La poesia dell’eterno ragazzo

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di Gianni Cimador

 

 

Con Stato di quiete, del 2016 (Rizzoli), Pierluigi Cappello, scomparso il primo ottobre 2017 a cinquant’anni, aveva raggiunto la piena maturità di un percorso poetico iniziato nel 1989, con la raccolta Ecce Homo, pubblicata a cura della Comunità Montana della Carnia e illustrata da Francesco Damiano Rinoldi, alla quale seguì Le Nebbie (Campanotto, 1994) che il poeta friulano considerava il suo vero esordio: a proposito di questa raccolta, Alberto Garlini parla giustamente di “sperimentalismo atletico”, dove “la poesia era una formula combinatoria di bellezza, che si dava attraverso un sapiente gioco di sillabazione, quasi avulso dal significato”.

La stessa tensione verso una scrittura autosufficiente, che recupera la metrica e le forme della tradizione, caratterizza le opere successive, dove Cappello, oltre all’italiano, usa un friulano inventato e iperletterario, che riproduce la suggestione di cantilene assorte di una dimensione fuori dalla Storia: La misura dell’erba (1998), Il me donzel (1998) e Amôrs (1999) vengono poi comprese in Assetto di volo (Crocetti, 2006), l’opera che segnala l’esigenza di Cappello di liberarsi dall’ossessione della perfezione formale e di nutrire la sua poesia con la Vita, di aprirla all’esperienza, di ‘sporcarla’ con il dolore e le imperfezioni. In questa direzione, Cappello approda all’epica collettiva di Mandate a dire all’imperatore (Crocetti, 2010), la raccolta che gli procura riconoscimenti come il Premio Montale, Bagutta e Viareggio-Rèpaci, suscitando un grande interesse, dovuto anche alla sua lotta quotidiana con la disabilità, dopo un incidente che a 16 anni lo aveva privato dell’uso delle gambe e aveva ridefinito il suo progetto di vita. Nel 2013 il racconto autobiografico Questa libertà e le poesie selezionate di Azzurro Elementare vengono pubblicati da Rizzoli, presso il quale escono anche le rime per l’infanzia di Ogni goccia balla il tango e i saggi del Dio del mare: è una consacrazione del ruolo di assoluto rilievo del poeta nel panorama letterario.

La poesia di Cappello nasce dal paesaggio della Val Canale, quella “veduta preoggettiva” in senso fenomenologico, che costituisce il “retro” di una fantasia che prende corpo nella marginalità di una terra di confine e “muove dal buio di quella faglia e dal tentativo, patetico quanto ostinato, di riavvicinarne i lembi”: come sottolinea in Questa Libertà, per Cappello quel paesaggio, sedimentato nel sottosuolo dell’infanzia insieme all’esperienza traumatica del terremoto del 1976 e al condizionamento psicologico del blocco sovietico, significa declinare il verbo “capire” e stimola l’immaginazione, perché proprio gli ostacoli fisici e geografici gli danno “la consapevolezza che ognuno di noi porta in sé un limite che è anche una soglia. Delle colonne d’Ercole che rappresentano l’invito a essere superate”.

Anche l’immobilità fisica e l’elaborazione interiore a cui conduce stimolano, paradossalmente, una “prima, faticata, conquista della libertà”, che è “disperata libertà, sospesi tra inquietudine e abbandono, slancio e inettitudine”: la poesia è confidenza con se stessi, concentrazione ed estensione del pensiero; nello stesso tempo si misura con la solitudine, obbligandoci a “scavare un fossato intorno a noi”, a coltivare la sottrazione nella condizione di separatezza di un “prigioniero intorpidito e felice” che, attraverso le parole, diventa capace di “sciogliere il nodo del male”, passando dal piano individuale a quello universale, come in un processo di trasformazione alchemica, anche perché “il cuore di ogni amore è un amore astratto”.

La lotta continua per essere leggeri, in cui si risolvono i voli immaginari della mente che Cappello coltiva sin dall’infanzia, quando legge i primi libri di avventura sospeso su un albero (soprattutto l’amato Melville), è anche lotta per superare il senso di estraneità prodotto da un corpo che è “testo da interpretare, fatto solo di sussurri” e richiede continui compromessi, strategie di sopravvivenza, atti di fiducia: il silenzio del corpo e il suo vuoto irriducibile (“un posto dove si piange / perché non c’è nessuno”) si intrecciano a quelli delle parole, a una materia ottusa e sfuggente rispetto alla quale si rivela sempre precario ogni apparente equilibrio, come precario e misterioso risulta l’ “incantesimo della scrittura riuscita”, che rende la poesia “il luogo dell’inatteso, del lapsus, dello sguardo che concepisce il mondo con la coda dell’occhio e crea un ordine di esperienza nel momento stesso in cui l’esperienza dà forma alla poesia”.

In questa capacità di assumere e trascendere il dato individuale e ‘biologico’ si riconosce la “vera” poesia che “deve accordarsi con lo sguardo tuo proprio, deve intrecciarsi alla relazione che il tuo sguardo stabilisce con i tuoi sensi e che i tuoi sensi stabiliscono con il mondo, finché il lessico stesso, le parole stesse, diventano relazione. Un intreccio da cui una forma di verità molto parziale, la tua, si sviluppa e cresce con il tuo respiro”: nella metafora aeronautica dell’“assetto di volo”, in cui, come nota Mario Turello, il poeta ha preso “sicurezza dei propri mezzi” e “si concede alle emozioni senza rischi di sentimentalismo. […] Si rivolge a se stesso per poi coinvolgerci nel suo anelito di redenzione della parola, di visione del presente sub specie aeternitatis”, troviamo la chiave per interpretare il mondo poetico di Cappello che, anzitutto nella definizione di un paesaggio come fattore di orientamento e di elaborazione della propria identità, aspira a raggiungere la “verità delle cose toccate” e a ricomporre così la frattura tra Senso e Pensiero.

Il confronto con l’esperienza e con la Storia, personale e collettiva, presuppone il superamento del mondo narcisistico del “me donzel”, un’immagine di derivazione pasoliniana associata a quella del cercatore di luna, che “è chiamato al rischio di cercarla […] è esposto alla crisi e chi è in crisi, spesso, vede molto più in là di chi non lo è”: lo stallo tra il desiderio di pienezza e l’angoscia della solitudine e del dolore si supera solo nell’apertura all’alterità, rappresentata prima di tutto nella figura femminile, in quella “Domine” che, per quanto sovradeterminata e fantasmatica come nella poesia stilnovista, costituisce un riscontro della propria esistenza, una “figura del fuori” che corrisponde alla “più alta forma di resistenza”.

Anche nel moto pendolare tra l’italiano e la lingua friulana come “parola sprofondata nell’altrove, eppure presente e viva”, in cui si traducono “tutti i trasalimenti, i salti, gli spasmi, le contrazioni di un cuore aritmico e ingorgato” (Amedeo Giacomini), si riflette la tensione a uscire dalla repressione narcisistica, anche se si tratta di un “fare inventato, supposto, più che vissuto”: l’ “Inniò”, il non luogo della poesia, è aspirazione verso una assoluta autoreferenzialità ma, nello stesso tempo, allontanamento dalla “carne” dell’esistenza. Cappello si deve sempre confrontare con il limite delle parole, incapaci di ‘vedere’ e di condurre il poeta alla “terra dei sogni” di Rondeau, evocata anche in Dentro Gerico, dove le mura della città diventano la metafora di un conflitto perenne, dentro l’identità, tra stasi e ansia di movimento, tra la necessità di autocircoscrizione e di radicamento e il bisogno di oltrepassare il limite spaziale, di fuggire in un altrove liberante.

L’insistenza di Cappello sull’atto del vedere come sostituzione della pienezza corporea rimanda spesso alla suggestione dell’insight, a una forma di visione insieme profonda, intuitiva, e riflessiva, nella quale il Sé e l’Altro coincidano, nella prospettiva di un «sapere sentito», in cui al posto dei concetti si impongono le immagini, l’evidenza dei gesti (“stai ogni giorno dentro le parole / nella forma delle cose mentre le si osserva”): in questo contatto diretto, reale, consiste infatti “la piana felicità di chi le cose/le vede nel persistere di cose”, anche se è sempre presente il senso di insufficienza delle parole rispetto alle azioni, di “uno stare senza dimora/che ci fa intangibili, sottili come un sentiero di matita”.

La volontà di trasformarsi in puro sguardo che tutto registra con estrema concentrazione e aderenza si risolve nella verità di una visione suprema che, in Dittico, si raggiunge solo a occhi chiusi e che ricerca nei ricordi le epifanie di una dimensione aurorale e originaria, stimolata dalle parole, dal “continuo rigenerarsi delle cose nel rischio e nell’azzardo della possibilità” (Daniele Piccini). In questo senso, anche l’ “azzurro elementare” o la metafora frequente della veduta dall’alto (che ricorda quella del “cantuccio” protetto nella poesia di Saba) evocano una ideale unità di luogo dove vengano meno tutte le contraddizioni, uno spazio totale, immateriale e atemporale, puramente mentale, così come lo profila Serres nella sua idea di “pantopia”. In senso opposto, invece, Gerico rappresenta il dolore che si contrappone al desiderio di “azzurri mai uditi”, la memoria individuale che ostacola l’ansia di leggerezza e di rigenerazione, uno spazio disumanizzato dove “esistere” è sinonimo di “resistere” e dove ci si scontra con il “buio della parola”, nodo irrisolto della poesia novecentesca (Ungaretti e Caproni sono i riferimenti principali di Cappello), che diventa tuttavia uno stimolo per l’analisi della condizione umana, anche se “le parole non vedono mai abbastanza / sono due occhi /rimasti dietro un muro / sono il buio di una stanza”.

In Mandate a dire all’imperatore la poesia di Cappello fa un salto decisivo verso la Storia e l’Alterità, innescato anche dalla rielaborazione dell’esperienza del Terremoto del 1976, dai sui effetti nelle vicende familiari e in quelle della sua comunità di Chiusaforte in Val Canale: il processo di ricostruzione di se stesso passa ora attraverso il confronto con le proprie radici (“questo stare dei tuoi occhi dentro i miei/ questo pensarvi vivi, liberi e scalzi/ le tasche piene di sassi, la memoria di voi/ che trema in noi/ come una stella incoronata di buio”), unica via di uscita rispetto a un Presente fluido e frammentario che non ha più valori se non economici.

In figure come quella del padre o di Silvio che intreccia canestri, Cappello riconosce l’etica di una condotta di vita in cui coincidono esterno e interno, oggettivo e soggettivo, e dalla quale deriva una poetica del ricordo come trasmissione e soggettivizzazione di un’eredità spirituale: nella poesia di Cappello la parola del padre è sempre, come direbbe Zoia, una “parola dell’oltrepassamento”, fonte di vita e di futuro; è la possibilità di dire “domani” e “questo è il figlio”, che in I vostri nomi distingue la generazione del padre rispetto a quella del figlio, che ha perso il senso del futuro e la capacità di tradurre le azioni in conoscenza a causa di una sempre più profonda divaricazione del margine tra esperienza e aspettativa.

La rivendicazione della propria marginalità, intellettuale e geografica (“Resto un uomo di montagna, / aperto alle ferite, / mi piace quando l’azzurro e le pietre si tengono / il suono dei ‘sì’ pronunciati senza condizione / dei ‘no’ senza margine di dubbio”), si esprime nella volontà di dare voce agli scomparsi, ai perdenti e al loro umile eroismo. La “memoria dei vinti” assume quanto la Storia (rappresentata nella figura dell’Imperatore, simbolo del Potere lontano dalle aree periferiche) dimentica e ignora: gli uomini di confine di una comunità marginale diventano un segno di contraddizione, che decostruisce un’identità imposta dall’alto; in essa sopravvivono traiettorie impreviste, possibilità del passato che non si sono ancora attivate (“il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate/ nello scorrere dei volti chiamati”), forme alternative di resistenza e di creatività dal basso che configurano modelli di utopia antropologica.

La potenza espressiva raggiunta dalle poesie di Mandate a dire all’imperatore, che sono anche l’espressione di una maturazione umana, oltre che letteraria, conferma quanto Gian Mario Villalta dice a proposito della “forza geometrica” della scrittura di Cappello, che “non si realizza nello sgorgare di un sentimento ma nel dargli figura precisa, trasparente, equilibrata al punto da mostrare ogni lato e insieme ogni angolo che i lati formano, al punto da aspirare alla sospensione, a librarsi su uno sfondo”: è la tensione che caratterizza, ancora più marcatamente, le poesie di Stato di quiete, che Cappello associa alle bottiglie di Morandi, che “stanno lì, composte, allineate o sparse nella loro rarefazione, ma quanto fermento c’è dentro quell’immobilità?”

Cappello prosegue sulla strada della rarefazione e dilatazione degli oggetti, per raggiungere la loro consistenza visiva pura: come enuncia in Scritta da un margine, “Non si tratta di riempire, si tratta / di far parlare il vuoto”, con la consapevolezza che “si vive / appena sopra la superficie del sogno / e tutto accade a un passo da qui”.

È forse questo il messaggio ‘ultimo’ della poesia di Cappello, che, come nota sempre Villalta, ha la densità di “un istante che guarda il suo stesso trascorrere; ne è incantato, ma lo vuole conoscere; ne è spaventato, ma lo afferra tenace”. È quindi ancora forte l’eredità di Ungaretti, la sua tensione etica. La quiete in realtà è solo un compromesso: come chiarisce Cappello, “Ci sono dei momenti nella vita in cui stare fermi è la scelta migliore, bisogna addensarsi intorno alla propria energia potenziale e lasciarsi scorrere addosso la bufera. Non è qualcosa di passivo, significa essere l’occhio di un ciclone”. La sfida con il tempo non finisce mai e sotto l’ordine apparente delle parole si riapre sempre la vertigine di ciò che non può avere misura: “scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso, non un millimetro di meno”.

Per ogni scrittore che vorrebbe tuffarsi nella vita nella sua pienezza, le parole sono salvezza e condanna, richiedono di sacrificare la vita per esprimerla nella sua luce più chiara, nel suo senso più vero: anche il dolore, e la sua luce paradossale, diventa così poesia.