La prosa di un poeta

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Claudio Grisancich discorre con Manzoni, con Leopardi e con Čechov

di Luisella Pacco

 

Nel 2018 Claudio Grisancich ha dato alle stampe ben due libri. Di uno, Les Italiennes, ha già scritto Walter Chiereghin nel numero 38 del Ponte rosso.

A me ora tocca l’onore di parlare dell’altro, L’anima è tenebra. Un libretto “agile”, come si usa dire, piccolo tascabile maneggevole: delizioso. Raccoglie tre monologhi che si erano fatti largo nel corso degli anni, a cominciare dal 2009, con letture nei circoli culturali, poi sulle frequenze regionali di Radio 1, fino alla consacrazione al Teatro Bobbio di Trieste. Sempre apprezzatissimi da un pubblico attento e affezionato.

Il primo monologo si intitola Alessandro Manzoni, ovvero del rimorso, e ci presenta un Manzoni – anzi un “don Lisander” come familiarmente era chiamato a Milano – vecchio e avvilito, amaramente consapevole che in giro lo si compatisce: dicono che ha perso la vena, che non riesce più a scrivere, che dopo I promessi, in cui ha riversato tutto se stesso, s’è inaridito…

Ricorda con commozione l’amore per la madre che lo ha abbandonato lasciandogli un vuoto che forse è all’origine di ogni sua difficoltà. Descrive senza remore i rapporti con le due mogli, la frigida Enrichetta e la sensuale Teresa, morte entrambe.

Ed è pieno di rimorso, questo vecchio, per non aver saputo amare, dare tenerezza. Rammenta un amico caro di cui non ha saputo comprendere gli affanni. E pensa, soprattutto, dolorosamente, alla figlia Matilde che per anni ha chiesto di lui, e alla quale non ha saputo rispondere che con l’indifferenza, persino nell’ultimo istante.

Papà mio tanto venerato e caro! ti prego mandami la tua benedizione tutte le sere che mi conforti e mi aiuti a soffrire.

E non sono accorso; Matilde stava morendo, e io non mi precipitavo là a Siena da lei; non avevo il coraggio di vedere quel mio ultimo fiore la mia bambina! – reclinare il capo; quanto poco le ero stato accanto e ora, soltanto ora, che avrei potuto finalmente dirle: sono qui, il tuo papà è qui e prenderle la mano fra le mie e trovare le ultime lacrime per piangere con lei

Ripiegai la lettera, chiusi gli occhi e, con un groppo alla gola, mormorai “tu dici di mandarti la mia benedizione; oh! io non sono uomo da benedire, ma quante e quante volte il giorno, e nella notte, imploro sopra di te la benedizione del signore!.

Sono stato un vigliacco.[…]

Troppo preso dalla smania degli studi e della grandezza delle parole, gli è sfuggita del tutto la minuta bellezza e il calore del vivere davvero.

 

Il secondo monologo, Giacomo Leopardi e la grande Muraglia, presenta un poeta devastato da una solitudine che non gli ha mai concesso tregua: […] sempre ho voluto credere, sperare. Sempre voluto illudermi d’essere amato, Paolina, come io amavo. Ho amato, amato, amato, voluto sempre amare ed essere amato; donavo amore a piene mani; ma chi poteva volere l’amore di un gobbo?

Anche per Giacomo forse la ferita primigenia è da ricercarsi nel rapporto con i genitori.

La madre? Sempre a redarguire, critiche, rimproveri; con quell‘aria perennemente arcigna, scostante; non sai il male che ci ha fatto, tu credi d‘esserne immune; quando vaghezza e abbandono avrebbero dovuto stellare i nostri primi sentimenti damore, ci sentimmo sempre inadeguati, incerti; nostra madre spinse il nostro cuore dove più grigio preme il cielo del disincanto, della reticenza, e quante volte, Paolina, ne fummo schiacciati, avviliti; sentivo allora d‘odiarla con tutto il mio cuore e nell‘istante stesso provavo anche rimorso per quellonda d’odio e ferite, allora, mi si aprivano nellanimo che mi porto ancora dentro, quasi non bastassero i tanti guasti di questo mio corpo, piagato da una natura che nella carne, per chissà quali mie misteriose colpe, ha voluto punirmi.

Il padre? Duro altrettanto.

Grisancich immagina una fuga, un sollievo, un sogno, una grande Muraglia alla quale Leopardi è accompagnato da un giovane mandarino. È il riposo, è la fine. È la grande soglia…

Il terzo monologo, Io, Anton Čechov, è dedicato allo scrittore russo, alle sue memorie d’artista e di medico. Credevo nel progresso della scienza, che la scienza avesse il potere di cancellare dal mondo la miseria, l’ingiustizia sociale. Ma accanto a quella strada, c’è l’altra, che corre parallela, della scrittura come se mille voci mi chiamassero per farsi ascoltare e per raccontarsi a me soltanto.

Anton ricorda di come un tempo l’amore contasse così poco per lui.

Io non mi innamoravo mai. Giocherellavo con le donne. Loro, sì, invece. Lo so, lo sentivo che si stavano innamorando, tutte protese verso di me ... Ah, ma io sorridevo, un po’ sprezzante, e mi ritiravo nella mia mediocrità ironica, quasi a voler dire a quelle donne: Belle signore, ma perché affaticarsi con baci e sospiri per poi trovarsi legati tra figli e suoceri, padroni di casa esosi, servi ladri, vicini maligni e una vecchiaia lastricata da recriminazioni se non da odio profondo? Prestiamoci oggi a questo breve gioco amoroso per poi in un domani lontano dolcemente rammaricarci di non esserci amati e legati lun laltro per tutta la vita e, così, godere nel ricordo il rimpianto per gli amori non colti

E descrive di come invece l’amore sia accaduto – fatalmente, appassionatamente – anche per lui.

La domanda è: Grisancich si è calato nei panni di Manzoni Leopardi e Čechov, aderendovi perfettamente (con scrupolo di ricerca storica, senza dir nulla di inventato) o piuttosto questi tre grandi della letteratura sono stati “usati” da Grisancich come pretesto per parlare di sé, di un proprio lato oscuro? Ovviamente, entrambe le cose.

Parlando di questo libro, un curioso lapsus mi si è spesso infilato tra le labbra, come una briciola. Continuavo a dire L’amore è tenebra.

Non è poi così sbagliato, vero? È attorno all’amore che tutto ruota. L’amore materno mancato a Manzoni e a Leopardi, l’amore paterno mancato a Matilde, l’amore sensuale mancato a Leopardi… L’amore l’amore l’amore… Vissuto, sofferto, goduto, fallito, chiesto, ottenuto o soltanto immaginato.

Ma ora basta, inutile dire di più. Questi monologhi vanno letti, assaporati. Schiaritevi la gola, perché vi verrà spontaneo leggerli ad alta voce, e anche se non siete fini dicitori come Grisancich, ne avvertirete comunque la musicale struggente dolcezza.

Aggiungo un personale consiglio.

I due libri Les Italiennes e L’anima è tenebra andrebbero letti insieme, a pochissimi giorni l’uno dall’altro, come è capitato a me, consentendomi di intravvedere bizzarre (eppure inevitabili) connessioni.

Ad accomunarli non è solo il fatto d’avere entrambi una prefazione acuta e sensibile della stessa persona, Laura Ricci. Né la casualità di essere stati pubblicati nello stesso mese dello stesso anno. (E poi, esiste il caso?)

No. C’è dell’altro…

Solo qualche esempio.

Giacomo Leopardi appare anche ne Les Italiennes in una poesia in cui Grisancich scherza con una sfumatura d’Infinito (“sotto la luce della/ finestra mirando/ di la da quella/ interrminati/ silenzi/ di chiusi orizzonti”).

Laura Ricci nella prefazione de Les Italiennes scrive “Il tempo della scrittura è bergsoniano: non è un tempo teorico ma vissuto, fatto di istanti unici e dalla durata soggettiva, dove un anno può essere incredibilmente breve e un minuto angosciosamente o miracolosamente lungo”; ne L’anima è tenebra Čechov riannoda la sua vita in modo disordinato, bergsoniano appunto. Non vi deve sembrare poco quello che vi ho detto di me: mi sono dovuto mettere ginocchioni per raccoglierle da terra le pagine della mia storia disperse da un colpo di vento nella stanza della memoria. Vi avevo avvertito: avrei letto le prime che mi sarebbero capoitate tra le mani, senza badare a un ordine.

Il “tu, a cui Grisancich si rivolge nelle poesie de Les Italiennes e che torna – interlocutore prepotente, indispensabile – anche ne L’anima è tenebra.

Consentitevi questo gioco: metteteli accanto, fateli conversare. Vedrete, questi due libri sono creature gemelle che – sì, certo – potrebbero vivere autonomamente e camminar da sole, ma non lo gradiscono più di tanto. Si guardano, si cercano, tendono continuamente il collo l’uno verso l’altro, parlottano sottovoce, bisbigliandosi un qualche segreto…