La notte di Elie Wiesel

| | |

La scomparsa di un testimone dell’Olocausto

di Luisella Pacco

 

Il 2 luglio è morto un uomo. Dispiace, certo, ma ne muoiono tanti.

È morto un uomo famoso, premio Nobel per la pace. Dispiace anche questo, ma ce ne sono parecchi, e altri ce ne saranno, finché esisteranno il Nobel e l’idea di pace.

Il punto, il dolore, lo strazio vero, è che sia morto un testimone dell’Olocausto, di quello che è diventato simbolo stesso del male assoluto, uno sterminio non comparabile con altri fatti della storia della (dis)umanità.

Pensate: verrà – e relativamente presto (sono tutti molto anziani, è inevitabile) – il giorno in cui non ce ne saranno più. Non un testimone, mai più. Sarà un giorno assai triste, un giorno assurdo come di terra e cielo l’una sull’altro rovesciati.

Quel giorno, se un folle negazionista dirà che non è mai accaduto, a contraddirlo ci saranno documenti, filmati, fotografie, libri e desolati luoghi: ma non ci sarà più la voce viva di alcun essere umano.

È per questo che la morte di un testimone dell’Olocausto fa più male, e procura un senso di vertigine, di smarrimento raggelante, perché somiglia un pochino alla fine del mondo.

Nato nel 1928 a Sighet, una piccola città della Transilvania, Elie Wiesel è stato deportato ad Auschwitz e Buchenwald. Sopravvissuto, è diventato scrittore, giornalista, filosofo, ha scritto cinquantasette libri e nel 1986 ha ricevuto, appunto, il Nobel per la Pace per il suo messaggio instancabile e forte. Raccomandava a chi lo ascoltava di prendere posizione, sempre. “La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, mai il torturato”.

La notte, il suo testo più noto, del 1958 e pubblicato in Italia solo nel 1980, si apre con una dolcezza quasi da favola e con una figura saggia e mite, quella di Moshé lo Shammàsh [parola ebraica che vuol dire inserviente) come se dalla vita non avesse avuto un cognome. Era il factotum di una sinagoga chassidica. Era molto povero e viveva miseramente. Non dava fastidio a nessuno, la sua presenza non disturbava nessuno. Era diventato maestro nell’arte di farsi insignificante, di rendersi invisibile. […] Io amavo quei suoi grandi occhi sognanti perduti nella lontananza.

Il dodicenne Eliezer è profondamente credente e vorrebbe dedicarsi allo studio della Cabala. Il padre glielo nega (soltanto a trent’anni, ha detto Maimonide, si ha il diritto di avventurarsi nel mondo pieno di pericoli del misticismo) e il ragazzino trova in Moshé il proprio Maestro. Restavamo nella sinagoga dopo che tutti i fedeli se ne erano andati, seduti nell’oscurità in cui vacillava ancora la luce di qualche candela mezza consumata.

Ma un giorno gli ebrei stranieri, come Moshé, vengono espulsi da Sighet. Quando riesce a tornare (solo perché, ferito, è stato creduto morto) Moshé racconta ciò che ha visto: uomini costretti a scavare fosse per poi finirci dentro, colpiti alla nuca. Nessuno gli crede. Poveretto, è diventato matto.

Anche quando giungono altre inquietanti notizie (un amico di Budapest rivela che atti di antisemitismo accadono ogni giorno: nelle strade, nei treni. I fascisti attaccano i negozi degli ebrei, le sinagoghe), l’ottimismo rinasce subito: no, in fondo, non ci si può credere, e i tedeschi sono ancora lontani dalla piccola città.

Anche quando arrivano a Sighet, c’è chi si ostina a non comprenderne il pericolo.

Gli ufficiali furono alloggiati presso dei privati, e anche presso ebrei. Il loro atteggiamento nei confronti di chi li ospitava era freddo ma educato. Non domandavano mai l’impossibile, non facevano osservazioni sgarbate e a volte perfino sorridevano alla padrona di casa. Un ufficiale tedesco abitava nella casa di fronte alla nostra: […] era un uomo piacevole: calmo, simpatico ed educato. […] Gli ottimisti esultavano: – E allora? Che avevamo detto? Voi non volevate crederci. Eccoli qua i “vostri ” tedeschi. Che ne pensate? Dov’è la loro famosa crudeltà?

I tedeschi erano già in città, i fascisti erano già al potere, il verdetto era già stato pronunciato e gli

ebrei di Sighet sorridevano ancora.

Nemmeno il padre di Eliezer è preoccupato. La stella gialla? Ebbene? Non se ne muore…

Poi è il ghetto, e anche questo viene vissuto con una serenità incosciente, ricorda Wiesel. Dopotutto si sta bene, in pace finalmente, tra ebrei, tra fratelli.

Anche questa illusione dura poco: il ghetto deve essere sgomberato. Eliezer corre in giro ad avvisare. Quale partenza? Perché?, gli chiede un vecchio, gli occhi pieni di terrore e incredulità.

Si parte, stipati come bestie, nel cuore ancora l’esile speranza che tutto questo abbia un senso.   Chissà, forse è per il nostro bene che ci deportano. Il fronte non è più tanto lontano, presto sentiremo il cannone. Allora si evacua la popolazione civile…

Quanta fiducia… Sappiamo quanto mal riposta.

Wiesel prosegue descrivendo ciò che accade nei campi. La notte, come L’inferno di Treblinka di Vasilij Grossmann, è un testo illuminante e dettagliato, eppure brevissimo (il New York Times lo definì “un volume smilzo dal potere terrificante”). Leggetelo, possibilmente a voce alta (vi si spezzerà, e così dev’essere).

Ma La notte non è solo sofferenza, morte, sterminio; parla anche d’altro, di una questione che forse altri testi non avevano proposto: che ne è di Dio?

Nel giovane cuore di Eliezer che solo poco tempo prima era palpitante di fede, Dio muore: penzola dalla stessa forca da cui penzola un bambino, esce nello stesso camino da cui escono le ceneri dei morti bruciati.

Sia benedetto il Nome dell’Eterno!, qualcuno prega ancora nel giorno di Rosh Hashanà, ed Eliezer pensa: Ma perché benedirLo? Come avrei potuto dirGli: Benedetto Tu sia o Signore, Re dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?

Sono soprattutto questi il merito, il peso e l’eccezionalità del libro di Elie Wiesel. Quando fu pubblicato (non senza difficoltà, e tagliato in più parti), stimolò una riflessione che è diventata una vera e propria “teologia dell’Olocausto”. Quale Dio aveva permesso un tale orrore? Un Dio onnipotente che poteva intervenire e crudelmente non l’ha fatto, o piuttosto un Dio ormai lontano e indifferente che ci ha dotati di libero arbitrio per poi abbandonarci al destino che da soli forgiamo? Era ancora possibile credere?

Che ne è stato del ragazzino che conversava entusiasta, la sera in sinagoga, con Moshé lo Shammàsh alla luce fioca dell’ultima candela? Cosa è successo, al di là delle atroci sofferenze del corpo, alla sua anima?

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte […] Mai dimenticherò quelle fiamme che consumarono per sempre la mia Fede.