La musica come collante

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Intervista a Igor Coretti-Kuret, maestro di talenti

di Gabriella Ziani

 

Il suo primo violino? Glielo hanno rubato. Il secondo, se l’è dovuto vendere per mettere in salvo la sua impresa musicale rimasta a secco di finanziamenti. «Era destino – dice – che non dovessi suonare». Eppure Igor Coretti-Kuret era un riconosciuto talento. Da trent’anni però ha messo quel talento al servizio dei giovani in chiave europea, con quell’orchestra mobile, formata di anno in anno da un’ottantina di giovanissime promesse dei Paesi ex mitteleuropei che va a scovare personalmente, macinando chilometri per assistere alle audizioni, in Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Moldavia, Romania, Ungheria… È la storia, famosa ma non abbastanza celebrata, della ESYO, European Spirit of Youth Orchestra, che adesso in piena rinascita, dopo il tour del 2018 (anniversario della fine della Grande guerra) con Paolo Rumiz come voce narrante, ha anche un programma di concerti nelle capitali europee della cultura, Novi Sad in Serbia quest’anno, Timisoara in Romania il prossimo, Veszprem in Ungheria nel 2024 e infine Gorizia-Nova Gorica nel 2025.

Nato a Trieste nel 1958, due figli musicisti, il maestro dal doppio cognome a sei anni già studiava il violino. Si è diplomato al Conservatorio Tartini, ha fatto parte dell’Orchestra Giovanile Italiana di Riccardo Muti, si è specializzato in Germania, ad Hannover, e grazie ai contatti tedeschi ha conosciuto nel 1988 Yehudi Menuhin che lo ha appoggiato nel far muovere i primi passi alla scuola e orchestra giovanile europea partiti nel 1989, il cui senso è unire ciò che le guerre hanno diviso grazie a quel collante universale che è la musica. Dietro questa breve scaletta c’è però una grande storia, la storia del “maestro dei talenti”.

Vogliamo cominciare da qui, da una definizione del talento?

Il talento è personalità. Che è unica e irripetibile per ogni individuo nella storia universale dell’umanità. Purtroppo oggi è in via di totale smarrimento, la cultura dello smartphone diffonde solo stereotipi, e chi pensa di non corrispondere a questi falsi modelli si sente uno sfigato. Questi strumenti sono un’arma letale in mano a giovani impreparati. Io i ragazzi li scelgo per il suono che sanno produrre, hanno già dedicato l’infanzia e l’adolescenza alla ricerca della perfezione che la padronanza di uno strumento richiede, e poi faccio due domande stupide, per vedere la reazione. A cosa faccio caso? Alla spontaneità. Una persona spontanea è aperta a ricevere e a dare, la spontaneità è generosa di per sé.

Quanti piccoli musicisti ha lanciato finora? E tutto da solo?

Saranno circa tremila, molti di loro sono oggi in carriera nelle migliori orchestre. L’organico di solito è di 80 elementi, quest’anno per ragioni economiche sarà di 48. Per i vari strumenti ho come “tutor” una rosa di docenti selezionati, che sono “prime parti” nelle migliori orchestre mondiali: alcuni di loro sono miei ex compagni di studio, altri, invece ex membri della ESYO. È molto bello, ci si reincontra per trasmettere l’eccellenza ai più giovani, si resta in contatto… Si tramanda.

I ragazzi colgono questo spirito?

Le racconto un aneddoto. Nel 2009 per il decennale della morte di Menuhin, cui devo molto perché mi diede fiducia, che è la cosa più importante, decisi di fare un concerto particolare e ne parlai con Uto Ughi. Ah, sì, disse lui, e dove? A Bucarest, perché è la città di George Enescu, il maestro di Menuhin (di cui a sua volta Ughi fu l’ultimo allievo). Prima del concerto andammo a vedere la casa-museo di Enescu, che in Romania è famoso come da noi Verdi, e Ughi chiese di poter prendere in mano qualche suo oggetto… Ne fu così religiosamente emozionato da commuovere la curatrice del museo. Alla prova generale io dissi ai ragazzi: qui siete in compagnia di cinque generazioni, più una. Ci siete voi. Vi ho portato io. Io faccio questo grazie a Menuhin. C’è Ughi, che è stato allievo di Enescu. E quell’una in più? Risale a chi ebbe fede nel talento di Enescu, e supportò i suoi studi a Parigi. Era nientemeno che Marcel Proust. E voi, dissi, siete un anello di questa catena temporale. Facemmo una sola prova, e Ughi disse che era il più bel Beethoven degli ultimi trent’anni.

Lei dice che in un paio di settimane questi ragazzi di 12-14 anni riescono a esprimersi in orchestra. Come li allena?

Una ragazza di Praga, proprio lì a Bucarest, mi disse: adesso ho capito che cosa è la vera musica. Ti prende e ti suona lei, sei tu il suo strumento. Vero, questo è far musica, far rivivere i capolavori cercando di avvicinarsi, con l’emozione, all’idea originale del compositore. Qualsiasi cosa serve per educare i ragazzi, non aspettano altro che di sapere, ma bisogna darglielo in modo accattivante. Devono visualizzare per trasformare l’immagine in suono. Ricordo un episodio, a Salisburgo. Stavamo preparando l’Ave verum corpus di Mozart, con ragazzini dai 9 ai 14 anni, e la cantante protestava, non va bene, non va bene… Allora dissi: ragazzi, dobbiamo immaginare che il nostro migliore amico è gravemente malato, non c’è medicina che l’aiuti, possiamo solo pregare e chiedere grazia per lui, una preghiera silenziosa. Si rimettono a suonare. Una meraviglia inimmaginabile.

Si direbbe metodo socratico, maieutico. Ma lei quante lingue parla?

Italiano, sloveno, inglese, tedesco, serbo-croato, un po’ di ungherese e di romeno. I giovani pensano sempre di scambiarsi opinioni in segreto, restano sorpresi quando gli dico: ehi, ti ascolto, eh? La tv ungherese una volta mi chiese; lei come si definisce? Un provocatore, risposi. Io devo provocare una reazione emotivamente forte. Loro non sono coscienti di essere capaci, al primo impatto, quando diamo le parti molti dicono: «Questo non lo so nemmeno suonare». Eppure lo suonano, con dieci giorni di prove. Scoprire di essere capaci nonostante il livello di partenza per questi giovani rappresenta molto, è una svolta nella vita. Ne ho testimonianze incredibili. Siamo come il cieco che mette la mano sulla spalla di un altro, e non sa che anche quello è cieco, e insieme si va avanti. Una volta ho chiesto: chi è il vostro maestro? Tutti, ovviamente: «Lei!». Ma no, il vostro maestro è chi ha scritto la musica, lasciatevi prendere per mano, vi dirà quel che dovete fare: è scritto.

Maestro Coretti-Kuret, il doppio cognome è già un’indicazione, ma di che cosa?

Provengo da due mondi. Il ramo paterno dei Kuret di San Giuseppe della Chiusa-Ricmanje era stato per cinque generazioni impegnato a produrre il vino, a commerciarlo e a gestire la trattoria di paese. Dopo cinque generazioni il vino è andato in aceto. Sia io sia mio fratello Stojan Kuret, affermatissimo direttore di coro,  che ha vinto molti e importanti premi e che è docente al Tartini di Esercitazione orchestrale, ci siamo rivolti alla musica.

Mentre il ramo materno cosa porta in dote?

Il mondo della scuola, ma non solo, soprattutto la storia incredibile di mio nonno Ivan Gerdol (leggi Gherdol). Nel 1914 viene arruolato con gli austriaci, finisce in Galizia, diserta, passa coi Russi, che lo cedono ai Serbi. Viene ferito due volte, e i Serbi lo restituiscono ai Russi. Si trova a Odessa nel 1917, quando scoppia la rivoluzione bolscevica. I confini si chiudono. Per tornare a casa deve passare per Vladivostok. Ritorna appena nel ’21, dopo quattro anni. Ma naturalmente le cose son cambiate, gli imputano di aver combattuto dalla parte sbagliata e lo mandano al confino, al Sud. Per paradosso, nel ’41 quando l’Italia occuperà Lubiana, lo chiameranno lì a fare l’interprete… Ma intanto è maestro di scuola, e un giorno gli presentano una ragazza che era cugina del poeta Srečko Kosovel: senza che si fossero mai visti, avevano deciso che doveva sposare il maestro. E questa fu nonna Milka, e i due vennero ad abitare a Trieste in una casa costruita dal bisnonno, in una zona che sta a metà dell’attuale via dell’Eremo, detta allora “Gerdoliči”: lì erano tutti parenti.

A lei chi ha dettato la via?

Il nonno Ivan. Era un formidabile organizzatore culturale, un animatore della gioventù slovena, aveva fondato un gruppo teatrale, un’orchestra. E poi gliene capitò un’altra. Nereo Rocco (anche lui di origini slovene, il cognome originale era Rok) quando smise di fare il calciatore tornò a lavorare nella macelleria del padre. Un giorno entrò il sindaco Bartoli e gli disse: «Nereo, su a Rozzol, nella zona del Cacciatore, c’è un maestro sloveno che organizza tanti giovani, perché non mettiamo su una squadretta di calcio?». Di nome naturalmente “Libertas”. Gli mette sul bancone un bel po’ di soldi, dicendo che era la metà dello stipendio che avrebbe preso come allenatore. E Nereo si tolse il camice da macellaio, e divenne allenatore. Ma il nonno poi raccontava sempre la sua odissea, i cibi strani, le canzoni mongole, il terribile viaggio per mare da Vladivostok a Dubrovnik, con la minestra che per il rollìo finiva sempre versata sui piedi. Tante cose buffe, mai però parlava di guerra. Io rifaccio la stessa strada sua, ma il mio è un esercito di musicisti.

E il doppio cognome?

Sì, Kuret fu italianizzato, ora io li porto entrambi, mio fratello no. Espongo la mia storia. Il chirurgo plastico può togliere la cicatrice, ma la cicatrice resta. Ho perso il nonno paterno a Dachau, e un fratello della mamma, partigiano, trucidato dai fascisti. Con queste esperienze, la mia controreazione è: pace, dialogo. Lo dico sempre ai ragazzi. Una volta una giovane bosniaca non voleva in orchestra i serbi. Le raccontai la mia storia, le dissi che nonostante tutto dovevo le mie conoscenze a un professore tedesco, e che ho sposato un’italiana. Se però voleva andarsene… Restò, e con chi nacque un flirt? Con il ragazzo serbo, naturalmente.

Il che ci porta dritti alla drammatica situazione di guerra in Ucraina…

È una tristezza che si debba arrivare a tutto ciò. Si è fatto troppo poco per non arrivare a questo punto, è mia ferma convinzione che c’è ancora tanto da lavorare in questa direzione. Ma quando c’è una baruffa, ci sono sempre responsabilità da entrambe le parti. Raccontavo a un architetto argentino di come russi e tedeschi siano nati dallo stesso posto, Königsberg-Kaliningrad, e di come ascoltando la potenza di Wagner si comprenda la perfezione di una cultura, e ascoltando i “pianissimi” di Ciaikovskij si percepisca la dimensione infinita della terra russa. I russi non hanno romanzi con meno di 2000 pagine, per loro lo spazio è infinito. Quando hai questa dimensione, nessuno può farti paura. Il resto è propaganda.

Dunque non poteva immaginare il disastro.

All’inizio, girando per i paesi dell’ex Patto di Varsavia sono entrato in contatto con la cultura europea dei miei nonni, trovavo qualcosa di familiare fino in Moldavia. Erano rimasti uguali perché sigillati. Oggi stanno correndo nella nostra direzione, hanno paura di aver perso tempo. E perdono invece il bene più prezioso. Io inserisco sempre canzoni tradizionali dei vari paesi nei concerti. Trasmettono l’importanza dell’individualità, che però ha valore solo al servizio dell’insieme. E questa è l’Europa.

La sua storia col violino com’è cominciata?

Sempre grazie al nonno. Mi mostrò una foto di Menuhin sull’Enciclopedia dei ragazzi, quel nome mi colpì. Chi l’avrebbe detto che trent’anni dopo sarei andato a chiedergli una lettera di presentazione per dare avvio all’orchestra. Dopo un anno di vani tentativi, avevo chiesto consiglio al mio professore tedesco, Friedrich von Hausegger, che mi presentò al presidente onorario della European String Teacher Association, il quale mi indirizzò in Inghilterra, da Menuhin. Portai la sua lettera in Regione ed ebbi la prima tranche di finanziamenti. In seguito ne abbiamo ottenuti di europei e regionali, ma all’improvviso, nel 2013, il contributo fu azzerato…

E lì cominciò il dramma?

Certo. Avevamo una linea di credito aperta con le banche. Dovevamo restituire tutti i soldi. Erano a rischio l’associazione, il direttivo, il presidente, tutto. Pensai a un atto di responsabilità: vendo il mio violino.

Come dire mi vendo il cuore…

Proprio così. Tramite un liutaio cui lo affidai, lo comprò una fondazione in Svezia. Era di valore. Con quello volevo garantirmi la pensione. Che non avrò. Per forza, non pago i contributi. Il primo rubato, il secondo venduto: era destino che non dovessi suonare il violino. Adesso non ce l’ho, faccio suonare gli altri.

E a soldi come va?

Un finanziamento grande non c’è, nessun sostegno istituzionale su cui fare affidamento, abbiamo sponsor, e stiamo allargando la platea dei soci: chiunque può associarsi (informazioni su www.esyo.eu, ndr). Ci siamo presentati a Trieste con una manifestazione al Miela, e poi a Firenze nella sede della Regione Toscana, e così faremo ancora. Intanto, mentre finora i ragazzi erano ospitati dal Collegio del Mondo Unito, che quest’anno però ha altri impegni, i giovani orchestrali troveranno “casa” nel santuario di Monte Santo, sopra Gorizia, lì dove Toscanini suonò con la banda degli Alpini nell’agosto del 1917. Un altro luogo speciale, un altro messaggio.

Maestro, qual è il suo compositore preferito?

Oh, qui la risposta è breve: tutti.

 

Igor Coretti-Kuret

foto di Luigi Ottani