevano nitide le montagne, e lo chiamava a un bot, dois bos, tre bos (all’una, alle due, alle tre). Io mi alzavo, le preparavo una camomilla.

Pier Paolo la teneva in braccio, come avesse una pipina (bambola). Le voleva un bene, a sua madre, non ho mai visto una cosa simile.’

Susanna, mater dolorosa, simile ai quadri di Tiziano.

La copertina del libro riproduce un autoritratto di Pasolini del 1946. È un volto dai contorni marcati e le pennellate espressioniste. L’uomo tiene un ramoscello in bocca; il quadro anticipa tutta la visionarietà, la confidenza con l’immaginale che PPP avrebbe riversato nel cinema.

 

 

Copertina: La meglio gioventù di Pasolini, a cura di Giuseppe Mariuz, Campanotto Editore, Pasian di Prato 2015, pagine 157, €16