La poesia secondo Villalta

Mimesis ha pubblicato le riflessioni di Gian Mario Villalta sul fare poesia

di Roberto Dedenaro

Non so se esistano delle tesi di laurea o degli studi complessivi, se esistono confesso la mia ignoranza, sull’opera di Gian Mario Villalta, lo dico perché La poesia ancora?, un saggio di centosettanta pagine che esce in questi giorni per Mimésis, fa parte di un percorso, piuttosto nutrito, di romanzi, raccolte di poesie e saggi in cui la poesia non sta sicuramente in posizione marginale, ma si accompagna ad un’abbondante scrittura in prosa, una serie che comprende più di una decina di raccolte di poesia, anche in dialetto, e quasi una decina di romanzi; poi ci sono i saggi e le curatele e non certo ultimo la direzione artistica di Pordenonelegge e di qualche evento collaterale. Insomma, verrebbe da dire, la vita letteraria in Friuli Venezia Giulia passa per una certa parte al vaglio di Villalta, e lui da parte sua, sembra dirci che in questo perpetuo lavorìo c’è un perno interno su cui tutto ruota, o forse più d’uno, ma il più importante di questi è, naturalmente, la poesia. La poesia contemporanea è piena di dibattiti e pseudo dibattiti sulla funzione salvifica del fare poesia, sulla poesia come ultima scialuppa di fronte l’imbarbarimento del mondo e della società. Ho sempre pensato, che questi dibattiti non facciano bene alla poesia, ma siano piuttosto essi medesimi una dimostrazione di debolezza estrema. Sostanzialmente la scrittura in poesia, o in rima come si diceva un tempo, dopo aver dominato l’espressione letteraria per secoli è divenuto un genere secondario e di una piccola massa d’ élite, e cercare di tirarla fuori da questo stagno minimo è un’impresa forse nemmeno possibile, né forse necessaria.

Ma fortunatamente il libro di Villalta ha altre ambizioni e si colloca in una dimensione di ricerca teorica di reale interesse; ci troviamo di fronte ad una serie di capitoli-saggio, alcuni già editi che, facendo ricorso ad una serie molto ampia di contributi e letture che coinvolgono scienze diverse, dalle neuroscienze all’antropologia, alla linguistica, alla critica letteraria, cerca risposte: «È questo il filo che più tenacemente percorre le pagine che segui­ranno, e che anima la questione che vorrei porre: se nella lingua si stringe il nodo tra la formazione del senso della vita e i suoi valori, personali e comuni, quanto ciò dovrebbe importare per la poesia? E quanto dovrebbe importare la poesia per la vita?», così dice Villalta alla partenza di questo viaggio, e d’altronde una domanda c’è già nel titolo. La questione, comunque, di quanto la modernità sia colpevole di aver sottratto alla poesia e all’uomo la sua umanità, mi si perdoni il gioco di parole, non è certo assente; è nell’introduzione al volume che l’autore fa una dichiarazione che non dà adito a fraintendimenti: «Troppo grande è stata forse l’accelerazione tecnologica, così da incidere sull’esistenza in quanto corpo, memo­ria e comunità, e farci perdere quel profondo legame tra il nostro essere umani e le lingue che ci hanno sospinto fin qui». E più avanti, «alle due parole che imperano oggi, ovvero emozione e comunicazione, è forse possibile contrapporre seriamente percezione e attenzione, nella loro più ampia semantica, che conduce da un lato a interrogare noi stessi dentro la “percezione del mondo” con il quale corrispondiamo e dall’altro alla considerazione delle acquisizioni che riguardano le radici biologiche del pensare». E lo stesso Villalta nelle pagine finali del testo sembra abbandonare l’impronta dello studioso per indossare quella del pedagogo in un appello che infine è accorato: «Il nostro tempo ha insidiato e pervertito il senso dell’effimero e di ciò che dura […] Non l’ottundimento, la droga del consumo di senso, ma quel so­stare inquieto che interroga il sentire e ridà voce al corpo, al per­cepire la nostra più vera collocazione sul lembo di terra che cal­chiamo, al pensare dentro le corrispondenze che ci legano a tutte le forme dell’esistere. Non lasciarsi distrarre, non correre verso l’esito, non credere allo scopo, ma la ricerca senza fine di un luogo – sempre in itinere – ove riconvocare il tempo della creazione». Fra questi due estremi, la chiusura di un cerchio, forse, si dipana il discorso di Villalta nei già citati capitoli-saggio, che possono anche esser letti come singoli contributi a partire dal primo che prende le mosse dal celeberrimo protagonista del film L’attimo fuggente, il prof. Keating e la sua società dei poeti morti, che diventa il modo per introdurre una riflessione sul tempo di matrice Heidegerriana, che tende ad farsi uno nella creazione poetica, sintetizzo barbaramente. Poi si affrontano con ottica quasi neuroscientifica, l’idea che la creazione, l’arte e il linguaggio siano un universale umano, biologico, per arrivare a temi più strettamente linguistici e letterari che ci conducono alla conclusione. Pubblicato nella collana Punti di vista dall’editore Mimesis, il testo di Villalta si rivolge ad un pubblico specialistico, che ha una certa dimestichezza con le scienze del linguaggio, e con altri specialismi che stanno attorno alla scrittura ed alla creatività, per esempio il piuttosto frequentato Bateson di Verso un’ecologia della mente, non vi manca, inoltre, un rifiuto di certe avanguardie e dei vani giochi di parole, mi permetto questa formula abbreviata e, su un piano squisitamente teorico, di un feticcio come Roman Jakobson, che viene incenerito, attraverso una citazione di Enzo Melandri: «Contro Jakobson: non si può parlare di funzione poetica. Parlare di funzione ne presuppone l’unicità, come nell’esempio della geome­tria euclidea; mente qui si tratta di non so quante funzioni di volta in volta diverse». Quest’affermazione di Melandri, appunto, è così chiosata da Villalta: «L’idea cosmetica della poesia, intesa come efficacia legata all’intensificazione degli effetti di superficie del “significan­te” (veste sensibile della parola), ha fatto purtroppo molta scuola». Non è naturalmente il mio ruolo quello di difensore di Jakobson, ce ne sono molti, ovviamente e ottimi, ma alla fine, quello che è la cosa forse più importante da sottolineare in una recensione, per forza breve, è che siamo davanti ad un testo pieno di cose, di idee, in cui si fa poco ricorso a critica letteraria, forse sorprendentemente, forse no, si citano Heidegger e Celan, Agamben, Cacciari e soprattutto un grande spazio è riservato a Dante Alighieri e al De vulgari eloquentia, si difende la poesia dialettale, si ergono difese all’umanesimo, alla fine non tutto ci ha convinto, ovviamente, ma su tutto ci siamo fermati a riflettere e questo ci pare un merito sicuro.

Gian Mario Villalta

La poesia, ancora?

Mimesis, 2021

pp. 170, euro 15,00