Su Frida Khalo, ancora

| | |

Intervista a Paolo Cervi Kervischer a proposito di mostre multimediali o sensoriali che dir si voglia

di Francesca Schillaci

 

Cosa pensi di queste mostre sempre più incentrate sull’immagine multimediale? Dall’avvento del covid, ho notato che è stata incentivata la riproduzione più o meno rielaborata delle opere d’arte originali.

È il danno della nostra società. L’arte non si può sostituire con delle immagini riprodotte da un computer. Van Gogh non ha lasciato ogni pezzo della sua storia personale dentro le sue tele per essere viste in una sala in 3D. Attenzione, con questo non sto assolutamente dicendo che la tecnologia sia il male, anzi, penso che utilizzata per sperimentare nuove forme d’arte sia interessante e inevitabile, dal momento che ci si evolve in quella direzione. Ma nuove forme d’arte, appunto. Non l’arte che appartiene a quelli che sono stati i miei padri, i tuoi e di tutti quelli che l’arte l’hanno scelta come mestiere di vita. Riprodurre tecnologicamente non è assolutamente creare una dimensione artistica nuova: è stuprare qualcosa di autentico, esistito in una forma che non poteva essere diversa da com’era, per questo quindi nuova, rivoluzionaria.

 

Quindi stai dicendo che la multimedialità è una forma di surrogato, toglie l’anima dell’opera?

Non solo toglie l’anima dell’opera, se di anima si può parlare in questi tempi, ma noi ne parliamo. Ma toglie di mezzo la storia del singolo artista e del percorso individuale e sociale che ha fatto per giungere all’opera finita. La sostituzione di questo aspetto, necessario quando ti relazioni con un’opera mentre la osservi dal vivo, è lo stesso gioco meschino che è accaduto con la pornografia: ha preso il posto di tutta l’esperienza “animica”, erotica, vitale. Attraverso un video, si accede ad un amplesso di pochi minuti, senza coinvolgimento e senza attesa. Erotico non è pornografico, eppure oggi non si parla mai di questa differenza. L’erotismo non presuppone per forza uno scambio sessuale, può essere pura contemplazione, corteggiamento, osservazione. Tutti aspetti fondamentali per il raggiungimento del piacere completo di anima e corpo che, a sua volta, si rivela autentico nel momento stesso in cui l’essere umano si mette nella condizione di cercarlo. Questo porta a determinate emozioni, come la paura, l’ignoto, la ricerca del sé.  La stessa cosa vale per l’arte, in una dimensione ancora più intima e assoluta.

Sostituire il reale con l’immaginario? Perdere quindi il contatto diretto.

Esattamente. Riportare attraverso delle immagini un atto da vivere passivamente. E i sensi? La nostra esperienza sensoriale dove va a finire? La relazione con l’altro, così come con l’opera d’arte, ha bisogno di tutti e cinque i sensi. Solo attraverso l’utilizzo attivo del nostro corpo e del nostro essere possiamo cogliere e sentire tutto. Questo fa paura, perché ogni relazione è dettata da una buona fetta di imprevedibilità, di incertezza, tutte emozioni che attivano i nostri sensi e ci fanno sentire completamente la situazione che viviamo, ma soprattutto ci permettono di ricordarla per sempre, di porci delle domande necessarie per crescere.

L’esperienza diretta permette, quindi, lo sviluppo di un pensiero critico e individuale che influisce poi sulla storia personale?

Sì! È proprio per questo che un tempo l’esposizione delle opere d’arte aveva a che fare con la storia. Non era per istruire, ma per vivere un’esperienza vera attraverso l’opera originale che porta dentro, con sé, il tempo dell’artista. È una dimensione sottile, spesso impalpabile, ma inconfondibile. È questo che deve passare per fare un’esperienza di bellezza da un punto di vista intimo. La sola visione ottica non basta. Sostituire la dimensione profonda del vero senso dell’arte è il gesto più dannoso che si possa fare.

Questo vale non solo per le opere pittoriche, ma anche per gli oggetti appartenuti ad un artista, come la mostra di Frida Kahlo al Salone degli Incanti: nessun oggetto è originale, tutto è sostituito con delle somiglianze. Questo crea un senso di castrazione, di inutilità.

La mostra di Frida Kahlo è esattamente questo: la sostituzione della sua immagine attraverso dei surrogati che sostituiscono a loro volta gli oggetti che le sono appartenuti. Non solo la sedia a rotelle, il cavalletto, il suo letto. Quando sei davanti a quegli oggetti comprendi immediatamente che non sono i suoi, ma sono una sostituzione per creare una rappresentazione della sua vita. Ma perché? Mi sono chiesto con amarezza e dolore. Non te lo nego. Ho provato dolore. Di Frida non c’era nulla. Io sono stato in Messico a vedere la sua Casa Azùl. Là ho sentito tutta la sua potenza, la vita e la politica per cui ha lavorato: l’aura della sua pittura pervadeva ogni stanza. Se si è un minimo sensibili e questa sensibilità viene coltivata e curata dalla società che ci accoglie, allora è impossibile non sentire la potenza dell’arte. Frida Kahlo, come Van Gogh e molti altri, non hanno sofferto e lavorato per ridursi ad una rappresentazione iconica che non ha niente da offrire, perché è senza nutrienti. È priva di anima.

Potremmo definirla una sconsacrazione dell’arte?

Sì, totalmente. Ancor peggio: dell’aura dell’arte. Se togli il senso alla bellezza, alla storia di una bellezza, di una vita, togli la possibilità agli altri di poter vivere. A quel punto tanto vale guardare le immagini su Internet, o un film che parla dell’artista. Invece le persone pagano un biglietto per entrare in una mostra senza opere originali: vagano storditi in mezzo a delle rappresentazioni dell’arte di un artista e credono così di averlo capito, o sentito. Ma questo non può accadere di fronte a delle opere finte. I nostri padri pittori, scrittori e musicisti ci hanno lasciato la più grande eredità di insegnamento: credere nell’utilità dell’inutile. Perché alla fine, quando tutto sarà terminato, noi ci ricorderemo di come ci siamo sentiti, di quali sono stati i momenti che ci hanno resi umani, vulnerabili, aperti dunque all’esperienza “animica” e sensoriale. Nulla, assolutamente nulla più dell’arte ci può insegnare questo. Il gesto del dipingere una tela, poter osservare il colore originale che si è mantenuto negli anni, nei secoli, leggere la firma originale dell’artista in questione, immediatamente ci fa sentire in diretto contatto con l’artista in questione: riusciamo a immaginarlo, a sentirlo. Anche gli odori che la stessa tela emana sono fondamentali, la possibilità di toccare qualcosa che è appartenuto veramente ad un maestro ci fa sentire parte di esso.

A cosa pensi sia dovuta questa scelta di sostituire le opere originali con delle rappresentazioni, siano esse multimediali o semplici riproduzioni?

Tocchi un tasto dolente, ma necessario per quanto mi riguarda. Dal mio punto di vista che di arte ne ho fatta, ma soprattutto ne ho creato la mia vita e l’ho studiata, amata, credo che ci sia una volontà profonda di togliere di mezzo il pensiero critico. L’arte, per sua natura, suscita delle emozioni e, di riflesso, delle considerazioni nella persona che la “subisce”: un’opera d’arte parla allo spettatore, si impone su di esso, lo mette nella condizione di cogliere e sentire un messaggio non decifrabile attraverso le parole, perché si utilizza un altro linguaggio nella pittura, attraverso il colore, le linee, il volume, l’assenza di colore. L’opera d’arte ti osserva. Quando si esce da un museo, infatti, ci si sente spossati, molto stanchi; questo accade proprio perché l’arte ci ha invaso, che l’abbiamo capita o meno (questo è soggettivo, ognuno coglie quello che in fondo più lo rappresenta o, se si ha fortuna, che lo illumina). Togliendo tutto questo, si crea automaticamente un processo di decadimento dell’umanità rendendola passiva e, di conseguenza, inerte, facilmente manipolabile.

Pensi ci sia la possibilità di affrontare questo problema per risolverlo?

Certamente. Prima di tutto, chi sente ancora, chi pensa, chi ama l’arte, deve occuparsi di trasmetterla alla società con degli esempi da seguire, con una sensibilizzazione che parta per esempio dalla presa di coscienza che i giovani devono andare a cercare i vecchi maestri. Non succede più, ormai. E non è colpa dei giovani per forza, ma del tipo di educazione che viene impartita, o che non viene proprio data. Inoltre, la città in cui gli artisti vivono dovrebbe riconoscerli maggiormente, invece ci si occupa quasi sempre di artisti morti ormai da secoli, lasciando in ombra i maestri vivi, ancora disposti a condividere la bellezza e l’anima dell’arte, soprattutto con i giovani: nessuno più di loro è in grado di comprendere l’autenticità di un maestro, ma per farlo bisogna incontrarsi di persona, andarsi a cercare fisicamente. Oggi tutto questo sembra ormai preistoria. Telefoni, internet, chat, e i social. Si cerca l’altro virtualmente uccidendo e suicidando ogni forma umana di condivisione.

 

Paolo Cervi Kervischer

Foto di Maria Luisa Runti