Il poeta innamorato

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In due libri postumi l’intera opera in versi di Pier Antonio Quarantotti Gambini

La sua vocazione alla scrittura in versi ha origini remote, avendo iniziato a produrre versi «da ragazzo, fra i quattordici e i diciassette anni, prima di cominciare a scrivere in prosa»

Trieste è la città, la donna è Franca

di Walter Chiereghin

 

Tutta intera la vita di scrittore di Pier Antonio Quarantotti Gambini è stata dedicata alla prosa, una notevole produzione di narrativa, esercitata sia nelle forme sintetiche del racconto o del romanzo breve, sia in quella più estesa – a parere di molti troppo estesa – del suo romanzo più corposo, La calda vita. E poi, oltre a questo, anche memorialistica, reportage giornalistico, elzeviri, note di viaggio. Eppure, come racconta egli stesso, la sua vocazione alla scrittura in versi ha origini remote, avendo iniziato a produrre versi «da ragazzo, fra i quattordici e i diciassette anni, prima di cominciare a scrivere in prosa». A prestar fede a questa sua cronologia, è da osservare che subito dopo quell’esordio di scrittura, dapprima l’incontro con lo scrittore Richard Hughes, e soprattutto, poco più tardi, quello con Umberto Saba, lo indussero a non esercitarsi più in versi, fin quasi all’altra estremità della sua parabola letteraria (ed umana), quando, nel gennaio 1962, confida a Giulio Einaudi in una lettera di aver improvvisamente ripreso a scrivere – e febbrilmente – poesia, sia pure con finalità dichiaratamente narrative. Si riferiva, difatti, all’embrione di quel Racconto d’amore, destinato ad uscire postumo per i tipi di Mondadori nel settembre del 1965. Né fu quello l’unico volume di versi, perché in seguito, sempre in versi, ne fu pubblicato da Einaudi un altro, Al sole e al vento, curato dal fratello dell’autore, Alvise, contenente le poesie alla cui redazione Gambini attese fino agli ultimi istanti della sua vita, sul letto in cui fu adagiato a causa dell’infarto che lo colpì il 18 aprile 1965, causandone il decesso di lì a quattro giorni.

Cosa avesse indotto lo scrittore a tenersi lontano, per decenni, dall’idea di esprimersi in versi è abbastanza intuibile, e del resto è lui stesso a confermarlo in una lettera ideale a Saba che fu rinvenuta tra le sue carte e quindi collocata come introduzione al Racconto d’amore: «[…] dovendo narrare, per la prima volta, una vicenda non d’invenzione ma mia (mia personale), non potei fare a meno di raccontarla come l’avrebbe raccontata Lei: cioè in versi.

Come possono essere accaduti questi fatti? Il mio abbandono – intendo dire – di ogni esperimento poetico sinché Lei visse; e codesto improvviso bisogno di esprimermi nel modo ch’è stato il Suo poco dopo la Sua scomparsa?». Non c’è bisogno d’improvvisarsi psicanalisti per rispondere a questa domanda che fu l’identificazione di Saba come figura paterna che impedì al più giovane scrittore non soltanto di porsi in competizione con il poeta, ma persino di confidargli il fatto di aver tentato, adolescente, la via dell’espressione lirica. Dopo la morte di Saba, ogni inibizione ad usare gli strumenti espressivi in cui l’anziano poeta era indubbiamente maestro vennero meno e fu ad essi che Quarantotti Gambini fece ricorso quando sentì l’esigenza di addentrarsi con la scrittura nella rievocazione di quella storia d’amore sfortunata negli esiti, quant’era stata invece ammaliante e carica di promesse nei suoi momenti iniziali.

Trieste è la città, la donna è Franca, (Franca Luccardi, nota almeno a coloro che hanno letto il pezzo di Roberto Curci che precede questo), per parafrasare una volta di più il poeta-maestro, giustificati anche dalle assonanze tra il Racconto d’amore e Trieste e una donna e, soprattutto, con i Nuovi versi alla Lina che Saba medesimo così riassume in Storia e cronistoria del Canzoniere: «Sono come una poesia sola, un lungo canto di abbandono, frammisto a rimproveri, a rimpianti, ad accuse, che il poeta rivolge ora alla donna, ora a se stesso. Una storia commovente e banale (anche un poco ottocentesca); egli non può vivere né con lei né senza di lei».

Diversa in alcuni presupposti, come pure nella mancanza di un “lieto fine” che chiudesse la storia con un’aria da commedia americana, il Racconto mantiene tuttavia non poche analogie con il libro di Saba, se non altro per l’ambientazione – nella prima parte – così scopertamente triestina, ma anche per lo stordimento del poeta di fronte alle determinazioni della donna, alla sua irresolutezza che, nel caso del più giovane tra i due poeti-narratori, gli farà dolorosamente perdere la compagna di una intensa storia d’amore.

Quarantotti Gambini arriva quasi cinquantenne all’appuntamento con quell’amore per una ragazza di oltre vent’anni più giovane: « – Quarantott’anni, / e tu nemmeno / ventisei. – »: è un ulteriore fattore di turbamento, la differenza dell’età, pure se – afferma Cristina Battocletti – « certo non fu un ostacolo la differenza di età con Franca, perché pare che lo scrittore abbia avuto anche una relazione con l’attrice francese Jacqueline Sassard, da cui lo separavano ben trent’anni» (Bobi Bazlen, La nave di Teseo, p. 191). Sta di fatto che, nell’abbacinante solarità dei primi componimenti – i testi seguono un ordine cronologico, ad iniziare dall’estate del 1958 – questo elemento dell’età giuoca un suo ruolo anche poetico, come certo lo avrà giocato sotto il profilo emotivo e psicologico: fin dalle prime pagine Franca è la rondine di Pier Antonio e in questa identificazione non ci si può sottrarre ad un’altra, calzante, citazione sabiana: «Tu sei come la rondine / che torna in primavera. / Ma in autunno riparte; / e tu non hai quest’arte. // Tu questo hai della rondine: / le movenze leggere: / questo che a me, che mi sentiva ed era / vecchio, annunciavi un’altra primavera» (A mia moglie).

L’altra primavera di Gambini durerà poco: la relazione si venne avvelenando da gelosie di lei per una donna sposata veneziana, Teresa, che si presentò nello studio della pittrice per raccontarle di una relazione che durava ormai da dieci anni. «Tra una donna sposata e una fanciulla, / fuori e dentro di me fu lotta aperta» è l’amara constatazione dello scrittore, che tuttavia non sa risolversi a scegliere, pur proponendo a Franca un matrimonio, subito fieramente osteggiato dal padre di lei.

Svanisce poco alla volta, nel trascorrere della narrazione lirica che segue, l’aura di serenità e di solari trasporti vissuti intensamente nella prima estate, tutta triestina: al loro posto, con sempre maggiore frequenza irrompe il pianto, la gelosia, la separazione, dopo che Franca aveva dovuto seguire a Genova la famiglia.

La protagonista femminile della narrazione, innominata nel testo, è tratteggiata appena con intenerita nostalgia, mentre poche altre notazioni accessorie completano il quadro sotto il profilo cronologico e geografico, e poi qualche altro raro elemento: il cane di lei, la Seicento che la donna guida nelle loro peregrinazioni tra marina e Carso, ma soprattutto il paesaggio naturale, urbano e antropologico che circonda i due amanti, chiamato con straordinaria vivezza soprattutto nelle prime pagine “triestine”, ma anche negli altri ambiti territoriali in cui si svolge l’azione; Venezia, Genova, Quarto, Milano, Mantova, Verona.

La struttura narrativa che fa da sfondo alla parabola della vicenda amorosa narrata, destinata, come il lettore intuisce ben prima della metà del percorso, a un finale carico di amarezza e di rimpianti, suggerisce, con la precisione della sua scansione temporale, di essersi avvalsa di un supporto documentario, quali potrebbero essere notazioni diaristiche e, sicuramente, carteggi tra i due protagonisti, che consentono una nitida notazione quasi di cronaca, se non fosse per i contenuti intimistici sottesi alla materia trattata.

Valendosi della pregevole monografia di Daniela Picamus (Pier Antonio Quarantotti Gambini, Marsilio – IRCI editori, 2012), è possibile ricostruire con precisione la genesi del libro, probabilmente scritto a partire dal gennaio del 1962, come risulta da una lettera a Giulio Einaudi nella quale lo scrittore afferma «che all’improvviso, con mia stessa sorpresa, e per tutta una settimana, giorno e notte, mi sono messo a comporre in versi, tra la veglia e il sonno, in treno, per le vie di Milano, dove fui qualche giorno, e poi di nuovo qui, per le calli. Ne sono uscite più di quaranta poesie, che ora rileggo, con un certo sgomento: sono legate l’una all’altra e raccontano una storia d’amore. Spero di poter capire abbastanza presto se sia il caso di conservarle o di buttarle via». La storia si complica nei mesi successivi, mentre l’autore continua a sfornare altri versi ed a “limare” quelli in precedenza prodotti, redigendo al contempo altri importanti lavori in prosa, ma l’editore, progressivamente, sembra perdere interesse alla pubblicazione del Racconto, fino a rifiutarla, comunicandolo a Gambini per mezzo di una lettera il 18 febbraio 1965. Il rifiuto non fermò lo scrittore, che pochi giorni dopo chiese ad Arnoldo Mondadori di pubblicare lui il volume, proposta accettata con entusiasmo dall’editore, che ancora non aveva avuto modo di vedere il testo.

Si occuperà dell’esame della raccolta un altro poeta, Vittorio Sereni, anch’egli stimato da Umberto Saba, responsabile all’epoca della direzione letteraria della Mondadori. Gambini sollecita la Casa editrice a procedere celermente e, nel breve carteggio che ne nasce tra lui e Sereni, emerge da un lato una valutazione di merito del poeta lombardo che valuta il Racconto «estremamente limpido e avvincente alla lettura», rilevando peraltro una certa pesantezza dell’ultima parte della narrazione in versi, suggerendo l’opportunità di apportare dei tagli di alcune poesie di tale parte al triestino, che accetta di buon grado, ma non sarà in grado di valutare le proposte del suo corrispondente, perché colpito dall’infarto che lo fermò per sempre. Sereni, probabilmente, non se la sentì di tagliare alcunché senza l’assenso dell’autore, così che il volume di Mondadori si compone in effetti di tutti i centoventuno testi scritti da Quarantotti Gambini, integrati dalla lettera a Saba di cui si è detto, collocata come introduzione dopo che era stata trovata dagli eredi tra le carte dello scomparso.

Va detto che, a differenza di quanto avvenne in seguito per il secondo volume di versi dello scrittore istriano, il Racconto era stato da lui stesso progettato accuratamente e curato fin nei dettagli, richiedendo anche all’editore una particolare cura persino nella scelta dei caratteri della stampa, il che induce ad inscrivere a pieno titolo la silloge nella complessiva produzione letteraria dell’autore, nonostante le particolarità che la contraddistinguono, soprattutto in ordine alla scelta di valersi di una scrittura in versi, così eccentrica rispetto al resto della sua opera.

Cinque anni dopo la pubblicazione del Racconto, per iniziativa dell’Einaudi, esce nella collana “Collezione di poesia” un altro volumetto: Al sole e al vento, una raccolta di versi, stavolta non organizzata dall’autore, in gran parte redatti tra il marzo e l’aprile del 1965, le ultime pagine, quindi, su cui si è esercitata la creatività letteraria dello scrittore. In gran parte, dicevamo, perché alcune liriche non sono datate, e almeno una è di molto precedente (Colombi, dell’estate del ’46), a testimoniare che il periodare poetico è stato, per quanto latente, una tentazione persistente per l’autore.

Rispetto all’unitarietà della precedente raccolta, le poesie convenute in quest’altro volume spaziano liberamente su una pluralità di temi, attingendo alla memoria degli eventi biografici, ma anche ripensando le pagine di una bibliografia ormai corposa, quasi un approfondimento sintetico di momenti e situazioni riemergenti dalle opere in prosa della luminosa carriera dello scrittore. Da un lato questa articolazione dei temi ha consigliato i curatori dell’opera a suddividere le liriche in partizioni, ovviamente arbitrarie, basate più che altro sulle tematiche trattate nei testi (Poesie domestiche, Correvano i monelli, Paolo e Norma, Trieste, eccetera), mentre dall’altro lato induce a riflettere sul pensiero retrostante all’accelerato ritmo di composizione dei testi, che toccano nell’ispirazione così grande parte della vita e anche dell’opera del loro artefice. Ecco allora che, come in tanta parte della sua prosa narrativa, emerge la memoria dolce dell’infanzia, quando «Correvamo nel vento, remigando / con le braccia nell’aria alto levate. // era freddo l’inverno, e noi volando / incontro si correa alla nuova estate». E poi il ricordo dei nonni, della sua Istria fiera e perduta («chi nasce sul mio mar nasce nel vento, / e chi nasce nel vento mette l’ali, / come il leone mio che ha il libro chiuso / ed ha pronto al ruggito il fiero muso»). E naturalmente Semedella soprattutto, della grande case avita, i turbamenti dell’adolescenza («Ancora sono a Semedella, ancora / Eros mi chiama e Norma mi sorride»), mescolando vita vissuta e personaggi della narrazione, come avviene anche per un cavallo: «come il vento veloce e tutto bianco / se la guerra ti uccise, ancor nel mio / pensiero vivi e corri. Amato Falco!». In un così complessivo riesame del proprio vissuto sembra non mancare quasi nulla, non, certamente, l’amara condizione degli esuli, «Tocca soltanto a noi, buttati fuori / da quella che pur è la terra nostra / di sentirci recisi dallo stelo», la sua storia con la giovane donna che è stata protagonista del Racconto d’amore: «Qui ho lavorato, chiuso in me, mietendo / dentro di me, quel che potevo, ormai / sol con me solo, nulla più sapendo / di quella che la mia rondine chiamai».

L’insieme di questi ritorni e cento altri su tanta e variegata materia potrebbe indurre a ritenere l’urgenza che anima la penna dell’autore una sorta di premonizione della fine incombente, ma non vi è in questo alcuna razionalità: più logico appare invece pensare a una sorta di riepilogo della propria esperienza umana e, insieme, a quella artistica e la poesia si rivela lo strumento più idoneo a incolonnare gli elementi di un bilancio pensato come provvisorio e che invece si presenterà inopinatamente come definitivo, una sorta di compendio che espone in sintesi una composita messe di memorie, ponendo in relazione tra loro quelle della vita vissuta, quelle dell’invenzione letteraria e il presente dove tutte si incontrano e si manifestano alla coscienza, quasi si udissero nella quiete del suo studio veneziano «le voci e i passi nella stanza accanto…» quasi, aggiunge nel verso successivo, fossero il richiamo di una dissepolta vita anteriore.