La sonnambula sul Collio: “un ciel d’amor”

L’opera di Bellini eseguita nell’ambito della sedicesima edizione del Piccolo Opera Festival, presso il Castello di Spessa

di Francesco Carbone

 

6 luglio 2023, sono le otto di sera. Siamo a cinque chilometri da Cormons. Nel parco di Spessa, alla base del colle di Capriva su cui è costruito il castello, c’è una grande quercia. Di fronte alla quercia, il colle è stato terrazzato per farne un teatro all’aperto, capace di ospitare 500 persone. Oltre la quercia, il parco continua pianeggiante: vialetti sinuosi, alberi sapientemente disposti, erba smeraldo come in Irlanda. Più in là, la pianura friulana si stende fino all’orizzonte. Il prato attorno alla quercia sarà dunque il palcoscenico, il verde della pianura e un cielo da Tiepolo faranno da fondale. Ha piovuto per buona parte del pomeriggio. Ora le nuvole sono diradate e il sole al tramonto ne colora le pance di rosa e di giallo, le rondini sfrecciano a piccoli stormi sulle teste degli spettatori che prendono posto. Facile pensare che ancora una volta «passata è la tempesta»: circostanza magica che, per quanto rimbambiti dalla vita di città, si riconosce come uno dei momenti in cui si ringrazia di esserci.

Alle otto e mezza inizierà La Sonnambula di Vincenzo Bellini. Intanto, senza cercarle, vengono in mente corrispondenze: Bellini scrisse La Sonnambula di getto nel 1831 in un altro luogo idilliaco: a Moltrasio sul lago di Como. Aveva trent’anni, era famoso. Il periferico Leopardi della Quiete dopo la tempesta conosceva la musica di Bellini; era un amore condiviso con la sorella Paolina. I casi più belli della vita: la poesia di Leopardi arrivò dentro la musica di Bellini, si potrebbe dire, per traspirazione: Leopardi era amico di Carlo Pepoli; gli aveva dedicato nel 1826 un canto, il XIX, uno di quelli filosofici e spietati. Carlo Pepoli nel 1835 avrebbe scritto il libretto dell’ultima opera di Bellini, I Puritani, che gronda di leopardismi: «Vien, diletto, è in ciel la luna: / tutto tace intorno intorno», «Sorgea la notte folta, tacea la terra e il ciel»…

Forse Leopardi ha addirittura scritto una canzone in memoria di Bellini che morì proprio nel 1835, ma la «notizia soavissima», che si legge in una lettera del poeta e patriota siciliano Michele Bertolami, che fu in corrispondenza sia con Bellini che con Leopardi, non ha mai trovato riscontro nei documenti rimasti. Bellini muore otto mesi dopo I puritani, a 34 anni. Leopardi morirà due anni dopo, a 39. Mentre si avvicina il momento della favola della Sonnambula, si fa a tempo a fantasticare ancora un po’ sulla vita del musicista di Casta diva e del poeta di tante lune come due vite parallele: in tanti ci hanno già pensato.

Sono quasi le otto e mezza. Gli orchestrali già da un po’ sono al loro posto, si spegne in calando il brusio degli spettatori. L’ultima occhiata al dépliant, con il programma di questa sedicesima edizione del “Piccolo Opera Festival Risvegli”, cade su due foto di Maria Callas, alla quale questa Sonnambula è dedicata perché quest’anno in tutto il mondo si celebra il centenario della sua nascita. Ultimo lampo: una delle fortune di Bellini – e di Donizetti – fu di poter scrivere per la soprano (ma la definizione sarebbe problematica) Giuditta Pasta. Anche La sonnambula era per lei. Sulla Pasta si leggono pagine bellissime nella Vita di Rossini di Stendhal. Restando a Bellini, passata la stagione mitica della Pasta (e con lei delle Malibran, della Colbran: delle cantanti con voci ampie e con più registri), diventò un enigma come si potesse cantare sia Sonnambula che Norma. Bisognava avere assieme doti che apparivano contraddittorie: essere leggeri e agili come Fred Astaire e allo stesso tempo atletici e potenti come Gene Kelly. Poi arrivò Maria Callas, che cantò Sonnambula nel 1955 alla Scala con la direzione del giovane Leonard Bernstein e la regia di Luchino Visconti, che la registrò in studio due anni dopo, e che fu la Norma del XX secolo.

Una delle cose pericolose per i cantanti di oggi è che ci sono i dischi. Sapendo che sarei stato qui, ieri ho riascoltato proprio la Sonnambula con Bernstein, senza nessuna pretesa ovviamente di ritrovare qui qualcosa di simile: senza nessuna pretesa in generale. Soprattutto, non serve odiare i dischi come li odiava il grande direttore Celibidache per riconoscere che un disco, per quanto magico, è una fotografia, mentre un’opera o un concerto dal vivo sono appunto la vita.

Ed eccoci: il cielo è ancora azzurro, il maestro Marko Hribernik sale il sentiero alla destra del prato della quercia: s’inchina al pubblico, stringe la mano al primo violino, alza la bacchetta per dare l’attacco.

Prima sorpresa: nell’ouverture l’amalgama della “GO! Borderless Orchestra”, tra archi, fiati, legni ecc. – l’esito di quella che si chiama la concertazione – è bello: il suono è caldo, omogeneo, lirico, cantabile. Sarà così per tutta l’opera. Ci saranno momenti, i più difficili, i concertati – quando orchestra, voci soliste e coro cantano assieme, perfino magici: forse soprattutto l’A fosco cielo, a notte bruna e il finale del primo atto.

La sonnambula racconta di una festa di matrimonio in un villaggio svizzero, una Svizzera da pubblicità della cioccolata Milka, nella quale arriva il giovane Rodolfo, il nuovo conte venuto a prendere possesso di quella terra. Si sa come sono i nobili: nonostante la festa nuziale, il conte corteggia la futura sposa Amina: siamo vicini alla scena del matrimonio tra Zerlina e Masetto nel Don Giovanni di Mozart, ma qui non accadrà nulla d’irreparabile. La notte, Amina si rivela sonnambula: credendo di essere con l’amato Elvino si abbandona tra le braccia del conte; l’invidiosa Lisa racconta tutto al futuro sposo che furibondo rompe il fidanzamento. Il conte Rodolfo, che a differenza di don Giovanni è pur sempre un gentiluomo, spiega a Elvino l’equivoco; ma sarà creduto solo quando Amina apparirà di nuovo sonnambula. Compreso l’errore, l’amore trionfa.

La sonnambula racconta dunque una storia da nulla: è una farfalla, un’iridescente bolla di sapone, qui a Spessa il sogno di una notte d’estate. È un’opera di giovani, e davvero giovane è il cast di questa edizione. Tanta giovinezza è una delle sue bellezze: importa poco, qui e adesso, che le voci possano ogni tanto suonare acerbe. Viene in mente che quando Bernstein – di nuovo lui – diresse e registrò la Bohème a Roma con un cast giovane come giovani erano i protagonisti del dramma di Puccini, fu accusato di aver diretto divinamente l’orchestra di Santa Cecilia ma di aver scelto voci ancora imperfette. E fosse anche stato…

Amina qui è Nina Dominko, che mi pare canti sempre meglio man mano che l’opera si svolge: canta benissimo la seconda scena di sonnambulismo, la più celebre dell’opera, Ah, non credea mirarti (con dei rubati meravigliosi in cui si fa tutt’uno con l’orchestra). Elmino, il fidanzato un po’ sciocco e impulsivo, è Juan Antonio Sanabria Kamilla, tenore dal bel timbro che sarebbe stato più efficace e credibile se non avesse cantato quasi sempre con una o tutt’e due le mani in tasca; il conte è il basso Alessandro Abis, voce nobile che arriva ricca d’armonici nell’aria sempre più fresca e scura della sera.

La regia, a parte le mani in tasca di Elmino, non inventa nulla che disturbi, che di questi tempi non è poco. Del resto, proporre Sonnambula nel verde delle colline del Collio gode di un vantaggio che può dare solo il buon Dio: quando la mugnaia Teresa canta «Ma il sol tramonta: è d’uopo /prepararsi a partir», in fondo, dietro le colline, c’è il sole che tramonta davvero.

 

Il Teatro di Verzura

Castello di Spessa

Capriva del Friuli (GO)